La frase della settimana: ANCHE LA SCUOLA NON PUÒ ESSERE LASCIATA SOLA
La frase della settimana: ANCHE LA SCUOLA NON PUÒ ESSERE LASCIATA SOLA
Infinite
gomme da masticare ingerite e sputate compulsivamente nel giro di pochi minuti
per non sentire la fame.
Biscotti sbriciolati di nascosto per assumerne la minor quantità possibile.
Briciole, è ciò di cui ci si nutre per fingere a sé stessi e agli altri di aver
mangiato.
Caffè, rigorosamente amaro per tenersi svegli il più possibile e per riempire
il vuoto nello stomaco, quello che non è altro vuoto nell'anima.
Contapassi, una delle app preferite di Ana.
Ana, la tua migliore amica.
Ana ti impone di camminare a più non posso fino a raggiungere obiettivi
assurdi, insani, malati. Fino a sentire dolori atroci, alle gambe ai piedi,
fino a fratturarsi le ossa.
Giornate passate fuori casa o anche dentro casa, con un solo obiettivo nella
testa: bruciare.
Notti insonni per smaltire persino l'ultima caloria rimasta.
Camminate, addominali, flessioni nel pieno della notte per andare a letto
soddisfatti, anche se poi soddisfatti non lo si è mai.
Per Ana non è mai abbastanza.
Ana ti sgrida, ti insulta, ti dice le cose peggiori e tu devi obbedirle.
Ed ecco allora che passi le giornate a calcolare le calorie, a contare
ossessivamente, a pesare persino la foglia di insalata per paura che un grammo
in più possa farti ingrassare.
E passi le giornate a programmare l'alimentazione dei giorni successivi perché
nulla deve sfuggire al controllo.
Quel controllo che vorresti avere nella vita, nelle relazioni, nelle emozioni.
Ed infine...
Dopo anni trascorsi ad assecondare tutto ciò, ad un certo punto gridi
"basta".
Cominci a fare il contrario di quello che "DEVI", cominci a tirare
fuori la tua forza, il tuo coraggio e a combattere con quel mostro che viene da
dentro, dal profondo.
Cadi, inciampi, scivoli e ti rialzi.
Cominci ad intravedere la luce e a quel punto cominci ad alimentare quella
fiammella sempre di più.
Un giorno ti svegli e ti senti più leggera, ma non perché pesi 39 chili.
Senti una leggerezza provenire da dentro.
A quel punto il cibo non fa più paura, anzi in quel piatto ci vedi una farfalla
lilla: la libertà.
Questa settimana c'è stata purtroppo l’ennesima drammatica notizia di una ragazza che non è riuscita a liberarsi dalla stretta della malattia del comportamento alimentare, ponendo fine alla sua vita. Molti genitori si sono domandati se sia giusto o meno condividere queste comunicazioni con le proprie figlie o figli che soffrono di queste patologie. Come sempre, non esiste una risposta valida e univoca per ogni situazione. Occorre valutare la persona che abbiamo davanti; ma, ancora prima, è indispensabile che i genitori stessi osservino cosa li spinge a voler condividere quella determinata storia.
Si spera forse che leggendola possa smuovere qualcosa dentro ai propri figli? Ci si aspetta che, vedendo l’epilogo di certe realtà, li esorti a smettere di fare quello che stanno facendo con il cibo e il loro corpo?
Purtroppo nutrire simili aspettative non porta mai a un buon esito, anzi, tali propositi vanno a stimolare ancora di più le dinamiche della malattia. È necessario che i genitori siano consapevoli che affrontare una tematica simile coi propri figli significa incamminarsi su un terreno minato. Va comunque sottolineato che questi argomenti non devono essere un tabù, anzi. Ma non bisogna cadere nell’errore di dare troppo spazio alla malattia, ovvero, non bisogna mettere in evidenza aspetti quali peso, comportamenti autolesionistici, cibo, ossessione per l’immagine corporea poiché si va a focalizzare l’attenzione solo sul sintomo, ponendo i figli in una condizione di confronto con i parametri della patologia, e questo certamente non li aiuta.
Quindi come ci si potrebbe approcciare? Mettendo ad esempio in atto il “gioco del mettersi nei panni di”... Mi spiego meglio. I genitori possono esprimere per primi le loro opinioni mettendo in evidenza non tanto il fatto in sè, quanto il carico emotivo che questa ragazza ha provato e che sta provando ora la sua famiglia, con lo scopo non di aspettarsi una qualche reazione da parte dei propri figli ma con lo scopo di aiutarli a comprendere le emozioni che una tale condizione suscita, sia in chi la vive direttamente sia in chi la vive indirettamente, come i familiari. Questo “ gioco del mettersi nei panni di”, può essere utile perché permette contemporaneamente di distaccarsi emotivamente dal proprio vissuto per comprendere il vissuto dell’altro e quindi aprirsi a un dialogo aperto libero dal non sentirsi sotto osservazione o sotto il carico di quelle aspettative citate in precedenza. Torno a ripetere che per poter mettere in atto tale proposito, è necessario che i genitori siano in grado di comprendere in che stato di animo si trovano e soprattutto, di non andare a sovraccaricare i figli della propria ansia, paura e desiderio della guarigione.
