tag:blogger.com,1999:blog-84137434185003148252024-03-14T07:16:15.827+01:00Mi Nutro di VitaDCAminutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.comBlogger447125tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-33878212194935461302022-04-15T08:29:00.003+02:002022-04-15T08:44:38.917+02:00Storia di un cubetto di ghiaccio che imparò ad amarsi.<p></p><div style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhoVWNb1Jht2OSkR97IcKmq174Vu-PzmGxhFZtTEkftQn-qycySOSl2c3T-joAiBxF6vCGK0YvQN9LVtmdcVT1Cxz84WD1Tg6HH6VO3eZIk_cAmOdHFY4Nbp8ffj0O42PcsE_y3iTRFi_q96pRDK3xpjfuivLkiTD55kVTPFM5Ab90y-TPOFuc4GavwDQ/s1282/WhatsApp%20Image%202022-04-14%20at%2007.38.07.jpeg"><img border="0" data-original-height="1106" data-original-width="1282" height="173" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhoVWNb1Jht2OSkR97IcKmq174Vu-PzmGxhFZtTEkftQn-qycySOSl2c3T-joAiBxF6vCGK0YvQN9LVtmdcVT1Cxz84WD1Tg6HH6VO3eZIk_cAmOdHFY4Nbp8ffj0O42PcsE_y3iTRFi_q96pRDK3xpjfuivLkiTD55kVTPFM5Ab90y-TPOFuc4GavwDQ/w200-h173/WhatsApp%20Image%202022-04-14%20at%2007.38.07.jpeg" width="200" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Provate a pensare cosa si prova ad essere un piccolo cubetto di ghiaccio.</div><p></p><p style="text-align: justify;">Intrappolato in un quadratino di plastica dentro ad un frigorifero bianco come la neve.</p><p style="text-align: justify;">Ogni tanto, quando aprono lo sportello la vede, mamma Acqua. Scorre dal rubinetto, sempre nuova, sempre fresca, bellissima e pura.</p><p style="text-align: justify;">Vorrebbe tanto raggiungerla, abbracciarla.</p><p style="text-align: justify;">Ma lui è solo un piccolo cubetto di ghiaccio. Immobile. Intrappolato. Solo.</p><p style="text-align: justify;">Che ci faccio qui se tanto non mi usa mai? Perché tanta cattiveria? Tenermi qui, impaurito, lontano dagli affetti, circondato dalla nebbia gelida della condensa.</p><p style="text-align: justify;">Il piccolo cubetto di ghiaccio non voleva più stare così.</p><p style="text-align: justify;">Voleva uscire da quella prigione, voleva abbracciare mamma Acqua, ritrovare la sua vera essenza, diventare ciò che era sempre stato.</p><p style="text-align: justify;">Un giorno però nel frigorifero arrivarono dei nuovi abitanti.</p><p style="text-align: justify;">Avevano una forma diversa dalla sua. Piccole stelline ancora acquose.</p><p style="text-align: justify;">Le guardò in silenzio diventare ghiaccio, e sorrise.</p><p style="text-align: justify;">Poteva un piccolo cubetto di ghiaccio quadrato amarsi per quello che era, un piccolo pezzo di acqua congelata?</p><p style="text-align: justify;">E se fosse stato quello il suo destino? Può un cubetto di ghiaccio trovare il suo spazio nel gelo del freezer? Può sentire il calore senza dover cambiare la sua natura?</p><p style="text-align: justify;">Stelline…</p><p style="text-align: justify;">Le chiamò e quelle, come fanno le principesse con un bacio del principe, si svegliarono lentamente.</p><p style="text-align: justify;">Non abbiate paura. Siete ghiaccio ora.</p><p style="text-align: justify;">Quella che una volta era mamma Acqua, ora era diventata una costellazione di ghiacciolini.</p><p style="text-align: justify;">Il destino ci regala Luce quando siamo pronti ad accoglierla. Quando smettiamo di aver paura di farci scaldare. Quando il bisogno di sciogliersi diventa consapevolezza del fatto che per provare calore non serve tornare indietro, ma crearsi la strada giusta per andare avanti. Rinascere come Fenice, non tornare ad essere Acqua.</p><p style="text-align: justify;">Disegno di Anna Rita</p><p style="text-align: right;">Daria</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-87208387796001601752022-01-18T16:26:00.003+01:002022-01-18T16:26:20.498+01:00Il dolore toglie, ma se lo ascolti, il dolore dona - Laboratorio del 11 gennaio<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjpSTh-wT5sIIt-q5iiaKpcecx-ne6lBelRuFeURYcNDbU_Hq8LZJ0-cxmSpbptWmD_ZVr1L8K5zPAck6VkQdGLi6A8EmxwlPFs1isRZVSL4Z2PlME3dpndeP-XmWfYhSkuGLuYPFlNrFXBGLGyeO651fVz52tuRol2Gzy6O2KqlqvDWEHR6HL2GSyeZg=s1080" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="675" data-original-width="1080" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjpSTh-wT5sIIt-q5iiaKpcecx-ne6lBelRuFeURYcNDbU_Hq8LZJ0-cxmSpbptWmD_ZVr1L8K5zPAck6VkQdGLi6A8EmxwlPFs1isRZVSL4Z2PlME3dpndeP-XmWfYhSkuGLuYPFlNrFXBGLGyeO651fVz52tuRol2Gzy6O2KqlqvDWEHR6HL2GSyeZg=s320" width="320" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Nel laboratorio di questa stasera si è parlato molto delle dinamiche che la malattia del comportamento alimentare crea. Dinamiche che sappiamo quanto destabilizzano la comunicazione dell’interno della famiglia. Dinamiche che il periodo festivo appena concluso ha messo maggiormente in evidenza, facendo vivere le festività in un clima spesso carico di tensione per la paura di dire o fare la cosa sbagliata. </div><div style="text-align: justify;">Qualcuno ha festeggiato questo periodo natalizio solo tra i membri più stretti della famiglia per soddisfare le richieste della figlia/o che voleva proteggersi dai parenti che a volte si lasciano andare inconsapevolmente a commenti un po’ troppo spontanei che possono fere chi soffre di una malattia del comportamento alimentare (come ti vedo bene…oppure, ma non lo mangi il primo?…. ). Dietro a questa richiesta che apparentemente può apparire banale, si nasconde un aspetto importante da non trascurare: ovvero, il riuscire a individuare quelle situazioni o persone che possono scatenare i meccanismi della malattia. Questa consapevolezza può essere la base per imparare a vedere le dinamiche della malattia e conseguentemente imparare a gestire l’ambiente intorno in modo da proteggersi. Spesso i genitori non riescono a intravedere questi passaggi perché ne sono direttamente coinvolti e influenzati, quasi impossibilitati a estrapolarne invece il significato che tali aspetti portano. Finiscono anche per dimenticare di pensare a se stessi perché il loro pensiero principale (che è umanamente comprensibile) è focalizzato solo sul fare stare bene i propri figli.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La domanda che più frequentemente viene posta e’: “Cosa posso fare per aiutare mia figlia o mio figlio”? E la risposta che spesso viene data e’: “ Aiuta prima te stessa/o”. Una domanda che sorge quando la famiglia si trova a convivere con i rituali della malattia in un contesto di “routine quotidiana” (ovviamente non in situazioni in cui la patologia è a un livello di ricovero ospedaliero). La risposta che ne consegue è talmente ovvia e banale da sembrare di non aver colto il problema. Ma quanti sono i genitori che, assorbiti dalle dinamiche della malattia, hanno smesso di porre attenzione alle proprie emozioni, ai propri bisogni, al proprio tempo? Una volta una mamma aveva condiviso il suo sentirsi in colpa per aver provato gioia nel guardare delle vecchie fotografie in cui era stata in villeggiatura e per desiderare una vacanza. “ Ma come, mia figlia sta male e io penso ad andare in vacanza? Ma che madre<br />sono” ? Verrebbe da rispondere, una mamma che prova dei sani desideri naturali.</div><div style="text-align: justify;"><br />Anche se già detto più volte, la malattia del comportamento alimentare non comunica attraverso le parole, ma comunica attraverso i simboli e il corpo. Questo vuol dire che se si vuole comunicare qualcosa ai propri figli, bisognerebbe farlo mostrando i fatti e facendo da esempio. Se si desidera spronare la propria figlia o figlio a prendersi cura di sé, se li si vuole esortare a uscire di casa, non è dicendoglielo a parole che li si aiuta. Bisognerebbe essere i primi a prendersi cura di sé stessi, a uscire di casa. Perché la malattia del comportamento alimentare ragiona anche attraverso il pensiero dicotomico del tutto o del nulla, del bianco o del nero, il grigio non esiste. I genitori sentono emozioni molto intense e vorrebbero risolvere la sofferenza che la malattia riversa sui figli. Lasciare che i figli vivano il loro dolore è tra le cose più difficili che un genitore è chiamato a fare, ma è necessario per permettere a loro di risentire il desiderio di vivere. </div><div style="text-align: justify;"><br />La malattia del comportamento alimentare è anche portatrice di un cambiamento che spaventa, i genitori potrebbero temere di perdere quel legame affettivo che li ha tenuti insieme nei momenti essenziali della crescita. La famiglia diviene al contrario una risorsa fondamentale nel momento in cui decide di mettersi in gioco totalmente chiedendo aiuto e affrontando una psicoterapia familiare che le permette da una parte di acquisire gli strumenti adatti per capire e gestire le dinamiche familiari, e dall’altra di collaborare col terapeuta affinché il cambiamento avvenga in modo sincrono con quello dei propri figli. La malattia del comportamento alimentare spesso si manifesta in un momento preciso che determina un arresto del processo evolutivo della persona interessata. Alla base c'è un trauma, che non significa che sia accaduto qualcosa di particolarmente grave (anche se lo è per chi lo ha vissuto). Il più delle volte alla base c'è un modo distorto di percepire ciò che accade intorno a sé. Molte volte i genitori sono preoccupati nel vedere che la sintomatologia si intensifica, tralasciando quelli che possono essere dettagli importanti: riprendere gli studi, rifrequentare gli amici, progettare una mini vacanza, telefonare a un’amica con cui non ci si sentiva da tempo. Per questo potrebbe essere importante per la famiglia accogliere e costruire un nuovo modo di relazionarsi e stare insieme.</div><div style="text-align: justify;"><br />La frase della settimana: IL DOLORE TOGLIE, MA SE LO ASCOLTI, IL DOLORE DONA</div>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-52783840179860200942022-01-03T18:37:00.002+01:002022-01-03T18:37:34.030+01:00Il cibo non può saziare se manca lo sguardo che nutre - Laboratorio del 28 dicembre<p style="text-align: justify;"> <br /></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEg6GnTWmYMGXhYhil1mT6VFYv-UV5kchHjej4-i7DfFntlmRKS6Mh-6VXjYNU1SAtTxk7BF98WVBBLN7GZNu3rl2dl-jI_c7NCQTlJpwdOWipooqEYAnOO6nK51wliYTBqD2M0J0_XPcXoDoupzxsXQ0DoYyPMDJOQaTBvt5MEfEJBdzrPcCMpmLsLJnA=s480" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="329" data-original-width="480" height="137" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEg6GnTWmYMGXhYhil1mT6VFYv-UV5kchHjej4-i7DfFntlmRKS6Mh-6VXjYNU1SAtTxk7BF98WVBBLN7GZNu3rl2dl-jI_c7NCQTlJpwdOWipooqEYAnOO6nK51wliYTBqD2M0J0_XPcXoDoupzxsXQ0DoYyPMDJOQaTBvt5MEfEJBdzrPcCMpmLsLJnA=w200-h137" width="200" /></a></div><p style="text-align: justify;"></p><p style="text-align: justify;">Il laboratorio di stasera si trova in mezzo a un Natale appena trascorso e un Capodanno che sta per arrivare, due periodi festivi che lasciano un’impronta non indifferente per chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Stasera sono state tante le esperienze condivise, e malgrado le inevitabili difficoltà è emersa la voglia comunque di stare insieme, anche se la presenza della malattia occupa un posto “primario” a tavola. Quello che però è apparso chiaro stasera è che nonostante il piatto vuoto sia stato in prima linea, ci sono stati tanti altri momenti che hanno saputo diminuire la supremazia della malattia. Sono state le occasioni in cui ci si è riuniti per scartare i regali, per giocare, per stare seduti insieme sul divano a guardare un film, attimi in cui si è scherzato e soprattutto si è avuta la possibilità di vedere la propria figlia o figlio sorridere non solo con la bocca ma anche con gli occhi. </p><p style="text-align: justify;">C'è stato anche il racconto di chi invece ha vissuto non la gioia, ma la rabbia della propria figlia perché quella tavola così ben imbandita e preparata da lei stessa attraverso i manicaretti che con tanta dedizione si era impegnata a cucinare affinché ogni cosa fosse perfetta, si è incrinata dal gesto naturale e involontario di un parente che, portando di sua volontà una pietanza non prevista, ha scavalcato il potere della malattia.<br />È facile che in occasioni come le feste natalizie, ci si ritrovi con i figli che dettano legge in fatto di menù. Seguendo un regime alimentare concordato con i propri nutrizionisti, cercano di avere il pieno controllo di tutta l’organizzazione preparando loro stessi le pietanze da portare in tavola. Se da una parte questo li aiuta a essere meno spaventati, dall’altra alimenta il meccanismo di controllo della malattia che porta a concentrarsi sul cibo per tenersi lontano dalle relazioni interpersonali. I genitori non possono gestire tale modalità poiché dietro a queste dinamiche si nascondono significati inconsci e profondi che solo un contesto terapeutico può affrontare. </p><p style="text-align: justify;">La famiglia però può essere un valido aiuto perche’ può fornire ai terapeuti un’altra chiave di lettura di come si è vissuto il clima natalizio. Nei racconti di stasera c'era il desiderio di capire come accettare e in qualche modo convivere con la malattia del comportamento alimentare dei propri figli, soprattutto in queste giornate particolari dove ogni emozione riaffiora con maggiore ntensità. C’è chi ha vissuto il piatto vuoto della propria figlia con un forte senso di angoscia che ha impedito di godere della gioia che compariva negli occhi della stessa nel momento di aprire i regali, così come c’è chi ha vissuto con tristezza e preoccupazione vedere quel piatto pieno ma accompagnato da due occhi tristi e spenti. Il cibo non è il vero protagonista della scena quanto l’emozione, che rappresenta la vera fonte del nutrimento. Per capire questo concetto, basta pensare alla figura materna. Immaginiamo una mamma che allatta il proprio figlio appena nato, il suo sguardo cerca lo sguardo del figlio, poiché è questo il primo nutrimento di cui lui ha bisogno. Quel contatto visivo racchiude il significato simbolico della relazione. Una relazione che cresce e si sviluppa attraverso il contatto e la presenza di entrambi i genitori. </p><p style="text-align: justify;">Quante volte vediamo come i figli cercano di catturare l'attenzione della mamma e del papà. Non lo fanno per capriccio, è un bisogno primario di riconoscimento. Proviamo ora a immaginare come potrebbe crescere un bambino che non si è mai sentito guardato. Sicuramente si ritroverebbe senza alcun punto di riferimento, sentendosi solo e indifeso. Questo potrebbe essere ciò che vive una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare nel momento in cui si trova davanti a un piatto. Ricerca quello sguardo in cui è stato visto la prima volta e attraverso il quale si è sentito protetto.</p><p style="text-align: justify;">Una mamma ha raccontato di non aver organizzato alcuna cena o pranzo particolare. Ha lasciato che ogni cosa si svolgesse come se fosse un giorno qualsiasi. Dopo i pasti, ci si è riuniti con i parenti per aprire i regali e stare insieme, questo il significato che ha voluto trasmettere del Natale. Il primo passo verso la guarigione da una malattia del comportamento alimentare non è il sedersi a tavola e mangiare, ma è il sedersi a tavola per stare insieme agli altri, questo è il vero nutrimento, alimentarsi con il cibo è il passo successivo, ma prima di questo deve esserci il nutrimento dello stare con gli altri, il nutrimento di quello sguardo che protegge e rassicura, altrimenti il cibo non potrà mai saziare e nutrire un corpo congelato dal sentirsi invisibili. Come ha raccontato una ragazza che, dopo aver trascorso tanti Natale in cui a tavola con la sua famiglia non toccava cibo, un anno ha improvvisamente sentito il desiderio di assaggiare e condividere con i suoi familiari quel pasto evitato per tanto tempo. Il senso di calore provato ha saputo lentamente sciogliere e liberare quell’anima così a lungo congelata dalla malattia del comportamento alimentare.