Il laboratorio di stasera è iniziato con una domanda precisa: “ Come gestire la rabbia che la
propria figlia manifesta in più occasioni durante la sua permanenza a casa e che fa sentire noi
genitori completamente messi ko?” Questa domanda in realtà rappresenta un aspetto importante
da non sottovalutare, il genitore funge da cuscino su cui scaricare ogni tensione ed emozione
repressa. E se questo da un lato è importante perché permette alla propria figlia o figlio di poter
esprimere e far esperienza della sua emozione, dall’altro lato occorre darne un seguito costruttivo
e non distruttivo. Il fatto di poter esprimere l’emozione è fondamentale perché nel momento
stesso in cui questa si manifesta, permette di ricevere un feedback istantaneo sulla presenza e
intensità dell’emozione stessa. Il poter riflettere su ciò che si smuove e si agita dentro di se’ è
importante. Il parlarne apertamente una volta che le acque si sono calmate, aiuta questo
processo di consapevolezza.
Spesso in un disturbo alimentare ci si sofferma a vedere solo la punta dell’iceberg, ovvero, ci si
ferma a guardare il cibo che non viene consumato, il cibo che viene ingurgitato, le abbuffate, i
digiuni, il continuo camminare su e giù....dimenticando tutto il sommerso che sta al di sotto e in
cui risiede la vera causa di tutta quei comportamenti disfunzionali dettati dalla malattia. Nel
sommerso vi è la sofferenza della persona, e anche la strada per ritrovare una comunicazione
diretta con lei. Ma cosa bisogna fare per non fermarsi alla punta dell’iceberg? In realtà, il disturbo
alimentare si diverte a fare un’amalgama di tutto quanto. Ruoli, identità, emozioni, pensieri, sono
tutti messi in un unico calderone ed è difficile distinguere cosa appartiene a chi. Spesso i genitori
finiscono col costruire la propria vita solo in funzione della malattia. Smettono di frequentare gli
amici, di uscire perché devono stare a casa altrimenti la figlia o figlio è solo, rinunciano alle
vacanze perché diventano un delirio, non si dedicano più a ciò che li fa stare bene perché si
sentono in colpa a provare benessere. Un senso di colpa che in ogni caso non ha ragione di
esistere perché i genitori NON HANNO NESSUNA COLPA del disturbo alimentare dei propri figli.
Sono malattie complesse perché la causa è sempre multifattoriale, colpisce tutti gli aspetti della
persona, in primis le relazioni familiari. Il disturbo alimentare gioca a far sentire la famiglia
impotente così da avere pieno controllo e potere su di essa. E in questa impotenza ognuno ne
esce vittima e perdente.
Ogni cosa si riduce a un continuo pensiero focalizzato su quello che può far stare bene i propri
figli, ciò che può aiutarli a guarire, a ritornare a vivere. Pensieri che si accavallano e che portano a
un loop ossessivo in cui alla fine ci si ritrova tutti invischiati in quell’indistinta amalgama
indifferenziata. Paradossalmente, se da una parte i figli manifestano la malattia attraverso la
messa in atto dei sintomi, i genitori rappresentano la malattia attraverso il pensiero ossessivo e
fisso su di essa. Tutti immobili, fissi e stagni davanti alla sola punta dell’iceberg.
Il percorso di cura, al contrario, necessita di quel lavoro interiore profondo che porta ad
addentrarsi nella parte sommersa di questo iceberg. I genitori in questo processo sono una
risorsa preziosa, ma per poter mettere in atto le loro potenzialità, hanno bisogno che qualcuno gli
mostri il gioco subdolo che la malattia ha messo in scena con loro. Il desiderio più grande dei
genitori è rivedere i propri figli liberi dalla malattia e spesso cercano in tutti i modi di spronarli
verso comportamenti più sani: “ dovresti cercare qualcosa che ti fa stare bene...ti stai
trascurando... non ti dedichi più ai tuoi interessi... non esci più con i tuoi amici... non vai più in
vacanza.....” .
Come da testimonianza di una ragazza che ha vissuto il disturbo alimentare, se questi stimoli
possono essere da una parte corretti, ci sono fasi della malattia in cui ogni cosa che viene detta
non viene recepita dalla persona che sta male; sia che sia un familiare a dirlo, sia che sia un
terapeuta. Tutto sembra scivolare via senza alcun effetto. In realtà, ogni parola, gesto,
comportamento viene registrato e al momento opportuno ritorna vivido in memoria. I genitori di
questa ragazza non hanno mai smesso di mostrarsi amorevoli, presenti, attenti. Nonostante le
risposte poco accoglienti della figlia, si sono sempre comportati da genitori, senza assumere ruoli
da terapeuta. Nel momento in cui lei stessa ha deciso di voler andare a vivere da sola, l’hanno
lasciata libera di farlo. Non si sono trasformati in controllori. La mamma non è mai andata a casa
di lei per verificare che mangiasse, che facesse la spesa, che si prendesse cura di se’. Nel week
end il papà non ha mai trascurato la moglie per trascorrere tutto il tempo con la figlia. Se decideva
di farlo, marito e moglie lo facevano insieme, di comune accordo. Sempre uniti, come coppia e
come genitori. Non hanno permesso alla malattia di prendere possesso dei loro ruoli. Il,disturbo
non è riuscito ad amalgamare tutto. Ognuno è rimasto genitore, marito, moglie, figlia. E ora che
questa ragazza è guarita ha potuto dire che ad aiutarla tanto è stato anche l’esempio che i suoi
genitori le hanno trasmesso.