A volte accade, soprattutto agli inizi, che la famiglia non riesca a tollerare la malattia, cercando così ogni espediente possibile per convincere i figli a smettere di avere quei comportamenti. Sappiamo che questo non è possibile, poiché i processi che portano alla sintomatologia alimentare sono molto complessi e profondi. I genitori spesso si autoaccusano di essere stati responsabili in qualche modo della malattia dei figli: disattenzioni, mancanze, severità, dare troppo o poco amore.....e la lista potrebbe andare all’infinito. In realtà le malattie del comportamento alimentare sono multifattoriali, quindi non basta una componente singola per far sì che questa sviluppi la malattia. Certo, i figli fanno la loro prima esperienza all’interno dell’ambiente familiare, ma poi crescono, cominciano ad andare a scuola, ad avere relazioni coi propri coetanei, a confrontarsi con diverse autorità che non sono più solo i genitori. Durante la crescita, ogni individuo forma inconsciamente un’immagine ideale di sè, che deve inevitabilmente venire a contatto con la propria identità. Quando l’immagine idealizzata di sè si trova a essere molto distante dalla propria identità, qualcosa si rompe drasticamente, andando in frantumi e facendo sorgere un forte senso di vuoto e angoscia, talmente forte da costringere la persona ad aggrapparsi a qualcosa che può prendere le vesti di una malattia del comportamento alimentare.
Così, attraverso le dinamiche del sintomo, si riesce a controllare e a cercare di colmare il senso di vuoto lasciato da quella frattura.
A volte accade che durante il percorso di cura, la persona che soffre della malattia del comportamento alimentare viva crisi importanti, che all’apparenza sembrano la portino di nuovo dentro alla sintomatologia. I genitori in questi casi sono disperati perché avevano cominciato a sperare nella guarigione e la ricaduta li destabilizza completamente. In realtà, per guarire occorre ridimensionare l’immagine ideale di sè per cercare di avvicinarla e farla poi coincidere con la propria identità. Per fare questo, occorre andare dove c'è stata la frattura, prendere i pezzi di quei frammenti e, come in un puzzle, cercare di ricomporre ciò che si è frantumato. Ovviamente, questo è molto faticoso, fa paura, e inevitabilmente si reagisce come la prima volta che ci si è trovati a sentire quell’angoscia, aggrappandosi alla malattia. Piano piano però, attraverso l’aiuto terapeutico, si comincia a ricostruire il puzzle...ogni volta sempre con meno paura...pezzo per pezzo...fino a ricomporre la frattura e trovare finalmente allineati l’immagine ideale di sè con la propria identità.
Questo fa capire il motivo per cui il percorso terapeutico di una malattia del comportamento alimentare sia così lungo, evidenziando quanto la sintomatologia alimentare occupi un posto paradossalmente essenziale per la sopravvivenza emotiva della persona. È fondamentale muoversi con molta sensibilità, rispetto, consapevolezza dei tempi della persona che sta soffrendo. Ovviamente, questa delicatezza terapeutica a livello psicologico decade in una condizione salva-vita, ma una volta ristabiliti i parametri biologici è importante che si usi un approccio accogliente, che sappia riconoscere quella frattura e il dolore che vi sta dietro. È dunque evidente che chi soffre della malattia del comportamento alimentare provi un profondo disagio, che si riflette in tutti gli ambiti, come ad esempio quello scolastico. Proprio su questa tematica si è accesa una importante discussione che verrà ripresa nei laboratori successivi. È emerso che spesso il contesto scolastico non è formato per comprendere e adattare adeguati piani di studio per chi soffre di una sintomatologia alimentare. Se di fronte a situazioni come può essere una separazione dei genitori, la ragazza o il ragazzo in questione viene affiancato da un insegnante di sostegno e inserito in un BES, ( Bisogni Educativi Speciali), in molte scuole non accade la stessa cosa per chi soffre di malattie del comportamento alimentare, ritenendo che queste non rappresentino un disagio reale ma siano una forma di capriccio, se non addirittura una scusa per non applicarsi nello studio. Dato che nel laboratorio ci sono molti genitori che sono inseriti all’interno del mondo scolastico, è sorta l’esigenza di approfondire queste problematiche, per cominciare a creare una rete che non vada a considerare solo la formazione di personale sanitario ma anchedi personale scolastico per far sì che anche nelle scuole venga riconosciuta questa malattia e come tale possano essere applicati, senza pregiudizio e stigma, piani educativi adatti al disagio della persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare. La scuola deve essere un luogo di inclusione e non di esclusione.
