giovedì 17 giugno 2021

Spostare lo sguardo dal sintomo per porre attenzione a ciò che accade intorno ad esso - Laboratorio del 15 Giugno.

Stasera il laboratorio è iniziato con una bella sorpresa, una mamma ha chiesto se la propria figlia poteva salutarci. E anche se il periodo che questa ragazza sta vivendo non è dei più facili, il suo gesto è stato molto significativo, soprattutto nei confronti della sua famiglia: l’essere consapevole e grata di quanto i suoi genitori stiano cercando a loro volta di mettersi in gioco per capire sempre più che cosa sia una malattia del comportamento alimentare. Il sorriso di questa ragazza mi ha toccato molto, perché pur nella sofferenza, ha trasmesso il suo essere aperta alla vita. Nonostante il dolore, nonostante la malattia, nonostante le inevitabili cadute. 

Questo ovviamente mi ha portato a riflettere sul peso che hanno le emozioni. Quanto queste incidano nella vita di ognuno di noi e ancora di più in coloro che soffrono di queste malattie. Pensando ai genitori, quante volte ci si trova così carichi e pieni di emozioni da non riuscire ad avere spazio per accogliere niente altro? Ci si dimentica di pensare a se stessi, ci si dimentica di prestare attenzione ai propri stati d’animo, ci si dimentica dei propri bisogni. Ogni cosa è focalizzata e finalizzata al fare stare bene i propri figli ammalati. Tutto questo è umanamente comprensibile e naturale. Quale genitore si rifiuterebbe di farlo? Il problema è che in mezzo c’è una malattia del comportamento alimentare e le modalità di azione inevitabilmente cambiano. Spesso si chiede ai figli di impegnarsi per cercare di stare meglio, di sforzarsi di parlare, di provare a condividere quello che sentono. Ma quanto il genitore ha smesso di farlo lui per prima? O meglio, da quanto il genitore è rimasto avvinghiato in circuiti emotivi di ansia, paura e preoccupazione che rendono sempre più pesante ogni momento della loro giornata? Ovviamente questa non vuole essere una colpa, ma anzi, vuol essere un tentativo di apportare consapevolezza su quei meccanismi che finiscono per invischiare la famiglia in trappole soffocanti.

Vivere le emozioni è basilare. Non solo le emozioni positive, ma anche e soprattutto le emozioni negative. Rabbia, dolore, angoscia, senso di vuoto, sono sentimenti difficili da tollerare e soprattutto vederli vivere sulla pelle dei propri figli. Eppure, è attraverso questa esperienza che si comincia a conoscere il valore e l’intensità delle emozioni nella propria vita. Spesso di fronte a uno scoppio emotivo intenso, a una crisi, il genitore prova l’impulso di intervenire per bloccare il proseguimento delle stesse, ignorando che nel fare ciò interrompe il naturale flusso della conoscenza; impedendo ai figli di essere messi davanti al proprio sentire, fondamentale per cominciare a capire quello che accade dentro di se’. Spesso si ha l’idea che la crisi sia negativa, distruttiva, da evitare, ma, al contrario, ha lo scopo di mettere in luce ciò che non va nella propria vita. Le emozioni hanno bisogno di essere espresse. E possiamo dire che il corpo è un veicolo importante di trasmissione emotiva. Il corpo infatti non è un qualcosa distaccato. Il corpo parla, e dice molto di se’. 

Quando vediamo il sintomo manifestarsi, in realtà dietro vi è un insieme di emozioni che non sono riuscite a esprimersi diversamente. Dietro a un disagio, a un malessere, non dimentichiamo mai che c’è sempre la persona e la sua storia. La crisi non avviene mai per annientare, ma per portare nuove consapevolezze. E allora ci si domanda che cosa può fare un genitore per vivere queste situazioni dalla giusta prospettiva. E qui ritorniamo ( e non mi stancherò mai di ripeterlo poiché è un concetto essenziale) alla punta dell’iceberg. Il genitore deve spostare lo sguardo dal sintomo per cominciare a porre attenzione a ciò che è intorno ad esso. Restare fermi alla punta della iceberg ci fa perdere il reale contenuto che sta al di sotto. È come se questo diventasse uno specchietto per le allodole, acceca e impedisce di vedere altro. Un concetto basilare delle emozioni è fare esperienza del saper stare. Stare nel dolore, nella paura, nell’ansia. Ma come si fa? Per aiutare i propri figli ad accogliere il loro sentire occorre averne fatto esperienza diretta ed essere in grado di darne un esempio immediato che non si trasmette attraverso le parole, poiché spesso queste non riescono ad arrivare, ma si trasmette diventando noi stessi modelli di apprendimento da osservare e imitare. Significa adattarsi al flusso delle cose non rimanendo carichi di emozioni stagnanti e non proprie. Spostare lo sguardo dal sintomo per porre attenzione a ciò che accade intorno ad esso dà una prospettiva diversa. Spesso si pensa che la malattia del comportamento alimentare sia come un mostro che si è impossessato dei propri figli, un qualcosa che sopraggiunge da chissà dove. In realtà non è altro che la esagerata manifestazione della parte di se’ deputata al controllo e al dettar le regole. Tutte le altre parti sono diventate succube e sottomesse, finendo con il creare all’interno della persona solo un monologo ossessivo che spesso viene raccontato come un imperante ed estenuante voce che non da’ alcun respiro e tregua. 