Tornando alla metafora iniziale dell’ iceberg, che cosa può fare un genitore affinché la propria figlia
o figlia decida di addentrarsi nel sommerso senza rimanere immobile a fissare la punta dell’iceberg? Occorre dare l’esempio. Come? Affrontando il proprio iceberg. Anche i genitori sono
immobili davanti a ciò che vedono attraverso i loro occhi. Nel sommerso però c’ è ancora quel
uomo e quella donna che sognavano una vita serena, una famiglia unita e felice. E che ora invece
si trovano ad affrontare una malattia che gli ha portato via tutto, e che li fa soffrire, chiusi nel loro
dolore e impotenza. Ebbene, queste emozioni che provano i genitori sono le stesse emozioni che
turbano i loro figli. Entrambi sono intrappolati nella malattia, entrambi sono immobili davanti alla
punta dell’iceberg. Inconsciamente i genitori pongono richieste risolutive ai loro figli del tipo “ io
non posso essere felice finché tu stai male” e questo carica l’altro di una responsabilità che rende
ancor più dolorosa e difficile la situazione in se’. Ma, come è stato detto prima, la famiglia è una
risorsa preziosa. Perché possa avvenire un cambiamento, deve essere il genitore per primo ad
addentrarsi nel suo sommerso: “ Da quanto tempo non frequenta più i suoi amici? Da quanto
tempo non si prende cura di se’? Da quanto tempo non si dedica a ciò che lo fa stare bene? Ma
soprattutto, da quanto tempo non ascolta più i suoi desideri?”
Un papà ha condiviso la sua esperienza. Lui è sempre stato visto come un modello da seguire:
ottimi voti a scuola, un lavoro gratificante, una rete di amici intorno a se’. Un giorno ha deciso di
raccontare a sua figlia di quante difficoltà ha incontrato da ragazzino. Frequentava un giro di
amicizie un po’ ribelle, al liceo è stato bocciato, era la preoccupazione vivente dei suoi genitori.
Arrivato all’università ha però voluto fare qualcosa per se stesso, e ha cominciato a impegnarsi
sodo per realizzarsi, riuscendo a laurearsi con 110 e lode e svolgere il lavoro per cui aveva tanto
studiato. Dopo questa confessione, la figlia ora si rivolge spesso a lui per chiedergli di aiutarla
nei compiti. Il papà non è più il modello irraggiungibile con cui competere e confrontarsi, ma è al
contrario la persona che ha vissuto le sue stesse problematiche e che può capire veramente
come può sentirsi quando lei è in difficoltà.
Quando i propri figli attraversano i momenti di crisi della malattia, sembra che tutte le fatiche fatte
in precedenza non siano servite a nulla. Come se si ritrovassero di nuovo tutto da capo. Quando
si ricade nelle dinamiche del disturbo alimentare, sembra impossibile rialzarsi. Una ragazza ha
raccontato che a segnare veramente il suo percorso di guarigione sono stati proprio quei momenti
più difficili e bui della malattia, poiché è nella crisi più profonda che arrivano nuove
consapevolezze. Nei suoi ricordi vi è l’immagine di una bugna fatta nel frigo nuovo a casa dei suoi
genitori causata da una brutta litigata finita con uno scatto di rabbia in cui vi aveva sbattuto
contro una sedia. Quella bugna per lei è stata significativa poiché ogni volta che lo sguardo si
posava di su di essa, le ricordava immediatamente che lei non voleva più aver dentro di se’ quella
rabbia distruttiva.
Infine, una mamma è intervenuta confidando quanto quel senso d’impotenza provato in ogni suo
tentativo di contatto con la figlia, si sia trasformato grazie alla condivisione di tutte quelle
emozioni comuni a ogni genitore che sta vivendo o ha vissuto la stessa esperienza. Questo
accade perché viene naturale non fermarsi alle parole dell’altro, viene naturale addentrarsi nella
sua storia perché è come addentrarsi nella propria ... viene naturale non rimanere immobili davanti
alla punta dell’iceberg...perché quel sommerso lo si conosce .. se ne è fatta esperienza.
La frase della settimana è: IL PERCHÉ, È SOTTO LA PUNTA DELL’ICEBERG.