mercoledì 30 settembre 2015

Samantha



Faceva freddo ed era marzo, i fiori faticavano a schiudersi e il cielo prometteva sempre nevicate, un’insolita atmosfera avvolgeva questo sud italico, saturo di lamenti e litanie, di credenze e vergogne. Un silenzio accartocciava le parole non dette, quelle racchiuse in un umore difficile da decifrare, in un corpo che parlava senza farsi sentire. Era fragile Samantha, lo era sempre stata, vittima del paesino, delle situazioni che l’avevano fatta diventare grande quando ancora avrebbe dovuto stringere a sé una bambola, giocare a nascondino, disegnare la vita su un foglio di bambù, colorarla con le tempere che tanto amava. La vita, invece, ti coglie alle spalle, ti prende e gioca, ma ti fortifica, così almeno ho sentito dire. Succede per caso, quando sei ancora intento a decifrare il volo vorticoso di una farfalla che ignora la brevità del suo essere, quando cerchi di gettarti negli odori del passato che non ritrovi tra maglioni sgualciti, tra vecchie stoviglie che non conservano nulla, neanche temerarie tracce sfuggite al detersivo. Non è mai troppo tardi per incominciare: una partita a scacchi, un libro comprato tempo addietro, un corso lasciato a metà. Non è mai troppo tardi per scoprirsi: ci si trova negli accordi stonati di un ritornello che non esce, tra le righe di un quadernetto che avevi perso, nei giochi di cui non ricordi più il metodo, nei viaggi e nei sogni, nelle ore di macchina e di silenzio che accompagnano un’avventura o una cura.
Samantha aveva venduto ogni specchio, si conosceva, si sapeva. Non aveva bisogno di essi, ma solo di affetto, di calore, di passione, di occhi pieni di vita, in grado di infonderle fiducia. Aveva barattato le sue certezze una domenica mattina, al mercatino in piazza, sotto sguardi severi e colmi di pregiudizi: aveva conosciuto una donna carica di odio, approfittatrice che, però, le dava forza e coraggio in cambio di energie, minuti, speranze. Era stata subito bene, qualcuno le aveva preso la mano, l’aveva compresa cogliendo le sue innate debolezze. Aveva preso a sentirsi forte, avrebbe potuto combattere finalmente, senza chinare la testa, senza diventare rossa. Le amiche la videro rinvigorire, prendere coscienza, spavalda. La casa era fredda e l’orologio segnava sempre l’ora tanto attesa, quella del pranzo, in cui, lenta, lei avrebbe potuto muovere le sue pedine, perché quel piatto non conteneva cibo, ma nascondeva proprio la sua scacchiera. I rigatoni erano mossi come lente sagome indistinte, movimento che scrollava di dosso il condimento di turno, poi con un gesto finale, come chi bara e vuol vincere a tutti i costi, tutto finiva per terra, se il cane era in casa, oppure nelle tasche di pantaloni, tute. Un meccanismo perfetto senza inceppi, né possibilità di errore. Samantha vinceva, non aveva rivali nonostante giocasse in trasferta, una casa mai sentita tale, un misto di sentimenti contrastanti che le cucivano addosso quell’aria distratta e in attesa, attesa di vivere, perché in fondo è questa la meta, sia quando lo si capisce in tempo che quando tutte sfugge velocemente, come una giostra impazzita. L’anoressia è un vestito che non conosce taglie, ognuno se lo fabbrica per sé, ognuno è sarto, ci si sceglie il tessuto giusto, il cotone, l’ago adatto. L’anoressia è la compagna che non fa domande, ma dà ordini, il maestro che dirige l’orchestra in silenzio: è la risposta alla solitudine interiore, uno strumento di lavoro, una curva a gomito, la luce abbagliante di un auto che non ti fa vedere oltre, ma ti rapisce, ti fa procedere nel buio indistinto della notte, che poi è anche un po’ la vita.
Samantha ne ha giocate di partite, ne ha vinte tante, ne ha perse altrettante. Perdeva ogni giorno nella sua soddisfazione personale, in quelle mosse precise che le donavano forza, ma che le toglievano il fiato poco per volta. In questa vita ci si stanca anche di vincere, ci si stanca di perdere, di non vincere, di perdere nonostante la fatica. Samantha sapeva di essere il burattino insicuro della signora gentile conosciuta in quella domenica di marzo, ma amava poter essere, avere le sue carte in mano, poterle spendere alla prima occasione. Samantha sognava ancora, non mangiava, ma desiderava se stessa, quella bambina che faceva arrabbiare i nonni con i suoi giochi, si specchiava nelle foto scolorite dal tempo e si sentiva diversa, quasi come se descrivessero un’altra vita, un’esistenza lontana e ormai andata. I sogni, ah i sogni, questi signori senza anima, senza materia, in grado di farci desiderare la vita, farci splendere gli occhi ed emozionarci innanzi alla quotidianità: un anziano che non rinuncia alla passeggiata domenicale, a prendere un aereo e raggiungere i nipoti lontano, un tramonto in un pomeriggio di dicembre, una mela donata a un clochard, la luna che a sera illumina i campi di pomodori, gli ulivi che filtrano i paesaggi lontani. Samantha mi ha insegnato tanto, a correre senza catene, a resistere nonostante tutto, a sciogliermi dai vincoli che attanagliano l’anima.
Ora corre veloce, come una locomotiva che non conosce epoche e che sfida il nuovo per sentirsi ancora utile. Corre veloce e libera, perché, in fondo, anche quella vecchia signora, dagli occhi scavati e le gote nere, un vestito troppo corto e un neo sotto il mento, non era altro che l’accumulo delle proprie paure, delle proprie ansie, delle sue insicurezze, che andavano solo stese al sole in un pomeriggio d’autunno, tra le pause di uno scirocco impavido.


Giuseppe Zanzarelli

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