Una ragazza ha condiviso il momento in cui, alla fine di un lungo percorso terapeutico, è giunta all’incontro diretto con questa propria parte di se’ malata. Lasciare definitivamente la malattia per diventare finalmente responsabile della propria vita. In quell’occasione ha ricordato come davanti a lei si fosse materializzata l’immagine della malattia attraverso le sembianze di una belva feroce, pronta ad annientarsi su di lei alla prima debolezza o caduta. Fu proprio di fronte a quell’immagine che d’un tratto ha percepito una forza intensa dentro di se’ che ha saputo ribattere a gran voce che tutto quel potere da lì in avanti non ci sarebbe più stato perché non glielo avrebbe più permesso. E così è accaduto. Arrivare a formare quell’immagine della belva feroce, permettendo quel dialogo tra le varie parti, è stato possibile solo attraverso l’esperienza delle innumerevoli emozioni che non sanno più esprimersi nel modo giusto all’interno di una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare. Questa ragazza aveva sempre avuto paura di provare quell’angosciante senso di vuoto che era dentro di lei e che emergeva quando si sentiva sola. L’abbuffata o l’eccessivo controllo le erano sembrati la soluzione migliore per allontanare quelle sensazioni. Attraverso la terapia, ha cominciato ad accogliere dapprima pochi attimi di quella emozione di vuoto, fino ad arrivare a minuti, ore, giorni, settimane...e finalmente non averne più paura. Ora la solitudine per lei non è più sinonimo di mancanza, ma anzi, è una preziosa presenza, ricca di tanti contenuti inespressi. 

Una mamma ha voluto condividere la sua esperienza dello stare nell’emozione. Questo le ha permesso di capire la manipolazione che la malattia aveva giocato su di lei ogni volta che la figlia, invece di chiedere aiuto ai suoi terapeuti, si rivolgeva direttamente a lei, caricandola di responsabilità che non erano di sua competenza. Un’altra mamma, che fa come lavoro l’insegnante, ha voluto chiedere quante sono le bugie che spesso vengono raccontate all’interno di una malattia del comportamento alimentare. In realtà sono tantissime. Bugie che la persona racconta pure a se stessa poiché non è consapevole dello sporco gioco che la malattia mette in atto. Quando accade che gli altri vogliano smascherarne le infide trame, si assiste all’attacco violento a difesa del potere. Ricordiamo sempre quanto sia importante che i genitori debbano essere alleati tra loro per non permettere che la malattia prenda il controllo su ogni cosa. Agire per contrastare il perverso gioco manipolatorio, anche in maniera forte se necessario, affinché non se ne diventi complici. 

Un’altra mamma ha voluto chiedere come comportarsi poiché ha progettato una settimana di vacanza insieme al marito e alla nipotina dato che la situazione in casa con la figlia maggiorenne malata di anoressia, è diventata pesante, con la speranza che questo breve stacco possa essere uno stimolo per indurla a mettersi maggiormente in discussione nella cura. La paura di questa mamma è quella di andare incontro a inevitabili conseguenze e soprattutto, di vedersi poi sfumare la vacanza perché interrotta dalle probabili telefonate della figlia che vorrà farli ritornare a casa. In questo caso, siamo di fronte a un altro tentativo manipolatorio della malattia. I genitori devono essere genitori, e niente altro. Se ci sono eventuali problemi, il numero da comporre per chiedere l’aiuto necessario è quello dei propri terapeuti. 