Frase della settimana: È NELLA FRATTURA CHE C’È’ LA GUARIGIONE
Oggi sono qui per raccontare
quello che mi è successo nell’ultimo anno, non racconterò uno degli anni migliori
della mia adolescenza, ma la tristezza e la malinconia che ancora oggi, dopo
più di un anno, sono impressi nella mia mente.
A febbraio del 2018 è morto
Silvano, un signore di 85 anni, che abitava vicino a me, e che per me era un
punto di riferimento. Con lui ho passato la mia infanzia, bei momenti con le sue
calde battute nei freddi giorni d’inverno, le risate e anche qualche litigio,
che però a volte serviva. La sua morte, quasi improvvisa, è stata un brutto
colpo, mi ero appena ripreso dalla morte di mio zio, deceduto per colpa di un
maledetto tumore.
Questi eventi e forse l’adolescenza
hanno fatto scattare qualcosa. Ho cominciato a mangiare meno, mi mancavano loro
e la testa ha cominciato a dirmi che ero grasso, più grasso di tutti. Ho
iniziato a lasciare ciò che mi piaceva fare: da Contrada, al circolo, mercatini
e altre cose. Non ne parlo con nessuno perchè mi vergogno, ma soprattutto penso
non sia una cosa grave. Non riesco più ad avere un dialogo con i miei
famigliari, la vita in casa è difficile, sto bene solo quando sono fuori o a
scuola con gli amici, perché nessuno mi dice niente anche se capiscono che sono
cambiato. Le cose a casa peggiorano e nel frattempo inizia a sentirsi male
anche mio nonno, quando la mia famiglia va a trovarlo in ospedale, io resto in
casa da solo con la malattia.
Nel mese di maggio, il mio migliore
amico Jaco smette di venire a scuola, non riesco più a legare con nessuno,
rimango solo, isolato. La mia testa è bloccata e mi fa allontanare dagli amici,
mi rendo conto che non sono più io, il Tommaso di una volta. In casa c’è
preoccupazione sia per me che per nonno. Le poche volte che vado a trovarlo non
mi riconosce, temo che muoia da un momento all’altro, la notte ci penso e
piango. Inizio a fare fatica ad andare a trovarlo e smetto. Passano le vacanze,
io sto sempre peggio, il nonno sta sempre peggio. Ricomincia la scuola, gli
amici restano stupiti da come sia cambiato fisicamente ma soprattutto
psicologicamente. A casa va sempre peggio, penso che la malattia potrebbe essere
una soluzione. A scuola i voti sono ottimi.
A ottobre, la mia migliore amica
Bianca decide di andare in un’altra scuola, Bianca era l’unica persona con cui
riuscivo a parlare, anche se a fatica. La mia testa va per conto suo, pensa
solamente a peso e cibo. Nonno va in ospedale e non ho il coraggio di andare a
trovarlo. Inizio ad essere seguito dal Centro, quel giorno arriva la telefonata
che non avrei voluto, il nonno se ne è andato. Inizia il periodo peggiore, non
penso ad altro che a peso e cibo, sto proprio male, chiedo aiuto, ma amici e
famigliari non sanno più cosa fare. Decidono di ricoverarmi urgentemente perché
rischio la vita. A febbraio vengo dimesso, riesco ad andare dal nonno, la mia
testa sta meglio, ma ancora arrivano pensieri malati. A marzo, il 22, mi appare
in sogno nonno che mi dice che se continuo così non ne uscirò vivo. Quel giorno
inizio a pranzare con i miei famigliari. Sto meglio, ogni sera penso al nonno e
sento che è vicino a me.
Penso alle cose positive che mi
ha dato la malattia, ho riscoperto lo stare in compagnia, sentire il sapore dei
cibi e avere la testa un po più libera da pensieri malattia. I dottori e la mia
famiglia sono contenti, sono sereno, vedo la luce anche se il percorso è ancora
lungo. La testa a volte pensa alla malattia, ma anche ad altro, quello che
vorrei fare in futuro per esempio. Vorrei recuperare il tempo ed essere felice.
Il nonno c’è lo sento. Sto scoprendo in me nuove qualità, come l’amore per la
cucina e per il sapere. La vita è una sola e bisogna fare il possibile per
renderla magnifica a noi stessi, ma anche agli altri. Ora che le cose stanno andando,
grazie alla forza che mi sta dando nonno.
Ad aprile vado al compleanno
della mia migliore amica Bianca, ho paura, ma va tutto bene e il giorno dopo ho
l’umore alle stelle ripensando alla serata. Il 4 è il compleanno di nonna, le
chiedo scusa, non lo faccio apposta, lei sorride e capisce. Con il normopeso la
testa si ‘libera’, tornano le sensazioni, anche se ho ancora dispercezioni, ma
riesco a vivere perché la vita è bella una sola. Bisogna chiedere aiuto al
minimo sintomo, parlare con qualcuno alla minima dispercezione in modo da
trovare una soluzione.
Tommaso