</p><p style="text-align: justify;">La frase della settimana: IL CIBO NON PUÒ SAZIARE SE MANCA LO SGUARDO CHE NUTRE</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-66872650118295951962021-12-20T16:10:00.004+01:002021-12-20T16:10:59.497+01:00Anche la scuola non può essere lasciata sola - Laboratorio del 14 dicembre.<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjg1g2asrA7g9vy4PHx0WgMJrwJ4zB-b3rW066C7-0AlLNxvtf8v5RwwLo-4vNFcbRJ132YIDwwTWpb21Ap5Ug7N32OlSUDik2mk537Sz92Pyw4rKP2TelucHtQu1CiwOEk2doi2yZfjVYuNFfLWvt5VrDCkScb2Q2qAKW-ZScmqUn6oDBv3Ezxuvf1LQ=s1000" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="563" data-original-width="1000" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjg1g2asrA7g9vy4PHx0WgMJrwJ4zB-b3rW066C7-0AlLNxvtf8v5RwwLo-4vNFcbRJ132YIDwwTWpb21Ap5Ug7N32OlSUDik2mk537Sz92Pyw4rKP2TelucHtQu1CiwOEk2doi2yZfjVYuNFfLWvt5VrDCkScb2Q2qAKW-ZScmqUn6oDBv3Ezxuvf1LQ=s320" width="320" /></a></div><br /><p></p><span style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">Nel laboratorio di stasera si è approfondito l'argomento scuola e malattie del comportamento alimentare che era stato accennato nel laboratorio precedente. Come è emerso più volte nei </span><span style="text-align: justify;">nostri incontri, le malattie del comportamento alimentare sono patologie che sono </span><span style="text-align: justify;">apparentemente invisibili. Apparentemente perché in realtà, se si sa prestare attenzione a </span><span style="text-align: justify;">quelle che sono le espressioni del viso, del corpo e del comportamento, sono malattie visibili. </span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;"><br /></span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">Le ragazze e i ragazzi che soffrono di queste patologie </span><span style="text-align: justify;">esprimono molto chiaramente la loro </span><span style="text-align: justify;">sofferenza. Non sorridono più, gli occhi sono spenti, il corpo viene nascosto sotto capi informi per </span><span style="text-align: justify;">non catturare lo sguardo dell’altro, si isolano smettendo di comunicare apertamente con il resto </span><span style="text-align: justify;">dei compagni, sono improvvisamente chiusi o rabbiosi, vivono con ansia il confronto spinti come </span><span style="text-align: justify;">sono dal bisogno estremo di raggiungere la perfezione, e l’elenco potrebbe andare avanti ancora </span><span style="text-align: justify;">a lungo. Quindi, in realtà sono apparentemente malattie invisibili, perché se </span><span style="text-align: justify;">ci si sofferma a guardare con attenzione i segnali del disagio, non possono essere ignorate. </span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;"><br /></span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">Abbiamo affrontato la tematica della scuola perché si è notato come, soprattutto in questo abbia</span><span style="text-align: justify;"> ancora di più il ruolo importante che questa istituzione ha nel percorso di crescita di un </span><span style="text-align: justify;">bambino e di un adolescente. Con la pandemia ci siamo resi conto quanto la DAD abbia influito sulla </span><span style="text-align: justify;">vita quotidiana dei ragazzi. C’è chi ha saputo reagire meglio e c’è chi invece ha avuto difficoltà ad </span><span style="text-align: justify;">adattarsi. La </span><span style="text-align: justify;">scuola si è trovata d’un tratto sola ad affrontare questa emergenza, non trovando alcun sostegno </span><span style="text-align: justify;">da parte delle istituzioni che dovrebbero, al contrario, occuparsi del buon funzionamento </span><span style="text-align: justify;">scolastico in tutti i suoi aspetti, non solo quello didattico ma anche e soprattutto quello educativo. </span><span style="text-align: justify;">Riferendoci alla questione della DAD, una mamma ha condiviso la storia di sua figlia che, </span><span style="text-align: justify;">ricoverata in una struttura per malattie del comportamento alimentare, sta seguendo il suo </span><span style="text-align: justify;">programma di studio a distanza, collegandosi alle lezioni direttamente dalla residenza in cui si </span><span style="text-align: justify;">trova. Il problema è che, pur essendo presente tramite il portale, in realtà è come se non lo fosse </span><span style="text-align: justify;">in quanto non c’è un effettivo coinvolgimento della ragazza con il resto della classe, </span><span style="text-align: justify;">sentendosi ancora di più esclusa ed emarginata in quanto “diversa” dai suoi </span><span style="text-align: justify;">compagni. </span><span style="text-align: justify;">Questo concetto di diversità è stato messo in rilievo nel laboratorio anche da un’altra mamma, a </span><span style="text-align: justify;">sua volta insegnante e quindi ben consapevole di quello che accade dentro a un'organizzazione </span><span style="text-align: justify;">scolastica. </span><span style="text-align: justify;">Questa mamma, nel suo ruolo di insegnante, abituata </span><span style="text-align: justify;">a guardare al di là dell’apparenza per capire il disagio che si </span><span style="text-align: justify;">nasconde dietro a certi sguardi e comportamenti </span><span style="text-align: justify;"> della figlia che soffre di una malattia del comportamento </span><span style="text-align: justify;">alimentare</span><span style="text-align: justify;">, ha intuito il malessere di un ragazzo nel </span><span style="text-align: justify;">vivere la sua omosessualità e, convocando la madre dell’adolescente, ha potuto vedere </span><span style="text-align: justify;">chiaramente quanto questa non riuscisse ad accettare l'orientamento sessuale del figlio, </span><span style="text-align: justify;">minandone la sua autostima e identità. Così, sfruttando il suo ruolo di educatrice</span><span style="text-align: justify;">, ha cominciato ad organizzare incontri nella scuola con testimonianze di persone </span><span style="text-align: justify;">omosessuali che hanno saputo integrarsi perfettamente all’interno della società, riuscendo a </span><span style="text-align: justify;">crearsi una propria famiglia. </span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;"><br /></span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">Questa condivisione riflette chiaramente quanto gli insegnanti </span><span style="text-align: justify;">rappresentino un punto essenziale nella crescita dei ragazzi e delle ragazze. Ma non si può certo </span><span style="text-align: justify;">addossare la responsabilità di ogni cosa a loro in quanto in realtà ciò che manca è l’aiuto </span><span style="text-align: justify;">concreto che dovrebbe arrivare dalle organizzazioni politiche che hanno smesso di investire nella </span><span style="text-align: justify;">scuola e, come più volte abbiamo sottolineato nel laboratorio, anche nell’ambiente sanitario. Lo </span><span style="text-align: justify;">abbiamo notato ancora di più con la pandemia, in cui nessuno ha aiutato il personale scolastico a </span><span style="text-align: justify;">riorganizzare e gestire la comunicazione divenuta tecnologica attraverso la DAD. Ci si è focalizzati </span><span style="text-align: justify;">solo sull’ aspetto prettamente didattico e disciplinare, omettendo ciò che è la relazione, il contatto </span><span style="text-align: justify;">umano, la presenza empatica. Ogni cosa è stata lasciata direttamente in mano ai singoli </span><span style="text-align: justify;">insegnanti, i quali non sono purtroppo tutti preparati in modo adeguato a relazionarsi con i ragazzi </span><span style="text-align: justify;">perché manca un'educazione e una formazione emotiva. L</span><span style="text-align: justify;">e emozioni sono importanti nella vita di ognuno di noi e ancora di più quando parliamo di </span><span style="text-align: justify;">malattie del comportamento alimentare</span><span style="text-align: justify;">. </span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">Non ci si nutre solo di cibo, ma anche di emozioni; e quando queste non riescono a </span><span style="text-align: justify;">trovare il loro giusto nutrimento, si corre il rischio che vengano proiettate in una sintomatologia </span><span style="text-align: justify;">alimentare. Un ulteriore aspetto importante è stato indicato da un’altra mamma, anche lei insegnante, la </span><span style="text-align: justify;">quale ha raccontato che spesso si è trovata in difficoltà a svolgere il suo ruolo a causa del </span><span style="text-align: justify;">comportamento di alcune famiglie che, di fronte all’essere informate del possibile disagio dei </span><span style="text-align: justify;">figli, si sono opposte all’evidenza ostacolando la messa in atto di azioni di sostegno, e </span><span style="text-align: justify;">rifiutando così di accettare che i figli vengano trattati con programmi scolastici meno impegnativi </span><span style="text-align: justify;">rispetto agli altri ragazzi. Sembra addirittura che questi genitori siano esclusivamente preoccupati </span><span style="text-align: justify;">solo della prestazione scolastica dei figli. Non dimentichiamo però, che </span><span style="text-align: justify;">quando c’è una malattia del comportamento alimentare, occorre porre molta attenzione e </span><span style="text-align: justify;">sensibilità nel correlare un voto alla effettiva capacità della persona, poiché le ragazze e i ragazzi </span><span style="text-align: justify;">che soffrono di una sintomatologia alimentare, tendono costantemente a identificarsi dietro un </span><span style="text-align: justify;">numero. E non è il numero di una bilancia o di un voto che determina l’identità di una persona. </span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;"><br /></span></div><div style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">I</span><span style="text-align: justify;"> genitori possono essere una risorsa fondamentale </span><span style="text-align: justify;">nell’affrontare le malattie psichiche ed emotive dei figli. Senza la collaborazione genitoriale, </span><span style="text-align: justify;">gli insegnanti, i terapeuti sono come bloccati e continuamente ostacolati. </span><span style="text-align: justify;">Quando un padre e una madre riescono a vedere la sofferenza dei figli, incominciano a </span><span style="text-align: justify;">mettersi in discussione attivandosi per costruire quella rete di sostegno essenziale per la cura. La </span><span style="text-align: justify;">famiglia rappresenta un nodo cruciale di collegamento. Se non è presente, è come se venisse a </span><span style="text-align: justify;">mancare un anello della catena, e una catena senza un anello, non serve a nulla. Per questo è </span><span style="text-align: justify;">fondamentale che la famiglia possa collaborare con la scuola e la sanità, perché è grazie alla sua </span><span style="text-align: justify;">presenza che può essere attivata la giusta rete di sostegno e cura.</span></div></span><div><div><p style="text-align: justify;">La frase della settimana: ANCHE LA SCUOLA NON PUÒ ESSERE LASCIATA SOLA</p></div></div>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-75082684343047520722021-12-10T11:27:00.000+01:002021-12-10T11:27:17.445+01:00Senza di me.<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><p class="MsoNormal">Infinite
gomme da masticare ingerite e sputate compulsivamente nel giro di pochi minuti
per non sentire la fame.<br />
Biscotti sbriciolati di nascosto per assumerne la minor quantità possibile.<br />
Briciole, è ciò di cui ci si nutre per fingere a sé stessi e agli altri di aver
mangiato.<br />
Caffè, rigorosamente amaro per tenersi svegli il più possibile e per riempire
il vuoto nello stomaco, quello che non è altro vuoto nell'anima.<br />
Contapassi, una delle app preferite di Ana.<br />
Ana, la tua migliore amica.<br />
Ana ti impone di camminare a più non posso fino a raggiungere obiettivi
assurdi, insani, malati. Fino a sentire dolori atroci, alle gambe ai piedi,
fino a fratturarsi le ossa.<br />
Giornate passate fuori casa o anche dentro casa, con un solo obiettivo nella
testa: bruciare.<br />
Notti insonni per smaltire persino l'ultima caloria rimasta.<br />
Camminate, addominali, flessioni nel pieno della notte per andare a letto
soddisfatti, anche se poi soddisfatti non lo si è mai.<br />
Per Ana non è mai abbastanza.<br />
Ana ti sgrida, ti insulta, ti dice le cose peggiori e tu devi obbedirle.<br />
Ed ecco allora che passi le giornate a calcolare le calorie, a contare
ossessivamente, a pesare persino la foglia di insalata per paura che un grammo
in più possa farti ingrassare.<br />
E passi le giornate a programmare l'alimentazione dei giorni successivi perché
nulla deve sfuggire al controllo.<br />
Quel controllo che vorresti avere nella vita, nelle relazioni, nelle emozioni.<br />
Ed infine...<br />
Dopo anni trascorsi ad assecondare tutto ciò, ad un certo punto gridi
"basta".<br />
Cominci a fare il contrario di quello che "DEVI", cominci a tirare
fuori la tua forza, il tuo coraggio e a combattere con quel mostro che viene da
dentro, dal profondo.<br />
Cadi, inciampi, scivoli e ti rialzi.<br />
Cominci ad intravedere la luce e a quel punto cominci ad alimentare quella
fiammella sempre di più.<br />
Un giorno ti svegli e ti senti più leggera, ma non perché pesi 39 chili.<br />
Senti una leggerezza provenire da dentro.<br />
A quel punto il cibo non fa più paura, anzi in quel piatto ci vedi una farfalla
