sabato 16 maggio 2015

VITA

Un minuto, un lunghissimo minuto è appena trascorso; eravamo noi due: io e la pagina bianca di fronte a me. Io: anoressica, bulimica, venti anni, Sara. Lei: intatta, candida di una purezza vuota, ma pronta ad ascoltare qualsiasi cosa io abbia da dire. Eppure di fronte a tanta libertà, di fronte a tanta intimità, io mi sento costretta, soffocata, oppressa da una pressione che mi toglie il respiro, che mi lacera il cuore, che confonde i pensieri, cambiandone la forma, le proporzioni, i toni, i colori, la veridicità, che priva le emozioni della loro autenticità, che mi mostra una realtà in cui regnano soltanto corruzione, devastazione, violenza, ipocrisia, in cui le relazioni umane collocano le loro fondamenta in un terreno sabbioso di superficialità e opportunismo per, poi, elevarsi nei piani più alti, fino alla falsità, alla mancanza di rispetto, alla perdita della dignità. E come si può anche solo voler vivere con una visione così straniante della vita, come si può stare nel mondo ed affrontarlo se lo si disprezza, se lo si teme, se se ne diffida? Non si può, non è possibile. Qual è il compromesso? L'isolamento: vedere ogni giorno solo e soltanto il proprio riflesso; e con riflesso non mi riferisco solo al riflesso allo specchio bensì, soprattutto, alla proiezione di sé, dei propri pensieri e dei propri stati d'animo sugli altri, così che perfino quel poco che ci restava, che ci apparteneva, che ci distingueva si disperda e si espanda sull'ambiente che ci circonda. L'isolamento porta a non sapere più quale sia la linea di confine che ci separa dal mondo circostante ma che, ancor più, ci definisce, ci dà una forma, ci dà un'identità, ci dà uno strumento non soltanto forte e robusto per muoverci e combattere ma anche plastico, flessibile per cambiare ed evolverci. L'isolamento porta alla perdita della consapevolezza del proprio corpo ma, soprattutto, di noi stessi: si arriva al punto in cui sembra che, di noi, soltanto il riflesso sia reale, percepibile attraverso i sensi e attraverso la nostra proiezione su chi vive con noi o su chi ci sta più vicino. E tale riflesso è tanto reale, quanto odioso e intollerabile. Vorremmo distruggerlo. L'istinto di sopravvivenza ed il principio di autoconservazione non valgono più: il nostro disprezzo è rivolto verso ciò che vediamo negli altri di noi, nasce dal contrasto tra ciò che gli altri vedono in noi e il vuoto e l'inesistenza che abbiamo come idea di noi stessi. In una realtà distorta in cui il mondo che ci circonda e il nostro corpo, il nostro io non sono più distinguibili, ciò che sentiamo un po' più personale, proprio, ossia i pensieri, le emozioni, le idee, le opinioni, non deve essere espresso. Dove finisce tutto ciò? Resta tutto inedito, segreto, ignoto, ma il peso è enorme. Le alternative sono due: illudersi di avere forza e controllo, imporsi sul cibo e credere di poter sostenere il carico di “non-espresso”, di “non-esternato” che grava dentro di noi; oppure percepire con angoscia lo squilibrio tra pieno e vuoto, tra la pesantezza di vivere e la propria inesistenza nel mondo, tra i compiti/doveri da svolgere, gli impegni, le scadenze da rispettare, le promesse da mantenere e l'ozioso non-vivere dell'isolamento, tra la fatica e la frenesia del vivere ed il lento cullarsi nel lasciarsi andare alla morte. Ciò porta a colmarsi di frustrazioni per non essere in grado di: tenere la strada, mantenersi in equilibrio stabile, affrontare il mondo che ci circonda con sicurezza, camminare tutti d'un pezzo.
Perché continuare ancora a fingere di essere qualcuno? Perché aspettare ancora? Quando arriverà la fine?
Non è tutto perduto, possiamo esistere ancora, possiamo vivere nuove situazioni, nuove relazioni, nuove emozioni, sebbene possano rivelarsi sia positive sia negative: e la cosa più bella sarà sentire e percepire queste nuove occasioni come nostre. Lo so, ne sono certa, e non perché ho già superato il disturbo o non ne presento più i sintomi, ma perché ho imparato a riconoscermi delle conquiste, a gioire dei miei - e ribadisco i “miei” - passi avanti e delle mie conquiste giornaliere, a percepire e a distinguere con comprensione e compassione le difficoltà che incontro, a perdonare i miei errori e le mie ricadute. Alcuni dei passi più difficili da compiere sono riacquistare consapevolezza di sé, comprendere di stare male davvero, riconoscere di avere bisogno di aiuto, chiedere soccorso. Chiedere aiuto: per me si tratta di uno degli ostacoli più imponenti ed impegnativi da superare. Chiedere aiuto presuppone, oltre alla scelta del destinatario della richiesta, che deve necessariamente godere della nostra più cieca fiducia, la preventiva percezione della possibilità di un pericolo e, soprattutto, l'umile presa di coscienza di non essere in grado di superarlo senza un sostegno esterno. È, però, importante, precisare che ciò non sottintende che il percorso che porta a superare momentaneamente un ostacolo sia facilitato o non sia compiuto da noi stessi solo perché abbiamo avuto necessità di un ausilio: esso richiede molta fatica e molta forza di volontà; il destinatario della richiesta di assistenza ci fornirà il necessario bagaglio di strumenti per affrontare uno stato d'animo e/o una difficile circostanza, ma saremo noi, in quanto persone esistenti, a farne uso in modo costruttivo. Potremmo fallire, ma fare un passo indietro non equivale a cominciare dal principio il cammino: la volta successiva utilizzeremo una precauzione in più.
Concludo con una piccola considerazione: scrivendo queste poche righe mi chiedevo a chi mi rivolgessi e chi fosse il mio reale destinatario. Mi ha sfiorato l'idea di un giudizio, con più forza mi ha stuzzicato la rabbia di non essere in grado di esprimere ciò che vorrei e di non trovare mai le parole giuste. Ma poi mi sono detta: io esisto, io penso, io scrivo, io condivido delle parole, io trovo la forza di non nascondermi e di portare la mia piccola testimonianza di fronte a tante persone che compiono la stessa scelta, pronte ad aiutare ed essere aiutate, a dare conforto ed essere confortate, a raccontare ed ascoltare. Cosa c'è di più bello di tante persone che scrivono ciò che sentono dentro? Ancora più bello è pensare che ognuno sa che le sue parole non sono altro che una minuta parte di qualcosa di molto più grande, che, però non potrebbe esistere facendone a meno, perché mancherebbe di una sfaccettatura, di un punto di vista: questo concorso letterario evoca in me l'immagine di una pagina di vocabolario aperta alla voce “vita”, in cui ogni testo, e quindi ogni partecipante, ha contribuito in modo assolutamente equivalente alla stesura del significato.


Sara Delli

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