mercoledì 20 gennaio 2016

Rinascere



10 marzo 2010.
Quella mattina mi alzai presto per andare a Fidenza all'ennesima seduta di psicoterapia, in quello studio che ormai era la mia seconda casa da quasi 2 anni.
Aspettai il mio turno come sempre, sfogliando i vari numeri di “Emozioni e Cibo” per ammazzare il tempo, nonostante li conoscessi quasi a memoria ed entrai in quella stanzetta accogliente come ogni lunedì mattina, pronta ad aprire il cuore sulle vicissitudini della settimana. Non avrei potuto farlo altrove, con nessun altro.
Quella volta raccontai, per l'ennesima volta, di aver avuto una settimana senza alcuna abbuffata e che il vomito autoindotto era ormai un lontano ricordo, il tutto riassunto con un semplice “Carlotta, non mi sto più facendo del male! E non sai quanto io ne sia orgogliosa!”. Un traguardo che diventava sempre più grande, dopo una corsa infinita, con numerosi ostacoli e passi indietro, durata più di 9 anni.
Mi aspettai di vedere quel suo solito sorriso di cuore illuminarle il volto, le sue mani aggraziate prendere l'agendina per fissare i successivi appuntamenti... e, invece, lei mi guardò intensamente, con quei suoi occhi dolci e pieni di luce e mi disse: “Petra, sento che ci vedremo ancora per molto poco, tu sei guarita”. Le chiesi di ripetere quelle parole, pensai di non aver capito bene o di essermi immaginata tutta la scena in un mondo parallelo.
Lei ripeté ogni singola parola e mi sorrise. E quel sorriso mi sembrò il più bello mai visto in tutta la mia vita. Farfugliai un timido: “E io, adesso, cosa faccio?”. Con il senno di poi mi sentii stupida per quella domanda, ma al momento non ebbi altre parole.
Sarei stata da sola a gestire quell'enorme spada di Damocle (perché malattie subdole come questa ribussano alla porta alla minima difficoltà, bisogna sempre stare in guardia!), non avrei più avuto la mia amata dottoressa Carlotta Bocchi ad ascoltare i miei piccoli e grandi guai... e, soprattutto, avrei dovuto prendermi la responsabilità di vivere affrontando le vicissitudini in modo sano, senza cercare scappatoie del cibo. Perché così avrei fatto, nonostante la bulimia fosse la mia corazza solida con la quale mi proteggevo dal mondo, sulla quale facevo rimbalzare i problemi che mi piombavano addosso come schegge impazzite. Impensabile tornare indietro, sarebbe stato un affronto a tutti i sacrifici e al lavoro fatti, uno schiaffo a chi aveva affrontato con me questo percorso.
Abbracciai forte quella meravigliosa psicologa che, prendendomi per mano con grande pazienza e dolcezza, mi aveva aiutato a dare un lieto fine a quel capitolo così buio della mia vita. Tutti i soldi e i ringraziamenti del mondo non l'avrebbero mai ripagata abbastanza per avermi donato la speranza di una nuova vita, per tutti quegli strumenti che anche adesso uso per difendermi da quella bestia nera. Questo pensai durante quell'abbraccio, sulla soglia di quella porta che ormai avevo varcato tante volte, troppe. Poi uscii, respirando a pieni polmoni quell'aria freschina che mi solleticava il naso. Mi sentii finalmente libera, affrancata da quell'etichetta, “Bulimica” e riappropriata della mia vera identità. Iniziai ad essere finalmente Petra, ciò che avrei sempre dovuto essere ma che avevo lasciato in qualche angolino della memoria, in attesa di riemergere da quel sonno dell'anima, profondo ed infinito.
Quel giorno non avrei dovuto lavorare, quindi feci una lunga camminata nelle strade del centro di Fidenza, non tenni minimamente la cognizione del tempo. La bulimia nervosa mi aveva portato via i miei anni più belli e niente e nessuno me li avrebbe più resi, ma in quel preciso momento capii che, nonostante questo (cosa alla quale non avrei potuto porre rimedio), avrei potuto fare la scelta di godermi ogni attimo da quel preciso istante. E nessuno l'avrebbe potuto impedire, se non io stessa.