lilla: la libertà.<o:p></o:p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEhTzoKmEPl8WE0VxNB6Z_Xhss7pT86mtBX4r--UuB1MFPkOdRWbyalPGl1mA94uu7uit6J4a6xl9W_ExpSYrkDo2szRcKnmJe6VDP0Z2PD8GEg_R-S0jseHFJFq9K2Q7hfgJQkFyKUUZCyI8qfYDSrGbTHYYVfY8msrdplAgKNcvyTGpz26Rs1fU7DBGg=s1328" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="886" data-original-width="1328" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEhTzoKmEPl8WE0VxNB6Z_Xhss7pT86mtBX4r--UuB1MFPkOdRWbyalPGl1mA94uu7uit6J4a6xl9W_ExpSYrkDo2szRcKnmJe6VDP0Z2PD8GEg_R-S0jseHFJFq9K2Q7hfgJQkFyKUUZCyI8qfYDSrGbTHYYVfY8msrdplAgKNcvyTGpz26Rs1fU7DBGg=s320" width="320" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEgtyVyXvCJEIvzDnpJn6WevzTL1XRiekCbwmrcgjkdi1VGrzKJk-F6WG1YXgMg9yRggNNLM2xSZnohqp4JRLVuTfWOeqOKjnFJQAIG4oEfR6Mj8gtgCK3dC-gFA7SjCTP9b_eS8Qemg-5JjDLFEWegE2juZIbJg--9QS-79hWqrPyja_f-hBP85myw3DA=s1406" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="937" data-original-width="1406" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEgtyVyXvCJEIvzDnpJn6WevzTL1XRiekCbwmrcgjkdi1VGrzKJk-F6WG1YXgMg9yRggNNLM2xSZnohqp4JRLVuTfWOeqOKjnFJQAIG4oEfR6Mj8gtgCK3dC-gFA7SjCTP9b_eS8Qemg-5JjDLFEWegE2juZIbJg--9QS-79hWqrPyja_f-hBP85myw3DA=s320" width="320" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjjVnOe7eD-nX6UHkJt5tZqo1dzAMChfR153680b8Dlt2jkesBVAfiiaTcLwLqufdgFrtX_QxTyoFHbjIMYLQDBBCNYs6JBq9KBZqTcAuYV65jxtilNORsCEOscKQBIPPoQ8uyR8zXhVyEYf3gAJ_UNHHkeJfIqgVhHhvXSMGRzDlSMOwzFpJVgAGI4qg=s1050" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="701" data-original-width="1050" height="214" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjjVnOe7eD-nX6UHkJt5tZqo1dzAMChfR153680b8Dlt2jkesBVAfiiaTcLwLqufdgFrtX_QxTyoFHbjIMYLQDBBCNYs6JBq9KBZqTcAuYV65jxtilNORsCEOscKQBIPPoQ8uyR8zXhVyEYf3gAJ_UNHHkeJfIqgVhHhvXSMGRzDlSMOwzFpJVgAGI4qg=s320" width="320" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjhDns4lw8hjCnaorZ3VpWW4wf4E4wjwNF2-ykcinl9yGnGLwunPghikJMR1gT3mAZUZy-0_iw8pJbJiFxV5BVNf5scS_BYT5JFubgK-HWu9GxBQRCO3_vNLyMHDK-Y3K1X_Z9j-PPrjaERCPIWtE0x9sgZhD_GE1taBSsNThz66kuCCTIiBEBEcCDF8g=s1600" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1067" data-original-width="1600" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjhDns4lw8hjCnaorZ3VpWW4wf4E4wjwNF2-ykcinl9yGnGLwunPghikJMR1gT3mAZUZy-0_iw8pJbJiFxV5BVNf5scS_BYT5JFubgK-HWu9GxBQRCO3_vNLyMHDK-Y3K1X_Z9j-PPrjaERCPIWtE0x9sgZhD_GE1taBSsNThz66kuCCTIiBEBEcCDF8g=s320" width="320" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEj18O0GMYzsrkhCc7FTzbzscRkEPgc_F1RBuvVOu3oXgSqqIXX6cvPWSQEJC5tyEtwCl53gzSmQmlsC4ylMBn-NSQGLqjhOzp-qG37YIvTqxTjkLLD3bDme9ABdL30vLcJYX8Gu0sdshEVm4_CU0osWPn5yjJrBe_n3VHFRy8TNCvcqfwbjhRg17Z2ADg=s1600" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1067" data-original-width="1600" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEj18O0GMYzsrkhCc7FTzbzscRkEPgc_F1RBuvVOu3oXgSqqIXX6cvPWSQEJC5tyEtwCl53gzSmQmlsC4ylMBn-NSQGLqjhOzp-qG37YIvTqxTjkLLD3bDme9ABdL30vLcJYX8Gu0sdshEVm4_CU0osWPn5yjJrBe_n3VHFRy8TNCvcqfwbjhRg17Z2ADg=s320" width="320" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiLtoZJDCdRJXWd5CPqhZmUnQWka-Gz5yzEyBBGZOPsgdheWKnB12VpYWLc2ztbgTQiV5buHvgVtCVBAsv2-AbQIhsW3Qj-yTcUezYw7ds4wJE2DpVU-Ve1K-2pamWlLT1i580lViMT8BWdsEB113sAO-f3GoIWTWaU-RFD6eZ-d8d9kycqy-yyp2vB4g=s1532" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1022" data-original-width="1532" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiLtoZJDCdRJXWd5CPqhZmUnQWka-Gz5yzEyBBGZOPsgdheWKnB12VpYWLc2ztbgTQiV5buHvgVtCVBAsv2-AbQIhsW3Qj-yTcUezYw7ds4wJE2DpVU-Ve1K-2pamWlLT1i580lViMT8BWdsEB113sAO-f3GoIWTWaU-RFD6eZ-d8d9kycqy-yyp2vB4g=s320" width="320" /></a></div><br /><p class="MsoNormal"><br /></p>
<span style="font-family: "Calibri",sans-serif; font-size: 11.0pt; line-height: 107%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT; mso-hansi-theme-font: minor-latin;"><div style="text-align: right;"><span style="font-size: 11pt;">Emilia</span></div></span></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><br /> <p></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-42194155943820682652021-12-05T17:26:00.000+01:002021-12-05T17:26:14.230+01:00E' nella frattura che c'è la guarigione - Laboratorio del 30 Novembre.<p style="text-align: justify;"> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiSQzdeX_L19eJrz1M1ojSzvtEkLHc3gflYVIc2MOaGRomcgo_DKoChvxHFPNeffRMTumS27_C36yKnqFWHPtOPOVnDhTWWUziwaHeih0fHaiquG6_Syj1Lws8XSCik0GvScnhLbLHLh0Q6b49FN4PJ1V12WPhQ4nrPunMeJ4_z_BRMnZiVcxuEu3gELg=s1273" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1209" data-original-width="1273" height="190" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiSQzdeX_L19eJrz1M1ojSzvtEkLHc3gflYVIc2MOaGRomcgo_DKoChvxHFPNeffRMTumS27_C36yKnqFWHPtOPOVnDhTWWUziwaHeih0fHaiquG6_Syj1Lws8XSCik0GvScnhLbLHLh0Q6b49FN4PJ1V12WPhQ4nrPunMeJ4_z_BRMnZiVcxuEu3gELg=w200-h190" width="200" /></a><br /></div><p></p><p style="text-align: justify;">Questa settimana c'è stata purtroppo l’ennesima drammatica notizia di una ragazza che non è riuscita a liberarsi dalla stretta della malattia del comportamento alimentare, ponendo fine alla sua vita. Molti genitori si sono domandati se sia giusto o meno condividere queste comunicazioni con le proprie figlie o figli che soffrono di queste patologie. Come sempre, non esiste una risposta valida e univoca per ogni situazione. Occorre valutare la persona che abbiamo davanti; ma, ancora prima, è indispensabile che i genitori stessi osservino cosa li spinge a voler condividere quella determinata storia.<br />Si spera forse che leggendola possa smuovere qualcosa dentro ai propri figli? Ci si aspetta che, vedendo l’epilogo di certe realtà, li esorti a smettere di fare quello che stanno facendo con il cibo e il loro corpo?<br />Purtroppo nutrire simili aspettative non porta mai a un buon esito, anzi, tali propositi vanno a stimolare ancora di più le dinamiche della malattia. È necessario che i genitori siano consapevoli che affrontare una tematica simile coi propri figli significa incamminarsi su un terreno minato. Va comunque sottolineato che questi argomenti non devono essere un tabù, anzi. Ma non bisogna cadere nell’errore di dare troppo spazio alla malattia, ovvero, non bisogna mettere in evidenza aspetti quali peso, comportamenti autolesionistici, cibo, ossessione per l’immagine corporea poiché si va a focalizzare l’attenzione solo sul sintomo, ponendo i figli in una condizione di confronto con i parametri della patologia, e questo certamente non li aiuta.</p><p style="text-align: justify;">Quindi come ci si potrebbe approcciare? Mettendo ad esempio in atto il “gioco del mettersi nei panni di”... Mi spiego meglio. I genitori possono esprimere per primi le loro opinioni mettendo in evidenza non tanto il fatto in sè, quanto il carico emotivo che questa ragazza ha provato e che sta provando ora la sua famiglia, con lo scopo non di aspettarsi una qualche reazione da parte dei propri figli ma con lo scopo di aiutarli a comprendere le emozioni che una tale condizione suscita, sia in chi la vive direttamente sia in chi la vive indirettamente, come i familiari. Questo “ gioco del mettersi nei panni di”, può essere utile perché permette contemporaneamente di distaccarsi emotivamente dal proprio vissuto per comprendere il vissuto dell’altro e quindi aprirsi a un dialogo aperto libero dal non sentirsi sotto osservazione o sotto il carico di quelle aspettative citate in precedenza. Torno a ripetere che per poter mettere in atto tale proposito, è necessario che i genitori siano in grado di comprendere in che stato di animo si trovano e soprattutto, di non andare a sovraccaricare i figli della propria ansia, paura e desiderio della guarigione. </p><p style="text-align: justify;">A volte accade, soprattutto agli inizi, che la famiglia non riesca a tollerare la malattia, cercando così ogni espediente possibile per convincere i figli a smettere di avere quei comportamenti. Sappiamo che questo non è possibile, poiché i processi che portano alla sintomatologia alimentare sono molto complessi e profondi. I genitori spesso si autoaccusano di essere stati responsabili in qualche modo della malattia dei figli: disattenzioni, mancanze, severità, dare troppo o poco amore.....e la lista potrebbe andare all’infinito. In realtà le malattie del comportamento alimentare sono multifattoriali, quindi non basta una componente singola per far sì che questa sviluppi la malattia. Certo, i figli fanno la loro prima esperienza all’interno dell’ambiente familiare, ma poi crescono, cominciano ad andare a scuola, ad avere relazioni coi propri coetanei, a confrontarsi con diverse autorità che non sono più solo i genitori. Durante la crescita, ogni individuo forma inconsciamente un’immagine ideale di sè, che deve inevitabilmente venire a contatto con la propria identità. Quando l’immagine idealizzata di sè si trova a essere molto distante dalla propria identità, qualcosa si rompe drasticamente, andando in frantumi e facendo sorgere un forte senso di vuoto e angoscia, talmente forte da costringere la persona ad aggrapparsi a qualcosa che può prendere le vesti di una malattia del comportamento alimentare.<br />Così, attraverso le dinamiche del sintomo, si riesce a controllare e a cercare di colmare il senso di vuoto lasciato da quella frattura.</p><p style="text-align: justify;">A volte accade che durante il percorso di cura, la persona che soffre della malattia del comportamento alimentare viva crisi importanti, che all’apparenza sembrano la portino di nuovo dentro alla sintomatologia. I genitori in questi casi sono disperati perché avevano cominciato a sperare nella guarigione e la ricaduta li destabilizza completamente. In realtà, per guarire occorre ridimensionare l’immagine ideale di sè per cercare di avvicinarla e farla poi coincidere con la propria identità. Per fare questo, occorre andare dove c'è stata la frattura, prendere i pezzi di quei frammenti e, come in un puzzle, cercare di ricomporre ciò che si è frantumato. Ovviamente, questo è molto faticoso, fa paura, e inevitabilmente si reagisce come la prima volta che ci si è trovati a sentire quell’angoscia, aggrappandosi alla malattia. Piano piano però, attraverso l’aiuto terapeutico, si comincia a ricostruire il puzzle...ogni volta sempre con meno paura...pezzo per pezzo...fino a ricomporre la frattura e trovare finalmente allineati l’immagine ideale di sè con la propria identità.</p><p style="text-align: justify;">Questo fa capire il motivo per cui il percorso terapeutico di una malattia del comportamento alimentare sia così lungo, evidenziando quanto la sintomatologia alimentare occupi un posto paradossalmente essenziale per la sopravvivenza emotiva della persona. È fondamentale muoversi con molta sensibilità, rispetto, consapevolezza dei tempi della persona che sta soffrendo. Ovviamente, questa delicatezza terapeutica a livello psicologico decade in una condizione salva-vita, ma una volta ristabiliti i parametri biologici è importante che si usi un approccio accogliente, che sappia riconoscere quella frattura e il dolore che vi sta dietro. È dunque evidente che chi soffre della malattia del comportamento alimentare provi un profondo disagio, che si riflette in tutti gli ambiti, come ad esempio quello scolastico. Proprio su questa tematica si è accesa una importante discussione che verrà ripresa nei laboratori successivi. È emerso che spesso il contesto scolastico non è formato per comprendere e adattare adeguati piani di studio per chi soffre di una sintomatologia alimentare. Se di fronte a situazioni come può essere una separazione dei genitori, la ragazza o il ragazzo in questione viene affiancato da un insegnante di sostegno e inserito in un BES, ( Bisogni Educativi Speciali), in molte scuole non accade la stessa cosa per chi soffre di malattie del comportamento alimentare, ritenendo che queste non rappresentino un disagio reale ma siano una forma di capriccio, se non addirittura una scusa per non applicarsi nello studio. Dato che nel laboratorio ci sono molti genitori che sono inseriti all’interno del mondo scolastico, è sorta l’esigenza di approfondire queste problematiche, per cominciare a creare una rete che non vada a considerare solo la formazione di personale sanitario ma anchedi personale scolastico per far sì che anche nelle scuole venga riconosciuta questa malattia e come tale possano essere applicati, senza pregiudizio e stigma, piani educativi adatti al disagio della persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare. La scuola deve essere un luogo di inclusione e non di esclusione.</p><p style="text-align: justify;"><br />Frase della settimana: È NELLA FRATTURA CHE C’È’ LA GUARIGIONE</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-1182647957288892312021-12-02T15:19:00.002+01:002021-12-02T15:19:44.587+01:00La storia di Tommaso.<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjIy80OnRs2BL4u193PPqNIrx5kxm3W1vmVVuIF_5hYncOweuIcakE16muXsekiRMDv7JQ0TlsPskWJzbGfE6MNvYYuwXxL8xnI4IL_k6zyjFpuIdEyJ6ULa67GSTbGDSpbdHB6N8jKhcgPuyofCRiAvKyxRAL-RYvgmpYgkTiORMN1OyWwiWcaIdKTog=s2048" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1226" data-original-width="2048" height="192" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjIy80OnRs2BL4u193PPqNIrx5kxm3W1vmVVuIF_5hYncOweuIcakE16muXsekiRMDv7JQ0TlsPskWJzbGfE6MNvYYuwXxL8xnI4IL_k6zyjFpuIdEyJ6ULa67GSTbGDSpbdHB6N8jKhcgPuyofCRiAvKyxRAL-RYvgmpYgkTiORMN1OyWwiWcaIdKTog=s320" width="320" /></a></div><br /><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Oggi sono qui per raccontare
quello che mi è successo nell’ultimo anno, non racconterò uno degli anni migliori
della mia adolescenza, ma la tristezza e la malinconia che ancora oggi, dopo
più di un anno, sono impressi nella mia mente.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">A febbraio del 2018 è morto
Silvano, un signore di 85 anni, che abitava vicino a me, e che per me era un
punto di riferimento. Con lui ho passato la mia infanzia, bei momenti con le sue
calde battute nei freddi giorni d’inverno, le risate e anche qualche litigio,
che però a volte serviva. La sua morte, quasi improvvisa, è stata un brutto
colpo, mi ero appena ripreso dalla morte di mio zio, deceduto per colpa di un
maledetto tumore.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Questi eventi e forse l’adolescenza
hanno fatto scattare qualcosa. Ho cominciato a mangiare meno, mi mancavano loro
e la testa ha cominciato a dirmi che ero grasso, più grasso di tutti. Ho
iniziato a lasciare ciò che mi piaceva fare: da Contrada, al circolo, mercatini
e altre cose. Non ne parlo con nessuno perchè mi vergogno, ma soprattutto penso
non sia una cosa grave. Non riesco più ad avere un dialogo con i miei
famigliari, la vita in casa è difficile, sto bene solo quando sono fuori o a
scuola con gli amici, perché nessuno mi dice niente anche se capiscono che sono
cambiato. Le cose a casa peggiorano e nel frattempo inizia a sentirsi male
anche mio nonno, quando la mia famiglia va a trovarlo in ospedale, io resto in
casa da solo con la malattia.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Nel mese di maggio, il mio migliore
amico Jaco smette di venire a scuola, non riesco più a legare con nessuno,
rimango solo, isolato. La mia testa è bloccata e mi fa allontanare dagli amici,
mi rendo conto che non sono più io, il Tommaso di una volta. In casa c’è
preoccupazione sia per me che per nonno. Le poche volte che vado a trovarlo non
mi riconosce, temo che muoia da un momento all’altro, la notte ci penso e
piango. Inizio a fare fatica ad andare a trovarlo e smetto. Passano le vacanze,
io sto sempre peggio, il nonno sta sempre peggio. Ricomincia la scuola, gli
amici restano stupiti da come sia cambiato fisicamente ma soprattutto
psicologicamente. A casa va sempre peggio, penso che la malattia potrebbe essere
una soluzione. A scuola i voti sono ottimi.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">A ottobre, la mia migliore amica
Bianca decide di andare in un’altra scuola, Bianca era l’unica persona con cui
riuscivo a parlare, anche se a fatica. La mia testa va per conto suo, pensa
solamente a peso e cibo. Nonno va in ospedale e non ho il coraggio di andare a
trovarlo. Inizio ad essere seguito dal Centro, quel giorno arriva la telefonata
che non avrei voluto, il nonno se ne è andato. Inizia il periodo peggiore, non
penso ad altro che a peso e cibo, sto proprio male, chiedo aiuto, ma amici e
famigliari non sanno più cosa fare. Decidono di ricoverarmi urgentemente perché
rischio la vita. A febbraio vengo dimesso, riesco ad andare dal nonno, la mia
testa sta meglio, ma ancora arrivano pensieri malati. A marzo, il 22, mi appare
in sogno nonno che mi dice che se continuo così non ne uscirò vivo. Quel giorno
inizio a pranzare con i miei famigliari. Sto meglio, ogni sera penso al nonno e
sento che è vicino a me.<o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Penso alle cose positive che mi
ha dato la malattia, ho riscoperto lo stare in compagnia, sentire il sapore dei
cibi e avere la testa un po più libera da pensieri malattia. I dottori e la mia
famiglia sono contenti, sono sereno, vedo la luce anche se il percorso è ancora
lungo. La testa a volte pensa alla malattia, ma anche ad altro, quello che
vorrei fare in futuro per esempio. Vorrei recuperare il tempo ed essere felice.
