giovedì 27 febbraio 2020

Primavera a febbraio


Ci incontrammo per caso io e te, una mattina di fine inverno ormai qualche anno fa. Un lavoro, un ragazzo, una bella famiglia, qualche amico, quelli con la A maiuscola si intendono, forse solo alcuni chili di troppo. Non potevo desiderare altro insomma. Eppure.
Sei arrivata tu, un fulmine a ciel sereno. All’inizio non ti avevo mica riconosciuto, ti sei insidiata pian piano. Nei momenti di solitudine tu eri li, mi scrutavi, studiavi la mia vita. Non ti ho mai chiamato o cercato, eppure c’eri sempre, non mi lasciavi mai sola.
 
Così durante l’estate siamo diventate inseparabili. A me non importava niente del resto, tu eri diventata la mia certezza. Stavo bene. Al mattino presto, al lavoro, la sera seduta tra il letto e il termosifone della mia cameretta, persino di notte quanto per farti sentire mi tiravi le gambe. Ci facevamo un sacco di conti, tu eri la mia motivatrice e io mi credevo invincibile. Ogni giorno sentivo che potevo fare di più, come se fosse una sfida e io sapevo che ce la potevo e dovevo fare. Sempre più su, un gradino alla volta. Gli altri erano solo invidiosi, tutti a puntare il dito. Ma cosa ne volevano sapere?! Tu eri li pronta a consolarmi e a farmi forza. Il tuo abbraccio glaciale era cosi morbido e risonante. Fluttuavo leggera pensando a te, nessun dolore, nessuna preoccupazione. Eravamo diventate una cosa sola. Stavo bene.
 
Finché un giorno di dicembre un tiepido raggio di sole iniziò a sciogliere questa bolla di brina muta e io precipitavo sempre più giù, il respiro azzerato, bagnata da miliardi di piccole gocce di acqua salata. Capii che ero diventata un’ombra grigia, nessuna emozione. Tu sparisti e non ti feci più vedere per un po’. Inizialmente faticavo a capire, ma ben presto il tuo velluto gelato che mi aveva sempre coccolato lasciò spazio ad un timido tepore che iniziò a scaldarmi il cuore e mi ridonò nuovo colore. Furono giorni di
alti e bassi. In alcuni momenti mi mancavi, perché mi avevi abbandonato?! In fondo forse era giusto così.
 
Poco tempo dopo però tornasti improvvisamente, con violenza mi scaraventasti a terra. Eri cattiva, come se volessi riprenderti qualcosa che ti apparteneva. Iniziasti di nuovo a chiedere sempre di più. Mi facevi paura e mi sentivo davvero in colpa, una merda per aver fallito nell’unica cosa che mi riusciva bene. Perdere peso. Perciò decisi di impegnarmi per non perdere altro tempo. L’obbiettivo era li chiaro davanti a me, ma tu eri cambiata ed i segni della tua forza si facevano evidenti. Sulle braccia, sulle spalle, sulla pancia. Questa volta però nessuno avrebbe dovuto scoprirci e pian piano, di nuovo, il colore lascio spazio ad una patina opaca. Stavo bene. Scelsi anche una solida armatura che ci avrebbe difeso tutte e due, mentre tu di nuovo iniziasti vorace a scavare dentro di me cibandoti del nulla che il mio corpo era diventato. Ti ricordi?
 
Oggi di acqua sotto i ponti ne è passata, ho anche raggiunto qualche traguardo importante, conosciuto nuove persone, capito che forse quell’armatura serve a ben poco se hai vicino occhi buoni che ti parlano e mani che non mollano la presa. Tu ci sei, sei rimasta in un angolino polveroso del mio cuore. Qualche volta sento ancora i tuoi graffi, i tuoi pugni, incrocio il tuo sguardo tra la gente, ma non mi fai più paura. La strada è ancora lunga da percorrere e forse è giunto il momento di separarci, ma non sarò io a chiederti di andartene. Lo farai tu, quando ti sentirai pronta. Adesso devo pensare ad altro, cose più importanti attendono di essere vissute. E la primavera non è detto che debba arrivare per forza e solamente in Marzo.

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