C’è poi una fase importante della malattia che spesso getta i genitori nella confusione e panico totale; è quando sintomi e guarigione vivono in parallelo. La malattia non dimentichiamolo mai che ha assunto e ancora assume la funzione di una stampella. E finché non si avverte che le proprie gambe sono forti abbastanza per reggersi da sole, la stampella viene ancora ben tenuta strettamente a se’. Se ci pensiamo bene, quando una persona ha una gamba rotta, non si pretende che questa ritorni a camminare subito come se niente fosse. Siamo consapevoli che per farlo è necessario un lungo periodo di fisioterapia. Quando vediamo questa persona tornare dalla seduta fisioterapica sorreggendosi sulle stampelle, non le chiediamo come mai non cammini con le sue gambe. Capiamo che questo non è possibile fino a che la gamba non sia guarita perfettamente. Nella malattia del comportamento alimentare però accade tutto l’opposto. Ci stupiamo che nonostante i figli seguano un percorso terapeutico, ancora il sintomo sia ben presente. Ma è naturale che accada questo. Come accade con la gamba rotta, a cui ci si appoggia sempre alla stampella nonostante la cura, così accade con la malattia del comportamento alimentare. E questo ci riporta al concetto iniziale: per riuscire a gestire le emozioni di ansia, paura, preoccupazione occorre spostare lo sguardo dal sintomo per porre attenzione su ciò che accade intorno ad esso. 

Frase della settimana: SPOSTARE LO SGUARDO DAL SINTOMO PER PORRE ATTENZIONE A
CIÒ CHE ACCADE INTORNO AD ESSO.

giovedì 3 giugno 2021

Il confine tra la malattia e la vita reale - Laboratorio del 1 Giugno.

 Il laboratorio di questa sera ha ripreso tematiche affrontate più volte, e questo fa riflettere su quanto sia difficile per un genitore dover convivere e gestire la malattia del comportamento alimentare del proprio figlio o figlia. Il laboratorio avviene a cadenza quindicinale, ma i genitori sanno che possono usufruire del servizio di sostegno dell’associazione anche durante gli altri giorni della settimana. 

In questo periodo sono state sempre più le telefonate dei genitori che si trovano a dover gestire i momenti di convivenza stretta col sintomo. Genitori di figli maggiorenni che si trovano all’oscuro di tutto quello che avviene nel percorso psicologico e nutrizionale dei propri figli, e non sanno interpretare i sintomi che si manifestano sotto i loro occhi: “ avrà mangiato veramente quello che le ha indicato la dietista? Come mai continua a non avere il ciclo? Non è che ha bisogno di qualche integratore? Come faccio a sapere se quello che sta facendo è giusto se nessuno mi dà informazioni ?...”
Tutte queste domande sono ragionevolmente lecite. Sfido qualunque genitore che ama il proprio figlio o figlia a non porsele. Il problema è che non si arriva a nessuna risposta o soluzione se non quella di veder accrescere l’ansia dentro di se’ per non avere il controllo di ciò che sta accadendo. Stasera abbiamo ricordato la metafora dell’iceberg. Soffermarsi a guardare la punta dell’iceberg, ovvero il sintomo, non aiuta perché impedisce di prendere in considerazione altri dettagli che sono al contrario fondamentali. Infatti l’attenzione va rivolta verso quei piccoli passi che la propria figlia o figlio sta mettendo in atto:“ Sta riprendendo in mano progetti che aveva abbandonato? Ha ripreso a frequentare le sue amicizie? Ha cambiato il modo di vestire? Comunica maggiormente in casa?....” Sembrano dettagli banali e di poco conto ma in realtà non è così. La guarigione non è data dall’assenza improvvisa dei sintomi. Non è come l’avere una malattia qualsiasi che basta fare la cura prescritta dal medico per avere un miglioramento definitivo. Purtroppo il percorso è molto lungo e richiede tempo. 

Spesso i genitori sono preoccupati nel vedere la resistenza che i figli hanno verso la cura; ma non è la guarigione ad essere rifiutata quanto il cambiamento. Chi ha una malattia del comportamento alimentare vuole guarire ma allo stesso tempo, non vuole abbandonare il sintomo. Non perché non desidera curarsi, ma perché si è spaventati dal dover vivere senza quelle sicurezze che comunque la malattia sa dare. Un genitore questo lo comprende benissimo a livello razionale, ma non a livello emotivo. Una delle grandi difficoltà che un padre e una madre devono affrontare è il convivere per lungo tempo insieme alla malattia quando anche loro desidererebbero una guarigione immediata. Tutto questo è stato molto faticoso da gestire nel periodo della pandemia, e ad oggi ne vediamo le conseguenze. 