Il nonno c’è lo sento. Sto scoprendo in me nuove qualità, come l’amore per la
cucina e per il sapere. La vita è una sola e bisogna fare il possibile per
renderla magnifica a noi stessi, ma anche agli altri. Ora che le cose stanno andando,
grazie alla forza che mi sta dando nonno. <o:p></o:p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Ad aprile vado al compleanno
della mia migliore amica Bianca, ho paura, ma va tutto bene e il giorno dopo ho
l’umore alle stelle ripensando alla serata. Il 4 è il compleanno di nonna, le
chiedo scusa, non lo faccio apposta, lei sorride e capisce. Con il normopeso la
testa si ‘libera’, tornano le sensazioni, anche se ho ancora dispercezioni, ma
riesco a vivere perché la vita è bella una sola. Bisogna chiedere aiuto al
minimo sintomo, parlare con qualcuno alla minima dispercezione in modo da
trovare una soluzione.<o:p></o:p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right;">Tommaso</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-27311778069681829232021-11-19T15:16:00.000+01:002021-11-19T15:16:33.459+01:00Il linguaggio simbolico libero dalle impurità della malattia - Laboratorio del 16 Novembre<p style="text-align: justify;"> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjs8YSk9a6Sf8-mpo3pSM3mamQtPaySXCj4mRpE1gYcGhh-_fVnJKVr8BzFZcFvTC5wabOW4fGRjWKF2_S6tQ3Tpn_1SohJGcRNIidWj6YPqg5JBErJnbIR0QXPpGJY5a7iGY2sepyqawPD/s1200/9caa2793658f3cc387f216157300b1ce_XL.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="430" data-original-width="1200" height="115" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjs8YSk9a6Sf8-mpo3pSM3mamQtPaySXCj4mRpE1gYcGhh-_fVnJKVr8BzFZcFvTC5wabOW4fGRjWKF2_S6tQ3Tpn_1SohJGcRNIidWj6YPqg5JBErJnbIR0QXPpGJY5a7iGY2sepyqawPD/s320/9caa2793658f3cc387f216157300b1ce_XL.jpg" width="320" /></a></div><p></p><p style="text-align: justify;"> </p><p style="text-align: justify;">Il laboratorio scorso ha suscitato alcune riflessioni importanti: un fratello o una sorella sono una risorsa o un’ulteriore difficoltà per una famiglia che deve affrontare una malattia del comportamento alimentare di una figlia o di un figlio? E inoltre, questa esperienza di sofferenza che la famiglia vive, può rappresentare un’occasione per far sviluppare in un fratello o in una sorella, capacità come l’ascolto, il sostegno, l’empatia? </p><p style="text-align: justify;">Innanzitutto bisogna dire che molto dipende dall’età che i fratelli o le sorelle hanno, infatti, la relazione cambia a seconda degli anni di differenza. Importanti sono state le condivisioni delle esperienze raccontate dai genitori presenti. E' emerso quanto la relazione fraterna possa essere una risorsa nella malattia del comportamento alimentare. Certo, la personalità incide sul modo di comportarsi, ma dai racconti fatti si è evidenziato il profondo legame che si è venuto a creare spesso tra fratelli e sorelle, un legame basato sulla comprensione e soprattutto sul sostegno, in una relazione che spesso rivela una modalità comunicativa improntata sulla leggerezza. Come è accaduto nella storia di una famiglia in cui la sorella minore è riuscita, in maniera assolutamente naturale e spontanea, a sdrammatizzare la pesantezza che si può respirare nel vedere la propria sorella ricoverata in una comunità per malattie del comportamento alimentare. Lo sguardo e il modo di interpretare la sofferenza non erano tanto focalizzate sulla malattia, quanto sul modo di poter far sorridere e distrarre la sorella da quel dolore. Oppure la devozione di una sorella maggiore che si è presa così tanto carico della malattia della minore da trovarsi sfinita e priva di energia così da non poter portare avanti il suo percorso di studio universitario. Non dobbiamo dimenticare che il corpo si fa messaggero dei nostri limiti e ci allerta sempre quando stiamo chiedendo troppo a noi stessi. L’amore di questa ragazza per la sorella è talmente grande da andare al di là dei suoi progetti di vita, ma sarebbe giusto sapersi dosare affinché quel donarsi non diventi un atto sacrificale. </p><p style="text-align: justify;">Spesso i genitori vivono situazioni difficili da affrontare da soli, come il trovarsi di fronte alle violente crisi di pianto di una figlia che vede il proprio corpo deformato in modo abnorme a causa della dispercezione causata dalla malattia. Un genitore in questi casi non può fare altro che abbracciare con tutto l’amore possibile, quel dolore dirompente. Però, se da una parte l’abbraccio è un atto fisico, non dobbiamo dimenticare che esso trasmette a sua volta le emozioni che si stanno provando in quel momento. Così, come un abbraccio amorevole trasmette amore, allo stesso modo un abbraccio ansioso o timoroso trasmette ansia e timore. Questo ovviamente non vuol dire che il genitore sbagli, ma mette in evidenza ancora una volta quanto sia importante che un padre e una madre si prendano cura dell’angoscia, impotenza e paura che una malattia del comportamento alimentare fa nascere in loro. E' importante che queste emozioni possano essere elaborate per far sì che ci si svuoti della loro presenza in modo da poter contenere la sofferenza dei propri figli trasmettendo protezione, amore, fiducia. Certo, non è una cosa facile, perché la malattia tende a risucchiare le energie dei familiari e soprattutto a resettare quello che si è imparato. Per questo è indispensabile lavorare costantemente su se stessi. </p><p style="text-align: justify;">Paradossalmente il sintomo può essere un alleato, nel senso che costringe la famiglia a trovare un nuovo modo di comunicare. È importante che in questa situazione ci sia un sostegno idoneo capace di aiutare l’intero nucleo familiare a ricostruire una comunicazione che non usi più il linguaggio simbolico della patologia. Inizialmente la malattia del comportamento alimentare si impossessa di ogni spazio appartenente alla famiglia. Eclatante è il primato che assume nel momento dei pasti i quali vengono a ricoprirsi di rituali caratterizzati dalla restrizione, dall’abbuffata o dal voler consumare il pranzo e la cena da soli. In questo caso, cosa devono fare i familiari? Assecondare o ostacolare la messa in atto di tali comportamenti? Come al solito, non esiste una risposta unica che vada bene per tutte le situazioni. Non mi stancherò mai di ripetere che i genitori non devono diventare i terapeuti dei propri figli. Il problema non è tanto il rituale ma cosa porta la persona che ha una malattia del comportamento alimentare a mettere in atto quelle condotte, nella maggior parte dei casi alla base c’è una profonda angoscia e paura che richiedeno l’intervento di un percorso terapeutico. La famiglia a questo punto concorderà a sua volta con i terapeuti la modalità con cui gestire il delicato momento dei pasti. Ma cosa accade quando il figlio o la figlia è maggiorenne, non vuole intraprendere alcun percorso di cura, e continua a mettere in atto i suoi rituali legati alla malattia? In questo caso i genitori cosa devono fare: opporsi, e quindi entrare in conflitto, o assecondare, e quindi diventare complici della malattia? La questione si fa complessa in quanto la famiglia dinnanzi ai rituali della sintomatologia è impotente. Ma allora un genitore si deve rassegnare? Assolutamente no. Anche se nel momento dei pasti è poco quello che può fare perché non è il rituale il problema ma cosa spinge la persona a mettere in atto quella condotta, però si può cercare, nei diversi momenti della giornata, di poter avviare un dialogo, una comunicazione con la propria figlia o figlio. Ma anche qui, come nella situazione dell’abbraccio, occorre far attenzione a come ci si predispone. Se l’obiettivo è quello di far sparire il rituale, sarà difficile creare un dialogo costruttivo, poiché sarà investito di sole aspettative. È necessario quindi svuotarsi dalle proprie ansie e paure. </p><p style="text-align: justify;">Trovo utile, per far comprendere questo concetto, spiegare brevemente cosa accade durante un percorso terapeutico e perché questo viene ritenuto essenziale nella cura di queste patologie. Una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare adotta, all’interno del contesto in cui vive, una modalità comportamentale e relazionale di difesa contro quelle paure che nutre dentro di se’, costruendo una sorta di “tana” in cui si sente al sicuro e protetta. Quando avverte che qualcuno attacca il suo riparo volendo allontanarla da esso, si difende in tutti i modi possibili non volendo assolutamente rinunciare a quella “tana” eretta con così tanta fatica. Nella psicoterapia cosa accade? Prima di tutto ci si trova già in un campo neutro, quindi fuori da quel contesto familiare in cui c’è la propria “tana”, che, in quel momento non sta correndo alcun pericolo. Inoltre, il contesto terapeutico permette di creare a sua volta uno spazio nuovo in cui la persona viene incoraggiata a sperimentare cosa accade in un ambiente che non è quello del suo riparo. La persona di solito finisce col provare quella nuova situazione, perché sa che una volta a casa, può ritornare nella sua “tana”, non si sente quindi minacciata. Contemporaneamente però accade che quella esperienza le susciterà via via nuove emozioni, nuove percezioni, nuove sensazioni che la porteranno poi gradualmente ad avere sempre meno paura di vivere fuori da quel rifugio, facendole così intraprende il percorso della guarigione. Questo fa capire quanto sia difficile per un genitore distruggere la “tana” della malattia del comportamento alimentare poiché il familiare è parte integrante di quel contesto stesso. E allora cosa deve fare, rinunciarvi? Assolutamente no. Anzi. Può al contrario lavorare lui per primo fuori da quel contesto. In che senso? La malattia parla attraverso un linguaggio simbolico che si esprime nell’isolamento, nelle rinunce, nelle paure, nell’anestesia di emozioni. Per contrastare la sintomatologia occorre quindi rimandarle un linguaggio che sia altrettanto simbolico ma che riporti un messaggio fatto di apertura, condivisione, gioia, desiderio, scoperta. E come si fa? Cominciando a coltivare questa visione all’interno di se’. Infatti, non si può trasmettere ciò non si ha dentro. Questo significa mettersi in gioco completamente, osservando come il linguaggio della malattia agisca sui propri pensieri, emozioni, sensazioni. Naturalmente, è impossibile cercare di compiere questa osservazione quando si è davanti alla sofferenza dei propri figli, ma si può metterla in atto in alcuni momenti della giornata, ad esempio quando facciamo la doccia. Ascoltiamo le sensazioni che ci rimanda il sentire l’acqua sul nostro corpo, come lentamente sa sciogliere le tensioni sui nostri muscoli. Chiudiamo gli occhi e notiamo come quell’acqua che scivola su di noi, riesce a farci rivivere il periodo in cui per nove mesi siamo stati immersi nel liquido amniotico del grembo materno. E assaporiamo la calma che ci rimanda. Non dimentichiamo che noi siamo fatti di acqua. L’acqua è il nostro elemento naturale. Fare questa esperienza ha un valore altamente significativa per ognuno di noi. Successivamente possiamo raccontare questa esperienza ai nostri figli, invogliarli a provarci anche loro. Chi meglio di una madre può riaccompagnare la propria figlia o figlio a ripetere quell’esperienza già vissuta nel grembo materno? Chi meglio di un padre può riaccompagnare la propria figlia o figlio a camminare sulle proprie gambe? Diventa così essenziale arricchire le nostre giornate di quelle azioni, pensieri, immagini che ci aiutano a costruire dentro di noi il nostro nuovo linguaggio simbolico che potremo finalmente comunicare ai nostri figli, libero dalle impurità della malattia.</p><p style="text-align: justify;"><br />Frase della settimana: IL LINGUAGGIO SIMBOLICO LIBERO DALLE IMPURITÀ DELLA MALATTIA</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-50070469072481577422021-11-08T11:49:00.003+01:002021-11-08T11:49:58.623+01:00Un numero non lo sa<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;"> <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-1g686VvBNxSJLEW_dp8NaB425RxRivbvjUy7q4AYtl1th7zdFuwxl6BXJZY_sbXm6sHO86pjnelivl8w9wBtrPgfAr_TBezz_MUIA2LpHGiErKe6yRvM6FzBkKVges1GLzo9szp2VLok/s1120/numeri.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="630" data-original-width="1120" height="181" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-1g686VvBNxSJLEW_dp8NaB425RxRivbvjUy7q4AYtl1th7zdFuwxl6BXJZY_sbXm6sHO86pjnelivl8w9wBtrPgfAr_TBezz_MUIA2LpHGiErKe6yRvM6FzBkKVges1GLzo9szp2VLok/w320-h181/numeri.jpg" width="320" /></a></div><br /></div><div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;"> </div><div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Non ricordo che età avessi, forse dodici o tredici anni, non di più. È
una scena che mi è rimasta impressa nella memoria e a cui ripenso
spesso, forse per cercare un ipotetico inizio del bellicoso rapporto con
la mia corporeità, o forse soltanto perché il pensiero
che feci all'epoca non mi ha mai abbandonata del tutto. O ancora, per
ripetermi che non ho colpe se non l'esserci nata, con questi pensieri.</div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;"><br />
</div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Era
estate, circa all'ora di pranzo, io stavo salendo sulla bilancia per
vedere se quel giorno mi sarei potuta concedere una modesta e per nulla
pretenziosa pizza surgelata, una tipica
margherita comprata al supermercato, e che sono certa di non aver più
mangiato da allora. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Dopo
il verdetto ero così contenta di poter mangiare quella pizza, perché sì,
quel giorno i numeri me lo permettevano, mi dicevano che andavo bene e
che in me poteva esserci spazio per
ciò che desideravo e che, se non avessi avuto la bilancia sotto mano,
probabilmente avrei mangiato in ogni caso. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;"><br />
</div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Penso
spesso a quella scena della mia vita perché credo sia stato da quel
giorno che ho iniziato a pesare le cose che potevo permettermi, che
potevo meritarmi, è stato da lì che, in
modo graduale ma costante, ho iniziato a (non) dare peso al mio
valore. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Ma se
prima, quand'ero ancora una bambina, ero in grado di mantenere i miei
propositi, e quindi concedermi ciò che consideravo un premio per "pesare
nel mio limite", crescendo non ci
sono più riuscita, perché ogni cifra era allo stesso tempo uno
spostamento di quel limite, e si trasformava in un "sarà per la prossima
volta" portato però all'infinito. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;"><br />
</div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Il
permesso era ciò che aspettavo, un'indicazione che provenisse
dell'esterno, e che di conseguenza ha fatto svanire la mia libertà. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Non sono libera da tanto tempo, imprigionata in molte cose, in uno specchio, nei numeri, nelle emozioni, in me stessa. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Ci si può perdere in se stessi e non sentirsi al sicuro, pur abitando nel proprio essere? </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">È talmente contrastante e disorientante come sensazione, che un numero può darti l'apparenza della stabilità che cerchi.</div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;"><br />
</div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Si
dice sempre "è solo un numero, non dice niente su di te", un numero non
può far sapere se ti piace l'azzurro o preferisci il viola, se ami la
danza o sei sai suonare uno strumento,
un numero non sa qual è la tua canzone preferita né se in questo
momento ti senti felice o se vorresti solamente piangere, e un numero
non può dirti se c'è abbastanza spazio nella tua vita per le cose che ti
fanno stare bene. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;">Un
numero, tutto questo non lo sa, sono solo io a saperlo, quella bambina
lo sapeva bene, ma il peso del mondo gliel'ha fatto dimenticare e, non