Guardai ogni singola vetrina dei negozi con occhi nuovi, con la voglia di premiare questo mio grande passo ma scegliendo bene. Non perché ci fossero grandi budget da rispettare, ma perché quel regalo sarebbe dovuto essere speciale. Almeno la metà di quanto mi ci stavo sentendo io, speciale. Alla fine scelsi un profumo che ispirava libertà, un misto di dolcezza e forza che rappresentava perfettamente il mio amore per i contrasti e le grandi lotte fatte che mi avevano rafforzata sempre di più. Lo feci anche incartare, come se l'avessi dovuto regalare ad un'altra persona (che alla fine così sarebbe stato, l'avrei regalato alla nuova Me), scegliendo accuratamente anche i colori di carta e fiocchetto ben arricciato. Sentii di meritarmi quelle cure e non lesinai sul minimo dettaglio.
Nel tragitto verso la macchina, dopo una camminata di ben 3 ore a farmi accarezzare dal sole e a farmi coccolare dalla brezza primaverile, non riuscii ad evitare di guardare i passanti, cosa che tempo addietro non mi sarei mai sognata di fare per paura di sentirmi addosso sguardi schifati. Li guardai uno ad uno, come per dire “Io non mi sento più diversa da voi, ho il diritto di guardarvi negli occhi e regalarvi un sorriso” e mi sentii come se stessi camminando fra le nuvole. E tuttora non so ancora definire la meraviglia di camminare con le ali ai piedi, dopo anni a guardare strade e pavimenti nella speranza di diventare trasparente, di non esistere. Ormai ero un cigno che, da brutto anatroccolo, aveva appena imparato a spiegare le sue ali meravigliose e iniziava ad aver fiducia in se stesso.
Un ragazzo mi fermò con una scusa e mi disse persino “Hai il sorriso più bello del mondo”. Io sorrisi timidamente e lo ringraziai a fil di voce, così poco abituata ai complimenti. Lui ricambiò il sorriso, non rendendosi conto del grande dono che mi aveva appena fatto, il secondo grande dono della giornata: la consapevolezza che, nonostante quel mio corpo grassoccio e sgraziato, io potessi avere delle qualità. In realtà mio marito non aveva mai lesinato in complimenti, ma da un estraneo, senza il minimo coinvolgimento emotivo, mi fece tutt'altro effetto. Non avrei potuto dire “Non è così, tu me lo dici perché mi vuoi bene. No, sei di parte”, non avrei potuto trovare scuse per non accettare quelle parole così belle e sincere. Ne feci tesoro, come di tutto ciò che accadde in quel giorno meraviglioso, senza esclusione alcuna.
Cantai a squarciagola per tutto il viaggio verso casa, non preoccupandomi di quanto potessi apparire matta o stupida agli occhi di chi avrebbe incrociato il mio sguardo. Mi sentii in diritto di fregarmene e fare ciò che avrei voluto, quel giorno era il MIO giorno.
Tornai a casa ed abbracciai forte il mio compagno (ora mio marito) e scoppiammo entrambi in un pianto di gioia che liberò il mio cuore dagli ultimi rimasugli di peso emotivo. Liberazione che diventò gioia ancora più immensa quando feci piangere anche mia madre che, insieme a noi e mio padre, aveva sofferto le pene dell'inferno per quella malattia che, prima di realizzare quanto fosse un calvario per me, per anni aveva definito “capriccio” (cosa per la quale tuttora continua a rimproverarsi).
Quel giorno, infatti, fu solamente “ufficializzata” la mia vittoria sulla bulimia nervosa, ma fu anche la fine della sofferenza per mio marito e la mia famiglia. Perché, salvo eccezioni, non si soffre mai da soli ma si attira in quel vortice maledetto chiunque ci ami davvero, gente che subisce impotente i nostri conflitti interiori e che può solo attendere il momento in cui nasca in noi il desiderio di volerne uscire, lottando con le unghie e con i denti.
Da quel giorno sono passati quasi 5 anni, non nego di aver avuto parecchie scivolate e una breve ricaduta in quel lasso di tempo e ogni anno festeggio questa ricorrenza come se fosse il mio vero compleanno. Perché io rinacqui quel giorno, quel 10 marzo 2010, con quel pianto liberatorio che mi liberò i polmoni da quell'aria malsana del disturbo alimentare, da quel respirare tristezza, frustrazione e sconfitta.
Come scrisse Gabriel Garcìa Marquez: “Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé”.
E quel giorno nacque una donna nuova, un fiore profumatissimo che si fece strada per spuntare da una crepa del selciato. Rinacqui io, accogliendo di nuovo la vita fra le mie braccia.


Petra Cipolla


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