Molti genitori, soprattutto quelli di figli maggiorenni, si sentono abbandonati a se stessi perché oltre a non essere coinvolti personalmente in un percorso di cura, sono lasciati fuori da quello che è il piano terapeutico dei propri figli. Più volte stasera è emerso il concetto dell’importanza di poter parlare e confrontarsi sulla malattia poiché da soli è difficile capirne le dinamiche intrinseche. La malattia stringe in una morsa stretta e soffocante tutti i membri del nucleo familiare. Si rimane intrappolati in quelli che sono gli schemi patologici che portano a squilibri e sofferenza. Quante volte accade che un genitore cerchi di creare in casa un ambiente il più protetto da tutti quelli stimoli che potrebbero scatenare reazioni di conflitto. Ecco allora che si cerca di comprare solo determinati cibi, di cenare a determinati orari, di acconsentire alla mezz’oretta di cammino. Questo accade perché si è convinti che creando un ambiente il più tranquillo e sereno possibile, possa favorire un atteggiamento migliore verso la cura, ignorando che l’agire in questa maniera significa diventare complici della malattia. Non bisogna avere paura dello scontro, della porta sbattuta, del piatto gettato a terra, della violenza verbale. Questa non è che la manifestazione chiara ed esplicita della difficoltà nella gestione delle proprie emozioni e non può essere altro che materiale utile su cui lavorare nella stanza del terapeuta. Se tutto rimane sempre tranquillo e sotto controllo, su che cosa mai si può lavorare? Sul sintomo? Certamente, però, torniamo a ripetere che il sintomo non è altro che la punta dell’iceberg. Quindi ben vengano gli scoppi d’ira, gli oggetti buttati a terra, i graffi autolesionistici. Certo, assistere a tali scene non è facile ne’ piacevole né tanto meno se ne esce indenni in veste di genitore. E ancora sottolineiamo l’importanza di parlarne, di condividerne le esperienze, di permettersi di far emergere ciò che più preoccupa. 

Il laboratorio è anche questo: il luogo dove si può svuotare un poco il proprio zaino e ripartire più leggeri. Spesso la famiglia non riesce a staccarsi dall’ etichetta di anoressia o bulimia che nel tempo si è  involontariamente appiccicata addosso alla propria figlia o figlio. Non si riesce più a veder altro se non quella identità. E questo non aiuta nessuno. Una ragazza ha raccontato di quanto a lei sia stato utile ricevere lo sguardo di quelle persone che per la prima volta l’avevano guardata per quello che era e non per quello che era scritto su innumerevoli fogli diagnostici. Quello sguardo l’ha aiutata ad abbandonare a sua volta quelle lenti distorte che le avevano fatto credere per anni di essere soltanto l’incarnazione dell’anoressia. Invece no. Lei non era la malattia. Sembra tutto banale quello che stiamo dicendo. Eppure sono concetti basilari per ritrovare se stessi. 

Ma come si fa ad aiutare un genitore ad abbandonare quello sguardo etichettante? E come si fa a far sì che i figli possano percepire che in quegli sguardi c’è amore e cura? Bisogna incominciare da se stessi. Spesso accade che la famiglia abbia smesso di guardarsi. Tutto si è andato a concentrare solo ed esclusivamente sulla malattia. Il pensiero fisso per una madre e un padre è la guarigione della propria figlia o figlio. Così ci si trova da una parte col genitore che è ossessionato dal : “ Devi guarire! Devi guarire!”, e dall’altra parte abbiamo il figlio o la figlia che a sua volta è ossessionato dal : “Non voglio guarire! Non voglio guarire!” In mezzo c’è la malattia che come un joker si diverte a cambiare le carte in tavola. Ecco allora che diventa importante ritornare a ritrovare quello spazio vitale nella propria vita per dare l’esempio pratico di come si fa. Non basta più dire che bisogna prendersi cura di se’, occorre mostrare come ci si prende cura di se’. La vita fa paura. Ci si illude che sia più facile starsene rintanati nella gabbia dorata della malattia. “ mamma /papà. Vieni anche tu qui dentro con me. Non mi abbandonare . Stammi vicino, stai con me”.... “ No figlia/figlio mio. Io in quella gabbia non ci entro. Perché la vita non è lì dentro. La vita è qui fuori. E il mio compito è farti veder che non c’è nulla da temere a stare al di là’ di quella gabbia.” Solo parlando, solo confrontandosi si riesce a comprendere il confine che separa la metaforica gabbia della malattia dalla vita reale. 

La frase della settimana: IL CONFINE TRA LA MALATTIA E LA VITA REALE