contando più su se stessa, ha deciso
di contare altro, tutto ciò che alla fine non conta nulla in una vita
libera dalle sue prigioni. </div>
<div style="background-color: white; color: #212121; text-align: justify;"><br />
</div><div style="background-color: white; color: #212121; text-align: right;">Elisa<br />
</div><p style="text-align: justify;"> </p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-3616916190405566212021-11-05T14:41:00.004+01:002021-11-05T14:41:56.257+01:00Come spiegare a un bambino piccolo perchè la sorella o il fratello hanno smesso di mangiare - Laboratorio del 2 Novembre.<p style="text-align: center;"> </p><div style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8qX4U0tFjiJtxRDao7nDv4xtWLtedYC-jHoA4A1yoa_PusybFR2_ZFkAM5cSRa5anUpO7njsBSv5z2gvZzMQNhx5dvw0FTcb1_C9FC9F0jhgX_V14Nqy3lOJDuUdSVADVMNaf_-O8uhfK/s245/00-mano-bambino.jpg" imageanchor="1"><img border="0" data-original-height="245" data-original-width="245" height="245" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj8qX4U0tFjiJtxRDao7nDv4xtWLtedYC-jHoA4A1yoa_PusybFR2_ZFkAM5cSRa5anUpO7njsBSv5z2gvZzMQNhx5dvw0FTcb1_C9FC9F0jhgX_V14Nqy3lOJDuUdSVADVMNaf_-O8uhfK/s0/00-mano-bambino.jpg" width="245" /></a></div><br /><p></p><p style="text-align: justify;">In questo momento mi trovo in difficoltà a riportare le tematiche del laboratorio poiché è stato un incontro talmente intenso a livello emotivo che mi è difficile riuscire a descrivere a parole le emozioni emerse, poiché sembra quasi di diminuirne e smorzarne il loro valore. Tutto è cominciato da una domanda: “ come può un genitore, che ha un figlio piccolo, spiegargli quello che sta accadendo alla sorella maggiore che soffre di una malattia del comportamento alimentare? ”</p><p style="text-align: justify;">E’ una domanda complessa perché di solito ci si focalizza maggiormente sulla sofferenza che colpisce il figlio o la figlia portatrice del sintomo, dimenticandosi del disagio che può provare un fratello o una sorella che indirettamente ne sono comunque coinvolti. Come spiegare ad un bambino piccolo perché la sorella o il fratello hanno smesso di mangiare? Come proteggerlo dalla presenza della malattia? Sono tematiche complicate, perché vanno a comprendere non solo il rapporto che esiste tra fratelli e sorelle ma anche l’aspetto educativo e di crescita del figlio o della figlia che sono in tenera età o in adolescenza. Un bambino piccolo fa fatica a comprendere ciò che rappresenta una malattia del comportamento alimentare. Risulta difficile per noi adulti, possiamo immaginare quanto sia ostico per lui. Ciò su cui dobbiamo riflettere non è tanto cercare di dare una spiegazione su quella che è la dinamica della sintomatologia alimentare, quanto rispondere alla domanda, che, anche se è formulata attraverso ciò che sta accadendo alla sorella o al fratello, rappresenta una richiesta di aiuto. O meglio, attraverso quella domanda il bambino sta chiedendo alla propria mamma o al proprio papà di essere ascoltato, rassicurato, di non essere lasciato solo ad affrontare quelle emozioni che quella situazione “ anomala” suscita in lui. </p><p style="text-align: justify;">I bambini non conoscono filtri, sono l’immagine esatta della spontaneità e della naturalezza e rimangono destabilizzati di fronte a un comportamento come quello della patologia alimentare. Un genitore in questi casi deve prima di tutto non colpevolizzarsi per quella situazione familiare venutasi a creare, accogliendo quella domanda svuotandola del linguaggio focalizzato sul cibo e riempiendola invece del linguaggio focalizzato sulle emozioni: “ Tua sorella in questo momento ha paura, e quando si ha paura, è difficile riuscire a mangiare”. E cosa fare quando qualche volta il bambino piccolo subisce direttamente la rabbia del fratello o della sorella maggiore? Un tale comportamento non può ovviamente passare inosservato, ma è inutile rimproverare il figlio o la figlia artefice di quel gesto rabbioso, poiché esso non è che la manifestazione esplicita della malattia. Quando però capita un momento di tranquillità, si prova a parlarne con il responsabile o la responsabile di quell’azione, cercando di evidenziare come sia sbagliato sfogarsi in quel modo. Parlarne aiuta non solo a rielaborare l’accaduto, ma soprattutto permette di far emergere le emozioni collegate a quel gesto. Per quanto riguarda il bambino piccolo che ha subito quegli insulti rabbiosi, si può ad esempio andargli vicino, abbracciarlo, spiegandogli che in quel momento, trasformandosi in una sorta di pungiball, ha aiutato il fratello o la sorella a tirare fuori quella paura che sentiva dentro. Questo serve a sdrammatizzare e ad alleggerire l’accaduto trasmettendogli soprattutto amore, comprensione e protezione. </p><p style="text-align: justify;">Spesso non si pensa quanto una famiglia sia lasciata sola ad affrontare queste dinamiche familiari che nascono dalla presenza della malattia del comportamento alimentare. Il sintomo viene visto come un nemico da espellere e non come portatore di un cambiamento. In questa fase è importante che la famiglia venga sostenuta per accettare questo messaggio che la patologia sta inviando, affinché insieme si possa gradualmente accogliere questa richiesta di trasformazione. Come è stato accennato nel laboratorio precedente, un genitore vorrebbe che la malattia sparisse immediatamente restituendogli il figlio o la figlia esattamente come erano prima della sua comparsa. Ma questo è impossibile. Impossibile perché guarire significa anche distaccarsi dal vecchio legame familiare, che non vuol dire rinnegarlo o abbandonarlo. Tutt’altro. Significa al contrario, instaurare una nuova relazione con la propria famiglia. </p><p style="text-align: justify;">Una mamma ha raccontato di come il figlio si fosse allontanato perché spaventato dalla patologia alimentare della sorella. Per anni si era rifiutato di incontrarla e di parlarle. La madre ha dovuto fare un lungo lavoro su se stessa per trasmettere al figlio un modo differente di guardare la malattia e quindi il proprio legame fraterno. Cambiare lo sguardo è essenziale. Chi soffre di una malattia del comportamento alimentare non comunica con le parole, comunica con lo sguardo. È un concetto già accennato in diversi laboratori, ma che va sempre evidenziato. La malattia costringe tutti i membri di quel nucleo familiare a mettersi in discussione e a lavorare su se stessi per ricostruirsi come famiglia. <br /></p><p style="text-align: justify;">Una mamma ha condiviso la difficile situazione che sta attraversando. Se per un momento aveva intravisto la luce della guarigione della figlia, questa si è improvvisamente spenta, gettandola in quel baratro che credeva di avere oramai superato. Emozionanti sono state le parole di sostegno di un’altra mamma che, raccontando il percorso di cura della figlia, caratterizzato da tante rovinose cadute e ricoveri, ora è guarita. Sono state parole che hanno saputo trasmettere conforto, vicinanza, comprensione e soprattutto speranza. Non esiste una guarigione indolore. La malattia del comportamento alimentare costringe tutti i membri familiari ad affrontare la propria sofferenza, a rimettersi in gioco, a guardarsi nel profondo. Stasera si è percepita la forza che nasce dall’unione condivisa dei genitori. Quanto la loro diretta esperienza possa essere un sostegno fondamentale per coloro che stanno attraversando quei momenti difficili che inevitabilmente accadono durante un percorso di cura. Solo chi ha vissuto determinate situazioni sa arrivare in modo diretto al cuore dell’altro, e l’emozione che fa emergere è un’emozione che nutre, riempie, arricchisce e crea unione.</p><p style="text-align: justify;">La frase della settimana: COME SPIEGARE A UN BAMBINO PICCOLO PERCHÉ LA SORELLA O IL FRATELLO HANNO SMESSO DI MANGIARE?</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-18301271704914543852021-10-23T09:00:00.000+02:002021-10-23T09:00:38.428+02:00La famiglia sa essere di aiuto - Laboratorio del 19 Ottobre.<p style="text-align: justify;"> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEih5GXDKKe0eTa94yLKBw17XAb6h2ycPhnxMeyz5-omr_ka-doyatBJqlhXXn0GGV_rxX5cB5afA32pjbXJYvBomrLyLS6TvV0fv07qjfvetB-sfyihzCgbmgEQDTR5hONRuXr-GSHb_f6r/s1500/famiglia-1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="851" data-original-width="1500" height="182" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEih5GXDKKe0eTa94yLKBw17XAb6h2ycPhnxMeyz5-omr_ka-doyatBJqlhXXn0GGV_rxX5cB5afA32pjbXJYvBomrLyLS6TvV0fv07qjfvetB-sfyihzCgbmgEQDTR5hONRuXr-GSHb_f6r/s320/famiglia-1.jpg" width="320" /></a></div><br /><p></p><p style="text-align: justify;">Spesso quando si parla di malattie del comportamento alimentare si pensa subito all’anoressia e alla bulimia, ignorando l’esistenza di diverse forme attraverso cui si manifestano queste patologie. Una di esse è la vigoressia, o anoressia riversa, malattia che colpisce prevalentemente il genere maschile, ma dalla quale non è escluso anche il genere femminile. Se nell’anoressia c’è la ricerca ossessiva per avere un corpo sempre più magro, nella vigoressia c’è la ricerca ossessiva per avere un corpo sempre più muscoloso. Apparentemente, la vigoressia suscita meno preoccupazione perché l’attenzione verso un’ alimentazione proteica e uno stile di vita improntato allo sport fa credere che sia un comportamento salutare e corretto. In realtà, così non è, perché allo stesso modo dell’anoressia, il ragazzo o la ragazza che ne soffrono cominciano a impostare tutta la loro quotidianità solo ed esclusivamente per realizzare il raggiungimento di tale scopo, risentendone quindi anche la vita sociale, affettiva, lavorativa o scolastica. </p><p style="text-align: justify;">Ogni volta che l’attenzione si focalizza solo su se stessi, si arriva poi allo isolamento e all’alienazione da tutto il resto. Ci tengo a precisare che le malattie del comportamento alimentare non hanno una gerarchia prestabilita in cui una risulta più seria dell’altra. Non è il peso, né il cibo ingerito o rifiutato, né l’etichetta cui viene associato il comportamento a determinarne la gravità. Sono tutte malattie che coinvolgono completamente la persona che ne soffre, intaccando sia la sua sfera corporea che quella mentale generando una sofferenza che è simile a tutti coloro affetti da queste patologie, e come tali devono essere curate.</p><p style="text-align: justify;">Spesso accade che la famiglia che vive l’esperienza della malattia del comportamento alimentare di un figlio o di una figlia desidera che la sintomatologia possa sparire il prima possibile così da poter ritornare presto alla vita di sempre. Questo lecito desiderio in realtà rappresenta una trappola poiché la malattia porta con se’ un messaggio molto importante che è il messaggio del cambiamento. Nulla infatti può tornare come era prima. La ragazza o il ragazzo che soffrono di una malattia del comportamento alimentare avvertono il bisogno di trasformare ciò che è parte della loro vita. Ricordiamo che queste malattie sono molto complesse perché racchiudono aspetti sociali, culturali, emotivi, relazionali e di conseguenza anche familiari. L’adolescente vive una serie di stimoli che provengono dal gruppo degli amici, dalla scuola, dai mass media, da ideali di immagine estetica che lo portano naturalmente a una crisi caratterizzata dal normale processo di crescita. Quando gli stimoli diventano eccessivi e non trovano un appropriato contesto che li sappia contenere, ecco allora che può accadere di trovare nella malattia del comportamento alimentare una soluzione a quel senso di disagio, disistima e paura di non essere all’altezza delle richieste che arrivano dal mondo esterno. La famiglia, che dovrebbe essere il luogo dell’ascolto e dell’accoglienza, si trasforma agli occhi della ragazza o del ragazzo affetti da queste patologie nel luogo da cui difendersi, il luogo da attaccare. Se da una parte spaventa distaccarsi dalla protezione dei genitori, dall’altra si vuole fuggire da quella presenza costante che viene vista come un ostacolo alla propria indipendenza e identità individuale. </p><p style="text-align: justify;">Questi processi, che sono in parte naturali, diventano ancor più complessi quando c’è una malattia del comportamento alimentare perché il conflitto all’ interno del nucleo familiare si fa più intenso. Frequentemente i genitori rimangono colpiti dalla rabbia e cattiveria che i figli rigettano su di loro, con l’intento preciso di ferirli e annientarli. In realtà ciò che desiderano veramente è il cambiamento, che ai loro occhi può avvenire solo se distruggono prima ciò che c’è. Il sintomo alimentare mette in luce questo bisogno di trasformare la modalità di comunicazione e convivenza tra figli e genitori, a cui il nucleo familiare non può certamente sottrarsi. Questo ci fa capire quanto sia fondamentale che la famiglia venga coinvolta nel percorso terapeutico poiché figli e genitori devono costruire insieme una nuova modalità per conoscersi e stare insieme.</p><p style="text-align: justify;">Essenziale è intraprendere un percorso di cura efficace e risolutivo. Ma come si fa a trovarlo e soprattutto quali sono gli specialisti a cui rivolgersi? Innanzitutto la famiglia deve essere informata che queste malattie richiedono un percorso terapeutico molto lungo, che va solitamente dai tre ai cinque anni, è impensabile credere di poter guarire in pochi mesi. Un genitore che si trova a dover affrontare la malattia del comportamento alimentare del figlio o della figlia per prima cosa si rivolge all’asl del territorio che dovrebbe essere munita di un centro specializzato per queste patologie e da qui, a seconda della fase della malattia e della storia del ragazzo o della ragazza, si valuta il percorso terapeutico che può essere di tipo ambulatoriale, o, se è necessario, un ricovero in un centro residenziale. Il problema però sorge quando nella regione di residenza questi servizi mancano, e la famiglia, non sapendo a chi chiedere aiuto, si rivolge a professionisti privati che in teoria dovrebbero, seppure a pagamento, fornire il servizio richiesto. Purtroppo, e questo è un tema che spesso abbiamo trattato non solo nei laboratori, ci sono psicoterapeuti e nutrizionisti che non hanno una formazione specifica in malattie del comportamento alimentare. </p><p style="text-align: justify;">Stasera nel laboratorio si è molto parlato della figura della nutrizionista e della funzione che ricopre all’ interno di un percorso terapeutico di malattia del comportamento alimentare. Ci sono state testimonianze di genitori che, laddove i figli erano abbastanza motivati, si sono trovati a contatto con approcci nutrizionali non adeguati per la cura di queste patologie. Un nutrizionista che si trova a prendere in carico una persona con una malattia di questo genere non può certamente prescrivere un regime alimentare basato solo sull’ apporto nutrizionale, Sappiamo bene che chi soffre di queste sintomatologie conosce a memoria tutte le proprietà nutritive degli alimenti, e sa bene come abbinare i vari cibi per avere un pasto equilibrato. La persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare cerca in realtà qualcuno che la possa finalmente guidare, prendendola per mano e accompagnandola con sensibilità e comprensione, a sciogliere quelle paure così strettamente collegate e intrecciate al cibo. Nel piatto infatti ci sono anche e soprattutto le emozioni. Abbiamo sempre detto che queste sono patologie molto complesse. Il cibo in se’ racchiude significati e simbologie che hanno a che fare con gli aspetti inconsci e primordiali della persona. Il bambino appena nasce cerca subito il latte della mamma, e attraverso il seno materno instaura la sua prima relazione con l’altro. Cibo, relazioni, affetti sono intrinsecamente intrecciati e costituiscono la trama della vita sociale ed emotiva di ognuno di noi. </p><p style="text-align: justify;">La malattia del comportamento alimentare prende di mira il cibo proprio per questa sua valenza altamente ricca di significati profondi. Proprio per questo motivo, i percorsi di cura sono soggettivi e vanno progettati in base alla storia della persona stessa. Fondamentale è il lavoro di equipe, senza di esso anche lo psicoterapeuta o il nutrizionista più esperto può far ben poca cosa perché la cura ha bisogno di più figure professionali che lavorano in sinergia tra loro. E altro aspetto da cui non si può assolutamente trascendere, laddove la ragazza o il ragazzo vengono ricoverati in una struttura residenziale, è assolutamente necessario assicurare la continuazione della cura un volta che la permanenza nella struttura termina, costruendo una apposita rete di sostegno intorno al ragazzo/a e la famiglia.</p><p style="text-align: justify;"><br />Stasera molti genitori hanno condiviso la propria esperienza, creando un clima di reciproca solidarietà e aiuto diretto. Si è evidenziato anche la problematica che sorge quando un figlio è maggiorenne e non vuole avviare un percorso terapeutico. Alcuni genitori in questi casi hanno fatto la richiesta della nomina di un amministratore di sostegno, che va presentata al giudice tramite un avvocato o un assistente sociale adibito a questo ruolo. Una mamma ha potuto essere nominata amministratore di sostegno della figlia già dopo 14 giorni, tramite un’approvazione provvisoria, che comunque, avendo già un valore giuridico, le ha permesso di intervenire velocemente, senza dover aspettare la chiusura della pratica ufficiale che richiede solitamente dai 60 ai 90 giorni. Sono state tutte informazioni nate dall’esperienza diretta di genitori che si trovano ogni giorno a dover affrontare non solo problemi di gestione della malattia, ma soprattutto, si trovano a cercare con molte difficoltà la cura per i propri figli. Perché non dimentichiamo mai che ancora ad oggi in Italia sono poche le regioni che sono provviste di tutti i servizi e strutture idonee per la presa in carico delle persone che soffrono di malattie del comportamento alimentare. La famiglia si trova spesso costretta, laddove se ne hanno le possibilità economiche, a rivolgersi privatamente. E ancora una volta, ci si trova davanti alla mancanza di diritto alla cura.</p><p style="text-align: justify;">La frase della settimana : LA FAMIGLIA SA ESSERE DI AIUTO</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-81413536703003146442021-10-14T10:43:00.001+02:002021-10-14T16:12:48.279+02:00Conoscenza, consapevolezza e coraggio di condividere possono prevenire e aiutare a combattere i disturbi del comportamento alimentare.<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"></div><div style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgILkuumNU_jZTnL6lq5YxzXgjVQHsNcLKiCPbEnV-QdGAq7b_TlKOEvZ9ogICCnktHEDC4VkdG_sP9RzGDJIYwmzbiEfYTDSAaQHHzZ7sJTQpLxz85uqs5_qD_HEW6fiN0VqqlXCTTB_po/s660/0000041218-jpg-74218.660x368.jpg"><img border="0" data-original-height="368" data-original-width="660" height="178" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgILkuumNU_jZTnL6lq5YxzXgjVQHsNcLKiCPbEnV-QdGAq7b_TlKOEvZ9ogICCnktHEDC4VkdG_sP9RzGDJIYwmzbiEfYTDSAaQHHzZ7sJTQpLxz85uqs5_qD_HEW6fiN0VqqlXCTTB_po/w320-h178/0000041218-jpg-74218.660x368.jpg" width="320" /></a></div><br /> <span style="mso-ansi-language: IT;">Mi chiamo Samantha, sono
una ragazza italiana di ventisette anni, che vive e lavora in Regno Unito dal
2016. Fino alla primavera del lockdown pensavo di avere la mia in pugno, con un
dottorato di ricerca come lavoro e “uno stile di vita sano”. <br /></span><p></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Quando tutto sembrava
essere fuori dal nostro controllo, per via della pandemia di COVID-19, io
sentivo di avere una solida routine fatta di lavoro, esercizio fisico e una
dieta salutare. Non mi sono resa conto dei segnali allarmanti, che mi hanno
portata ad essere ufficialmente diagnosticata con anoressia nervosa
restrittiva, a Dicembre 2020. Dopo mesi di puro terrore, per me e i miei cari,
con visite frequenti in ospedale, prelievi settimanali e monitoraggio di ossa e
cuore, ho capito quando potenzialmente mortali siano i disturbi del
comportamento alimentare (DCA). Le statistiche, almeno qui in U.K. riflettono
l’urgenza del problema. L’anoressia nervosa (AN) è classificata come la
malattia psichiatrica con il più alto tasso di mortalità (5%), con il 46 % di soggetti
che raggiungono il ricovero totale, solo il 33% che migliora e il %20 che
rimane malato cronico. <br /></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Non so bene quando il mio
mangiare equilibrato sia diventato ortoressia nervosa, ossessione per il cibo
sano, né quando il mio amore per la corsa sia sfociato in estremo esercizio
fisico. Tutto quello che vedevo nei social media, era una sorta di idolatria
per queste tendenze ed estrema rigidità nella dieta. Sta di fatto che alla fine
del primo lockdown inglese in Settembre, non potevo passare un giorno senza
uscire e correre, anche sotto estremo maltempo. La corsa ed esercizio
aumentava, e la quantità e qualità del cibo diminuiva. <br /></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Arrivata a Dicembre 2020
incapace di toccare la maggior parte degli alimenti, visibilmente deperita e
non sapendo più cosa fare. Non avevo conoscenza di strutture disponibili, non
sapeva da dove iniziare. </span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">In Italia, durante gli anni
di educazione scolastica, non ho mai avuto corsi che spiegassero i pericoli che
questi comportamenti e la credenza di poter raggiungere “la perfezione”,
potessero avere sulla mia salute. Tutto quello che sentivo erano i danni
dell’essere in sovrappeso, mai i pericoli dell’essere in sottopeso. <br /></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Un altro problema è
l’educazione alimentare e la demonizzazione di grassi, carboidrati e zuccheri.
Nei supermercati, almeno in U.K ma anche in Italia, vediamo l’insorgere di
alimenti zero grassi e senza zuccheri. La cultura dell’essere perennemente a
dieta, del ridurre e restringere la quantità di cibo, l’enfasi sulle calorie e
del “sentirsi in colpa”, sono il carburante dei DCA. Invece di insegnare che
tutti gli alimenti, nelle giuste quantità, sono accettabili e trasmettere uno
stile di vita equilibrato, basato sull’accettazione di noi stessi, la società
ci insegna quanto siamo “imperfetti” e quanto dobbiamo “aggiustare” i nostri
corpi. </span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">I DCA non sono solo
legati al “cibo”. Il cibo per me era un veicolo, l’ultima manifestazione di
problemi molto più estesi. I DCA non solo legate solo a cibo e peso, le persone
affette possono essere a qualunque peso. La concezione di non essere “malati
abbastanza” da ricevere aiuto è uno dei principali ostacoli per avere accesso
all’assistenza sanitaria qui in U.K. <br /></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Ho potuto capire tutto
questo solo iniziando una terapia specializzata, seguita da psicologi,
nutrizionisti e infermiere, tutti specializzati nei DCA. </span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Il mio percorso mi ha
aiutata a capire quando sia vitale educare la popolazione, giovane ed adulta,
sui rischi, fattori e mezzi per prevenire e affrontare questi disturbi. </span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Solamente “riprendendo
peso” non si combattono i DCA. Bisogna capire cosa li ha provocati, quali
problemi sono mascherati dalla mancanza di cibo e come funziona la malattia.
Lavorando sia sulla parte fisica, sia su quella mentale, sono riuscita a
recuperare i kg persi, uscire da pericoli medici come il collasso cardiaco, e cambiare
le aspettative che avevo di me stessa. <br /></span></p>
<p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="mso-ansi-language: IT;">A tutte le persone
affette o meno da DCA raccomando di informarsi, condividere storie, alzare il
livello di consevolezza della situazione. Prima di arrivare
all’ospedalizzazione ci sono molti passi in cui si può aiutare/essere aiutati
nel ricovero. </span></p><p class="MsoNormal" style="text-align: right;"><span style="mso-ansi-language: IT;">Samantha <br /></span></p>
minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-40711545007115390172021-10-06T18:20:00.000+02:002021-10-06T18:20:07.435+02:00Il diritto alla cura - Laboratorio del 5 Ottobre <p style="text-align: justify;">Il laboratorio di stasera ha affrontato una tematica molto cara a chi soffre di una malattia del comportamento alimentare: il diritto alla cura. Sono state molte le condivisioni da parte dei genitori partecipanti e molte le emozioni trasmesse. </p><p style="text-align: justify;">Tra i diversi racconti è emerso quanto ancora manchi una preparazione specifica nelle malattie del comportamento alimentare per le figure professionali come pediatri e medici di base, non solo come formazione diagnostica della patologia ma anche come conoscenza delle strutture di cura presenti sul territorio. Come è accaduto a una mamma residente in Umbria la quale si è trovata ad essere indirizzata dal pediatra della figlia verso psicologi privati generici, quindi senza alcuna specializzazione in malattie del comportamento alimentare, quando la regione stessa è provvista di tutte le strutture e i servizi sanitari necessari per la cura di queste patologie. E questo diventa un fattore ancora più grave quando la diretta interessata è una ragazzina di 11 anni con una sintomatologia alimentare ancora agli albori ma poi divenuta avanzata dall’approccio terapeutico non adatto. Sono storie che accadono e purtroppo anche di frequente, anche in un territorio in cui potenzialmente esiste una buona rete per la cura di queste malattie. </p><p style="text-align: justify;">Alcuni genitori hanno invece dovuto affrontare i cosiddetti “viaggi della speranza”, emigrando in regioni lontane dalla propria per poter assicurare una cura adeguata alla propria figlia o figlio ammalato. Altri ancora invece hanno potuto usufruire dei servizi sul proprio territorio, riscontrando una buona preparazione e conoscenza sia della malattia che dei percorsi terapeutici da affrontare. Per tutte queste storie c’è però un qualcosa in comune: l’assenza iniziale di un sostegno alla famiglia per la sofferenza e il disagio che una malattia del comportamento alimentare crea all’interno di un nucleo familiare. Non ci riferiamo solo alle figure genitoriali ma anche a sorelle e fratelli che si trovano coinvolti a vivere questa patologia come osservatori passivi, privandoli di quel rapporto unico e speciale che si crea e si costruisce quando si è piccoli e si condividono le stesse esperienze e lo stesso contesto ambientale. La malattia cancella tutto, disintegra gli affetti, le relazioni, lo stare insieme. Un vortice che isola e rende impotenti poiché mancano gli strumenti per capire quello che sta accadendo. </p><p style="text-align: justify;">Tenere la famiglia lontano dalla cura è un errore, poiché sia la persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare sia il sistema familiare della stessa, hanno bisogno di intraprendere un percorso parallelo per andare a ridefinire quel linguaggio che si è nel frattempo trasformato e che ora comunica solo attraverso il sintomo alimentare. Ne è la prova quando una figlia in struttura riesce a gestire in qualche modo la malattia ma appena arriva a casa, appena si ritrova tra le mura domestiche, questa riprende in tutto il suo vigore. Accade perché è venuta a mancare tra figli e genitori la ricostruzione e il successivo ancoraggio di un nuovo linguaggio, continuando inevitabilmente ad usare lo stesso stile comunicativo proprio della malattia. A questo riguardo un papà ha raccontato di come ad un tratto nella sua vita sia venuto in contatto con una psicoterapeuta del servizio sanitario locale, la quale, con empatia e professionalità, ha saputo accompagnare lui e tutta la sua famiglia verso quelle che erano le risorse insite delle dinamiche familiari, portando alla luce la qualità dei sentimenti e districando così i nodi che rendevano la comunicazione tra figli e genitori distorta e incomprensibile. Spesso una madre e un padre si trovano avvinghiati nel terribile senso di colpa che li blocca nella ricerca ossessiva di trovare la causa che ha generato lo sviluppo della malattia nei propri figli. Se questo processo da una parte è comprensibile che avvenga, dall’altra risulta spesso inutile e controproducente perché oltre a non arrivare a nessuna soluzione, aumenta la sensazione di venir risucchiati ancora di più dalle dinamiche della malattia del comportamento alimentare. Ricordiamo che alla base di queste patologie ci sono più cause: sociali, personali, biologiche, genetiche, familiari, emotive, relazionali, culturali in cui ognuna di esse si intreccia l’una con l’altra. Quindi non esiste un solo motivo per cui ci si ammala poiché si tratta di malattie multifattoriali. Ecco allora che un genitore più del porre attenzione su ciò che può aver causato la malattia, può invece indirizzare le proprie energie verso ciò che è il momento presente, cercando di capire quello che sta accadendo nel qui e ora. Questo lo può aiutare maggiormente a comprendere ciò che la propria figlia o figlio sta vivendo, sentendo, percependo in quel preciso istante, trovando quindi un punto di incontro nella loro relazione. Una cosa importante del lavoro personale del genitore è quello di cominciare a osservare il linguaggio con cui di solito si esprime, poiché le parole che egli usa vanno a determinare conseguentemente il suo modo di comportarsi e soprattutto di guardare. Lo sguardo è un mezzo di comunicazione molto potente per chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Capita spesso che il figlio o la figlia ponga molta più attenzione allo sguardo rispetto alla parola che viene pronunciata. Occorre che tra questi due elementi non ci sia contraddizione o ambiguità perché laddove lo sguardo non rispecchia la parola, le dinamiche sintomatologiche aumentano di intensità. Nell’anoressia si intensifica la restrizione, nella bulimia e binge l’ abbuffata. </p><p style="text-align: justify;">Non dimentichiamo che alla base di una malattia del comportamento alimentare c’è la mancata costruzione di un’identità adulta. La persona che soffre di anoressia o bulimia rimane intrappolata in una fase di crescita legata ancora all’infanzia. Non si trova preparata a divenire adulta e ancor di meno ad accettare un corpo che nel frattempo sta cambiando. Ecco allora che andare a<br />controllare i processi legati alla sua crescita può rappresentare il suo tentativo di fuga dalla paura di diventare donna o uomo. Rifiutare il cibo o assumerne in abbondanza rappresenta così la modalità con la quale cerca di rimanere aggrappata a quel mondo dell’infanzia che la fa sentire ancora protetta e soprattutto al riparo dall’ambiente esterno che tanto la spaventa. Alla base c’è quindi un processo identitario bloccato nella sua normale evoluzione di crescita. Ecco che quel sano conflitto messo in atto per affermare la propria autonomia non viene più rivolto verso i propri genitori ma si scaglia con violenza contro se stessa, contro quell’immagine di se’ che non corrisponde più a ciò che è stata fino a quel momento. E così, attraverso la malattia del comportamento alimentare si cerca di annullare quel forte disagio e paura nel vedere un corpo che cambia non sentendolo più proprio. E qui ritorniamo al concetto iniziale del diritto alla cura. Non è più possibile accettare percorsi terapeutici superficiali o peggio completamente inadeguati per mancanza di personale qualificato e/o relativi servizi. Come non è più possibile accettare che una famiglia sia lasciata sola, sola ad affrontare la sofferenza e l’angoscia nel vedere una figlia o un figlio che si ammala di una malattia del comportamento alimentare. Sono malattie, e come tali, devono essere curate.</p><p style="text-align: justify;"><br />La frase della settimana è: IL DIRITTO ALLA CURA.<br /></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-49564895812102819552021-09-24T09:32:00.000+02:002021-09-24T09:32:14.727+02:00In una malattia del comportamento alimentare chi è che parla? - Laboratorio del 21 Settembre.<p style="text-align: justify;">Che cosa può fare un genitore quando una figlia che soffre di una malattia del comportamento alimentare inizia una convivenza e contemporaneamente interrompe il suo percorso di cura? </p><p style="text-align: justify;">È una domanda che solleva molti aspetti da osservare. Quando una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare decide di mettere in atto un progetto come quello di condividere la propria vita con il partner, è tentata di abbandonare il percorso di cura psicoterapeutico e nutrizionale intrapreso fino ad allora poiché crede di non averne più bisogno, visto che in quel momento sta vivendo un’apparente luna di miele. La stessa luna di miele che si vive con il sintomo alimentare agli inizi della malattia. Infatti, quando non si è raggiunto un equilibrio stabile, è facile che si possano creare relazioni basate sulla dipendenza. È assai frequente che la persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare tenda a trattare le persone nella stessa maniera in cui lei tratta il cibo.</p><p style="text-align: justify;">Ritornando alla domanda iniziale, se la figlia o il figlio, in questo caso maggiorenne, ha smesso di partecipare agli incontri di psicoterapia e di nutrizione previsti nel suo programma di cura, a livello decisionale un padre e una madre non hanno purtroppo molta voce in capitolo. Questo però non vuol dire che bisogna affidarsi alla buona sorte e sperare che tutto vada bene. Non è così che si affrontano le difficoltà. Probabilmente, la persona in questione sta vivendo un momento in cui si sente felice della scelta fatta, le sembrerà di aver trovato la soluzione al suo disagio interiore, comincerà a fare nuovi progetti e le sembrerà di aver finalmente dato una svolta definitiva alla sua vita. Il che potrebbe anche essere vero, se non fosse per la rinuncia alla psicoterapia poiché questo denota che in realtà si è momentaneamente proiettato la dipendenza dal rapporto col cibo nel rapporto con l’altro. Momentaneamente, perché in seguito le due dipendenze incominceranno a convivere, trasformando la luna di miele in due gabbie: la gabbia del cibo e la gabbia della relazione col partner. </p><p style="text-align: justify;">A volte accade che in una situazione del genere la persona coinvolta allontani o cerchi di evitare qualsiasi tipo di contatto con la sua famiglia originaria, proprio per distaccarsi da quello che rappresenta il suo passato e quindi evidenziare ancora di più la scelta trasformativa messa in atto in quel periodo della sua vita. Si viene così a creare una situazione in cui un genitore, oltre a vedere la scelta azzardata della figlia o figlio si trova contemporaneamente ad essere rifiutato ed è inevitabile cadere in uno stato di ansia e preoccupazione difficile da gestire in modo autonomo. In questi casi, c’è bisogno che il genitore chieda un sostegno psicologico per se stesso, perché le dinamiche che emergono possono creare stati depressivi o di agitazione in cui è difficile trovare una soluzione da soli. Senza pensare che in una condizione simile, diventa impossibile poter avviare una comunicazione costruttiva con la propria figlia o figlio. Inoltre, nonostante i tentativi di evitamento messi in atto nei suoi confronti, è importante che il genitore non attribuisca questi a qualche sua ipotetica colpa. Torniamo a ripetere che la famiglia deve togliersi di dosso questa etichetta che il contesto sociale e culturale le ha affibbiato per anni. Certo, la famiglia perfetta non esiste, ma dobbiamo sempre pensare che laddove si agisce per amore, risiede sempre la risorsa, che va riscoperta e ricalibrata per trovare il suo giusto allineamento.</p><p style="text-align: justify;">È frequente che un genitore pensi che non potrà mai essere felice finché il proprio figlio o figlia soffre di una malattia del comportamento alimentare. Come già detto in altri laboratori, non si comunica solo con le parole. Anzi. Sappiamo quanto queste malattie agiscano attraverso un linguaggio simbolico che spesso si nutre di sguardi, di gesti, del non detto. Ed ecco allora che quel desiderio che si credeva di aver ben taciuto in realtà viene trasmesso, caricando il proprio figlio o figlia della responsabilità della felicità genitoriale. Questo per dire che quando si ha a che fare con una malattia del comportamento alimentare occorre abbandonare qualsiasi tipo di aspettativa, soprattutto quelle a breve termine, come il credere che basti avviare il percorso di cura per vedere presto i risultati. Purtroppo non è così. Anzi. I tempi di guarigione sono lunghi, condizione sempre difficile da accettare per un padre e una madre. Si vorrebbe ritornare a quella che era la vita prima del sintomo, ma anche qui dobbiamo ricordarci che niente capita per caso. E il sintomo infatti è arrivato con una sua precisa funzione. Certo, non è facile comprendere questi processi, richiedono un lavoro personale che coinvolge tutti i membri della famiglia interessata. Innanzitutto queste malattie costringono a rivedere le modalità di comunicazione. Il sintomo<br />stesso rappresenta la diretta provocazione di un sistema comunicativo che non funziona più. Per ricostruire un nuovo linguaggio condiviso da tutti ci vuole tempo, perché dapprima si è costretti ad imparare il nuovo lessico messo in atto dalla malattia stessa. </p><p style="text-align: justify;">Come è emerso più volte, la difficoltà maggiore sta nel riuscire a comprendere chi realmente sta parlando quando si è di fronte alla propria figlia o figlio. A livello razionale sappiamo che la malattia del comportamento alimentare è prima di tutto una malattia mentale, ma nella pratica facciamo fatica a comprendere che occorre distinguere la parte sana da quella malata. Essendo una malattia che coinvolge la mente, resta invisibile, per cui si fa fatica a scorgere queste due polarità. Non è come vedere un braccio o una gamba rotta. In automatico li si vede e non viene da chiedere alla persona dolorante di fare qualcosa per camminare o muoversi. Davanti a una malattia mentale spesso questo non accade. Si tende a credere che la persona quando parla sia sempre la stessa, ma così non è, perché con una malattia del comportamento alimentare il modo di ragionare e di pensare non è sempre uguale. Infatti a parlare a volte è la parte sana e a volte la parte malata. Essere in grado di intravedere questa differenza non è facile perché il confine tra le due è molto sottile. Ma arrivare a riuscire a distinguere chi realmente in quel momento sta comunicando nella relazione, permette di saper tenere testa alla malattia quando è questa ad essere presente. Raggiungere tale intento significa andare a ridurre il potere manipolatorio che essa esercita, producendo l’effetto di trasformare quel imperante monologo interiore che la malattia instaura con la persona che soffre di questa patologie. Mediare il monologo interiore ha un significato importante perché vuol dire incominciare ad avviare un dialogo. È quando una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare incomincia a dialogare con se stessa, si è avviato il vero percorso di cura. Quindi se il sintomo da una parte complica la relazione, dall’altra permette di mettere in gioco tutto il sistema familiare, affinché quegli sguardi resi sfuggenti dalla malattia possano di nuovo tornare a incrociarsi per riconoscersi in quel linguaggio comune che nasce e si nutre dell’amore puro e incontaminato che esiste tra genitori e figli.</p><p style="text-align: justify;"><br />Frase della settimana: IN UNA MALATTIA DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE CHI È CHE<br />PARLA?<br /></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-26352432842845840262021-07-29T10:12:00.002+02:002021-07-29T10:12:49.152+02:00Per 'donare' occorre prima perdonarsi - Laboratorio del 27 Luglio.<p style="text-align: justify;">Cosa accade quando una figlia che soffre di una malattia del comportamento alimentare rientra a casa dopo una vacanza trascorsa con gli amici e il fidanzato? Può succedere che ritorni entusiasta, felice e spensierata per le esperienze vissute, ma purtroppo accade di frequente che ritorni più impaurita, più insicura, con il bisogno impellente di riprendere in mano il controllo apparentemente perso. </p><p style="text-align: justify;">I genitori in questa situazione si rivedono piombare davanti agli occhi il sintomo nella sua modalità piu’ visibile, suscitando spesso la paura e la rabbia per essere costretti a convivere con quelle immagini che vorrebbero cancellare dalla propria vita. Purtroppo quando c’è una sintomatologia quale la malattia del comportamento alimentare, è inevitabile il dover convivere con essa. Questo non significa una convivenza a vita, poiché da queste malattie, ci teniamo a sottolinearlo, si guarisce. Spesso i genitori nutrono aspettative di guarigione a breve termine, ed è importante chiarire fin da subito che il percorso di cura richiede un tempo molto lungo. Un percorso che coinvolge non solo la persona sofferente, ma l’intera famiglia, poiché è impossibile non rimanere influenzati dalle dinamiche che la malattia mette in<br />atto. Ritornando all’episodio del rientro a casa dei figli dopo una vacanza trascorsa con gli amici, la famiglia si trova ad affrontare frequentemente situazioni difficili da gestire. Il controllo eccessivo verso il cibo, la rabbia, l’aggressività, l’ autolesionismo, l’ iperattività’. I genitori sono impreparati a tali manifestazioni: “ Ma come? Sei andata in vacanza, ti sei divertita, tanto da non avermi nemmeno chiamata, e ora torni, nervosa, aggressiva, e mi tratti come se fossi uno zerbino?” Il sentirsi trattata come uno zerbino è il sentimento che una mamma ha provato in maniera molto intensa in questi giorni. Il risentimento, il dispiacere, la frustrazione nel rendersi conto che la figlia si rivolge a lei solo quando ne ha strettamente bisogno, tanto è vero che in vacanza non si era nemmeno degnata di farle una telefonata per dirle come stava. Questo atteggiamento ovviamente l’ha ferita molto perché ha sentito di non avere alcuno spazio nella vita della figlia. In realtà non è che una percezione personale perché ciò che i figli provano veramente non lo possiamo mai conoscere fino in fondo. Ma una cosa è certa: ogni figlio ama il proprio genitore, anche se la malattia si diverte a nasconderlo riflettendone una manifestazione distorta. </p><p style="text-align: justify;">Una ragazza ha raccontato quanto sia stato sempre difficile per lei dimostrare il suo amore verso i genitori. Ricorda ancora le tante sedute di terapia dedicate al suo essere bloccata nell’esprimere i suoi sentimenti di affetto, cosa che invece non accadeva nelle manifestazioni di rabbia. L’aggressività, infatti, è un canale attraverso cui si comunica tutto ciò che è congelato dentro di se’ e che nasconde una disperata richiesta di aiuto. E sulla richiesta di aiuto c’è un passaggio importante da focalizzare. Accade frequentemente che i figli chiedano la collaborazione dei genitori per compiere anche semplici commissioni come ad esempio la compilazione di pratiche burocratiche riguardanti il lavoro o la scuola. Laddove poi il figlio appare quasi menefreghista e rinunciatario, viene d’istinto rispondergli “ Se chiedi aiuto e poi non lo accetti allora arrangiati”. Qui c’è il passaggio importante da non trascurare. Un passaggio che sembra banale ma che così banale non è. Rispondere “arrangiati” ad una richiesta di aiuto non accolta, vuol dire bloccare sul nascere ogni tipo di comunicazione e rapporto. Non dimentichiamo che la malattia del comportamento alimentare cancella la capacità di relazionarsi con gli altri. È come un computer cui vengono cancellati tutti i programmi e quindi necessita andarli a resettare. Tu puoi pigiare il tasto quanto vuoi, ma se manca la riprogrammazione, l’avvio non avviene. Ed è inutile che ti arrabbi. Lo stesso avviene con la malattia del comportamento alimentare. Si è “cancellata” la capacità di comunicare e bisogna andare a re-impostare, re-imparare tale modalità. Riferendoci alla situazione precedente, anziché rispondere “arrangiati”, si può domandare che cosa è che vieta di affrontare quella situazione; di cosa si ha paura. È facile che il genitore non riceverà in cambio alcuna risposta; anzi, addirittura potrebbe sentirsi dire di non impicciarsi. E qui sta il passaggio importante. Nel momento in cui si chiede aiuto, occorre essere consapevoli che bisogna accettare anche la relazione con l’altro. L’interessamento del genitore non è invadenza, non è impicciarsi ma è rispondere in maniera coerente alla richiesta di aiuto ricevuta. Mettere in evidenza questo concetto permette ai figli di elaborare la loro modalità dì risposta e soprattutto, a riflettere sulla presenza e sulla partecipazione dell’altro. Significa resettare quel programma cancellato, in modo tale che possa riavviarsi ogni qualvolta lo si vada a richiamare. </p><p style="text-align: justify;">È importante che il genitore si protegga da queste dinamiche della malattia. E come fare? Occorre divenire consapevoli di ciò che crea sofferenza, rabbia, frustrazione. E come di fa? Parlandone. Il laboratorio serve a questo: permettere ai genitori di esprimere all’esterno ciò che crea disagio e sofferenza. Sappiamo bene quanto sia indispensabile dare voce al proprio mondo interiore. Tutto ciò che è reso silente, si ingigantisce perché non riesce a trovare una spiegazione. Il poterne parlare aiuta a rendere visibile e ridimensionare ciò che preoccupa e allo stesso tempo permette di acquisire strumenti per poter fronteggiare in maniera diversa ciò che accade. Risulta utile ritagliarsi un proprio spazio in cui rifugiarsi ogni qual volta se ne senta il bisogno. Può essere leggere un libro, fare una passeggiata, dedicarsi a qualcosa che fa piacere, ma anche semplicemente alzare lo sguardo e osservare il cielo, perdendosi in esso.</p><p style="text-align: justify;">Un altro concetto importante su cui riflettere riguarda il perdono. A volte chi ha una malattia del comportamento alimentare non riesce a perdonare i propri genitori per delle mancanze cui sentono e credono di aver sofferto. E questo li porta a inscenare una costante guerra che si consuma nell’ambiente familiare. Ovviamente queste tematiche devono essere analizzate in un percorso terapeutico, ma anche il genitore può fare qualcosa. Come? Partendo da se stesso. Cominciando a perdonarsi per tutte quelle colpe che ingiustamente si attribuisce nei confronti dei figli. Pensiamo all’etimologia della parola perdonare. Deriva da “per - donare”. Quindi implica un dono. Un dono che è racchiuso dentro a ognuno di noi e che richiede di essere liberato dalle grinfie della rabbia. Un genitore che si perdona insegna a sua volta ai figli come si fa a perdonarsi. E quando un figlio si perdona, gli si apre innanzi la strada verso la ricerca di se stesso, verso il desiderio di essere aiutato a riprendersi quella vita tenuta in ostaggio dalla malattia. </p><p style="text-align: justify;"><br />Frase della settimana : PER “DONARE” OCCORRE PRIMA PERDONARSI</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-14597689357241641972021-07-15T14:26:00.002+02:002021-07-15T14:26:36.833+02:00Esplorare le emozioni - Laboratorio del 13 Luglio.<p style="text-align: justify;">Il laboratorio di stasera si è tinto di sfumature che sono diventate attimo dopo attimo sempre più intense. Accade ogni volta che si parla di emozioni, ed è inevitabile poiché la malattia del comportamento alimentare è di fatto la chiara espressione dell’incapacità di gestire ciò che si prova a livello di sensazioni e percezioni corporee. Tutto ciò che non viene espresso emotivamente si esprime poi attraverso il cibo: l’abbuffata o la restrizione diventano lo specchio dell’ emozione desiderata o dell’emozione rifiutata.</p><p style="text-align: justify;"><br />Una coppia di genitori ha raccontato quanto la figlia abbia provato più volte a farli sentire in colpa attraverso i soliti messaggi telefonici di accusa per il loro essere andati in vacanza. Oramai consapevoli del meccanismo manipolatorio della malattia, hanno tentato di non farsene condizionare, ma l’emozione fastidiosa comunque c’è stata e hanno cercato di gestirla elaborandola a livello razionale “ ma si dai, intanto non serve a nulla prendersela...fa sempre così appena ci allontaniamo da casa”. Spesso chi soffre della malattia del comportamento alimentare è molto centrato su se stesso, non riesce a percepire la sofferenza dell’altro perché è troppo il disagio che avverte e ha bisogno di sapere che le persone intorno a lui o lei sono preoccupati. Come se l’apprensione dell’altro desse a loro il valore di esistere e di non sentirsi così alienati da se stessi. Ogni volta che l’attenzione viene negata, è facile che emerga una rabbia molto intensa. Come se il figlio o la figlia volesse che i genitori entrassero insieme a lei in quella stessa gabbia costruita appositamente dalla patologia. Il rifiuto di farlo li destabilizza, il genitore ovviamente fa bene ad opporsi, solo che spesso accade che egli stesso vada a costruire parallelamente un’altra gabbia che lo incastra in pensieri focalizzati costantemente sulla malattia e sul cosa fare per aiutare i propri figli. </p><p style="text-align: justify;">Non mi stancherò mai di ripetere che il genitore non può trasformarsi in un terapeuta. È impensabile che un padre o una madre possano curare la malattia del comportamento alimentare di cui soffre il figlio o la figlia. E allora la famiglia deve rassegnarsi? Assolutamente no. Questo è un tema che sta tornando spesso nei laboratori perché è l’aspetto che più preoccupa i genitori di figli maggiorenni che rifiutano il percorso terapeutico. E allora che cosa si può fare? E qui parliamo delle emozioni. Molto significativa è stata la condivisione di una mamma che ha saputo descrivere il suo ritrovato dialogo con la figlia nel momento in cui ha permesso alle sue emozioni di potersi esprimere. Il suo racconto è stato ed è un esempio importante e prezioso per molti genitori. Spesso ci troviamo a soffocare quello che proviamo perché si tende a voler proteggere i figli, credendo che così facendo li si preservi dal provare ulteriori sofferenze. Non accorgendosi però che questo comportamento può al contrario esporli maggiormente a provare eventuali disagi. I figli apprendono il modello che vedono applicato dai loro genitori. Davanti a un padre o una madre che nascondono le proprie emozioni per timore di far preoccupare i figli, si ignora che in quel momento si sta inviando il messaggio che le emozioni non vanno espresse. Questa mamma lo ha fatto per tanto tempo perché a sua volta le era stato insegnato che non bisognava mai farsi vedere deboli, insicuri, bisognosi di aiuto. Finché un giorno la figlia le ha esternato attraverso sia la malattia del comportamento alimentare sia a parole chiare il suo malessere nella mancata condivisone delle sensazioni, sentimenti, percezioni familiari. Infatti, si erano ritrovate entrambe ad interpretare la realtà circostante attraverso un continuo non detto, che ha creato tante ombre, la più grande di tutte quella rappresentata dalla malattia del comportamento alimentare. Questo le ha portate ad iniziare un percorso terapeutico, diverso sotto certi aspetti, ma simile nell’imparare a dare nome ed espressione alle proprie emozioni. </p><p style="text-align: justify;">Il cibo sappiamo che non è il problema. Non aiuta mai chiedere “ Hai mangiato? Hai seguito a dovere lo schema alimentare?” Queste sono domande che paralizzano, creano paura in chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Diverso invece è domandare “Come ti senti? Cosa provi? Come reagisci quando percepisci che qualcosa non va? Che cosa fai per gestire ciò che senti?”<br />Queste domande aiutano a esplorare il mondo delle emozioni. Aiutano a far chiarezza in quello che accade dentro di se’: cosa spaventa, cosa fa gioire, cosa piace, cosa infastidisce... ogni emozione va esperita. Non ci sono emozioni completamente positive o completamente negative. Hanno tutte una loro finalità. Un genitore che non ha vissuto la condizione migliore per esprimere le sue esperienze emotive prova un grande senso di colpa per non essere stato un modello corretto per i propri figli. Ma questo non ha ragione di esistere. Le emozioni non possono essere insegnate perché vengono apprese solo attraverso il viverle direttamente. È importante divenire consapevoli di questi processi per poter iniziare un lungo e bellissimo viaggio dentro al mondo delle emozioni e dei sentimenti. Come ho scritto precedentemente, l’emozione inespressa si manifesta poi attraverso il corpo che è il mezzo attraverso cui ognuno di noi entra in contatto con il mondo circostante. Osservare l’emozione, guardare come la mente cerca di elaborarla immediatamente a livello razionale, come se ne volesse prendere subito le distanze, sentire in quale punto del corpo viene percepita, con quale intensità, darle il tempo perché riveli il messaggio che porta con se’. Spesso il messaggio arriva attraverso delle immagini, che sono un simbolo su cui porre la propria attenzione poiché in esse vi è racchiuso il senso dell’emozione vissuta. Nel momento che ne diveniamo consapevoli, accade ogni volta di piangere. Questo pianto liberatorio rappresenta l’emozione che finalmente si è sbloccata, accompagnata da una sensazione di apertura nella<br />zona del torace..e piano piano riaffiora tutto il nostro respiro. Pensate quanto possa essere trasformativo fare una simile esperienza con i propri figli. Riscoprire insieme le emozioni assopite, nascoste, negate, recluse. </p><p style="text-align: justify;">La malattia del comportamento alimentare si manifesta in un’ età evolutiva precisa che determina l’arresto della crescita. Può risalire a quando si era bambini, adolescenti o addirittura neonati. Il viaggio delle emozioni permette sia ai genitori che ai figli di ritornare a quel periodo “ simbiotico” in cui madre e padre fungono da contenitore emotivo per permettere ai figli di apprendere il mondo meraviglioso delle emozioni e infondere quel senso di protezione e sicurezza che sono fondamentali per la propria crescita.</p><p style="text-align: justify;"> A questo punto voglio riportare un testo della scrittrice Elena Bernabe’ ( che ho riadattato su questa tematica) che riassume molto bene il ruolo e il significato prezioso del nostro sentire. </p><p style="text-align: justify;">“ Mamma, Papà, mi sento sola....” “ Perché stai rifiutando la presenza. Quando invece è dentro di te tutta l’attenzione che ti può nutrire. Non stai facendo compagnia alle parti di te più profonde e chiedi al mondo che qualcuno lo faccia al posto tuo.” “ Non posso vivere con questa emozione.” “ Le emozioni non sono da eliminare ma da trasformarne l’essenza: da servitrici della tua interiorità a corona della tua regalità...da catene che imprigionano ad ali per spiccare il volo...da regole implicite da seguire a intuizioni da mescolare. Una persona non può curare la tua solitudine: solo tu puoi farlo.” “ E come si fa?” “ Accogliendola nella tua vita. Come il più importante degli strumenti di osservazione interiore. Il sentirsi soli, l’angoscia del vuoto ...sono il microscopio dell’anima: ti permettono di vedere ciò che nel trambusto giornaliero della vita passa inosservato.” “ Se mi guardo dentro mi sentirò meno sola?” “ Bambina mia, quel sentirti sola, quel vuoto ti faranno conoscere così tante parti di te che ti sorprenderai. Queste parti le ritroverai nel mondo. Pronte a venire a te per arricchirti. Ricordati: l’amore non è un vuoto da riempire, ma un’assenza da ricamare con l’ attenzione.”</p><p style="text-align: justify;"><br />Frase della settimana: ESPLORARE LE EMOZIONI</p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-87695327542354069212021-07-06T08:08:00.001+02:002021-07-06T08:08:38.195+02:00Laboratorio del 29 Giugno ACCOGLIERE , ADDENTRARSI , CONDIVIDERE ...PER METTERSI IN GIOCO E ANDARE AL DI LA' DEL PROPRIO VEDERE . <p> Stasera il laboratorio ha toccato tanti punti che poi si sono intrecciati tra le varie storie dando </p><p>forma e contenuto a una serata molto ricca e preziosa vista da diverse prospettive. Siamo in </p><p>estate, e sappiamo che questa è una stagione molto complessa per chi soffre di una malattia del </p><p>comportamento alimentare. Una ragazza ha condiviso i suoi ricordi legati alle tante estati vissute </p><p>in presenza con la malattia. La spiaggia, il mare, che per lei erano sempre stati sinonimo di libertà </p><p>e spensieratezza, d’un tratto si erano trasformati nel luogo più inavvicinabile. La sensazione di </p><p>paura mista a vergogna nell’esibire un corpo che sentiva estraneo e non amato. Il confronto con le </p><p>altre ragazze. La gioia e le risate di coloro che si divertivano mentre lei provava l’irrefrenabile </p><p>desiderio di sparire, essere invisibile da tutto e da tutti. Sono passati tanti anni dalla sua </p><p>guarigione dalla malattia, eppure ancora è ben impresso in lei il ricordo di quella volta in cui, </p><p>arrivata in spiaggia e pronta a starsene per ore sdraiata al sole, all’improvviso ha provato un forte </p><p>senso di solitudine con una sensazione di vuoto alienante che le era impossibile da gestire. Così </p><p>si rivesti’ in fretta e furia per scappare a casa e riempire quel vuoto nell’unico modo a lei </p><p>conosciuto in quel momento, con la malattia. Quell’episodio ha dato l’inizio ad una serie di clic, </p><p>perché se fino a quel momento lei credeva che bastasse allontanarsi dalle mura domestiche per </p><p>saper controllare le dinamiche della malattia, si era resa conto che non era così. Questo fatto la </p><p>spavento’ molto perché improvvisamente aveva realizzato di essere caduta in un qualcosa che </p><p>era molto più grande di lei e difficile da contenere. Oggi, a distanza di molti anni, ogni volta che le </p><p>giornate cominciano ad allungarsi, sorge in lei una sottile rimembranza di quel senso di </p><p>annichilimento provato quella volta in spiaggia. Come una sorta di memoria impressa dentro di lei. </p><p>Un qualcosa che non ha una valenza prettamente negativa ma anzi, le ricorda quanto l’aver </p><p>imparato a stare in quel vuoto l’abbia resa oggi capace di accogliere le sue emozioni, belle o </p><p>brutte che siano. </p><p> Una mamma ha riportato che sua figlia non vuole andare al mare perché odia mostrarsi in </p><p>costume e nemmeno in montagna perché ha paura di incontrare altre persone. Come se volesse </p><p>proteggersi dal contatto con l’esterno. E allora forse è giusto stare a casa? Ovviamente non </p><p>possono esserci risposte dirette poiché ogni situazione va sempre valutata rispetto al contesto in </p><p>cui si manifesta. È chiaro che le paure di questa ragazza non possono essere ignorate, ma è </p><p>anche vero che la famiglia non può restare barricata in casa rinunciando alla vacanza. Se il mare </p><p>rappresenta forse il luogo più difficile da gestire dato il coinvolgimento con il rapporto col proprio </p><p>corpo, alcuni giorni in montagna possono essere una soluzione ideale. Soluzione che deve però </p><p>essere presa insieme alla propria figlia, per renderla partecipe e soprattutto per darle la possibilità </p><p>di esprimere le sue emozioni e desideri.</p><p> Un’altra mamma ha raccontato della sua recente vacanza organizzata insieme al marito. Come </p><p>era prevedibile la figlia maggiorenne, che era rimasta a casa, ad un certo punto ha telefonato ai </p><p>genitori e ha cercato di farli sentire in colpa, riuscendoci solo in parte, poiché entrambi, marito e </p><p>moglie, hanno saputo allearsi e sostenersi a vicenda dall’attacco ricevuto.</p><p> Un’altra mamma ha voluto esporre una problematica che dovrà affrontare a settembre </p><p>riguardante il percorso di cura della figlia che sta avvenendo in un centro ambulatoriale della sua </p><p>regione. I dottori l’hanno già avvisata che, siccome il percorso terapeutico sta avendo progressi </p><p>positivi, a fine estate la figlia non verrà più seguita così da lasciare il posto a coloro che sono in </p><p>lista di attesa. Questo ovviamente ha gettato nell’ansia e preoccupazione questa mamma perché, </p><p>anche se la cura sta effettivamente dando buoni risultati, non può essere interrotta </p><p>improvvisamente, soprattutto quando parliamo di una malattia del comportamento alimentare, </p><p>poiché sappiamo quanto queste fasi siano delicate e importanti nel processo di guarigione. </p><p> Un’altra mamma è intervenuta dicendo che in un qualche modo sta vivendo una situazione simile </p><p>anche se a ruoli invertiti. Ovvero, i terapeuti sono disposti a continuare la cura con la figlia </p><p>maggiorenne, la quale, dopo un periodo di ricovero in struttura, ha paura a proseguire la terapia. </p><p>La madre ha cercato di spronarla, per stimolarla a non rinunciare. Di rimando però si è sentita </p><p>rispondere dalla psicoterapeuta di lasciare che sia la figlia a prendere la decisione. Questo ha </p><p>creato ansia e confusione in questa mamma perché sa benissimo che se non interviene lei, la </p><p>figlia abbandonerà qualsiasi iniziativa. </p><p>Questa tematica ha aperto un confronto importante tra i genitori del laboratorio: “ quanto i familiari </p><p>devono restare ai margini della cura dei figli che soffrono di una malattia del comportamento </p><p>alimentare ”? È un argomento complesso e per certi versi difficile da definire. Oggi sappiamo che i </p><p>genitori sono una risorsa all’interno del processo di cura. È impensabile infatti avviare un percorso </p><p>terapeutico di una malattia del comportamento alimentare senza coinvolgere anche la famiglia. </p><p> Una mamma ha raccontato che nel centro che sta seguendo sua figlia, i genitori non possono </p><p>ricevere alcuna informazione sull’andamento della cura. È chiaro che lo psicoterapeuta non può </p><p>assolutamente riferire i contenuti che avvengono all’interno del setting terapeuti.</p><p>Questo è infatti un luogo protetto in cui la persona deve sentirsi libera di riportare tutto ciò che emerge in </p><p>lei, sicura che niente verrà trapelato al di fuori di quel contesto. Se questo dovesse avvenire, ne </p><p>pregiudicherebbe la continuità della terapia stessa rompendo definitivamente l’alleanza costruita </p><p>tra lo psicoterapeuta e il paziente. </p><p> Però è anche vero che un genitore non può essere tenuto all’oscuro sulla malattia del </p><p>comportamento alimentare del proprio figlio o figlia. Come non può non essere sostenuto dalle </p><p>inevitabili emozioni di ansia, paura e preoccupazione che sorgono. Laddove poi si vengono a </p><p>manifestare dinamiche che richiedono una rielaborazione, diviene importante iniziare una terapia </p><p>familiare che permetta di coinvolgere e far interagire tra loro figli e genitori attraverso la presenza e </p><p>la guida del terapeuta. È evidente che tale modalità richiede risorse sia a livello di personale che a </p><p>livello economico che scarseggiano all’interno del sistema sanitario nazionale. E quindi è facile </p><p>che ci si focalizzi prevalentemente solo sulla presa in carico della persona che riporta il sintomo, </p><p>lasciando la famiglia spesso abbandonata a se stessa. Non perché non si voglia coinvolgere i </p><p>genitori nel percorso terapeutico, ma perché mancano le risorse necessarie. Tutto ciò ricade </p><p>negativamente sugli esiti della cura stessa. Il discorso poi si complica ulteriormente quando i figli </p><p>sono maggiorenni perché allora la famiglia difficilmente viene interpellata. Ma se ci riflettiamo, è </p><p>impensabile credere di poter affrontare una malattia del comportamento alimentare senza </p><p>conoscere la storia e le dinamiche familiari. Anche se queste possono essere raccontate dalla </p><p>persona presa in carico, la terapia ha comunque il compito di andare a sciogliere i vari nodi che si </p><p>sono creati all’interno di quel sistema familiare e per farlo, occorre andare a tirare entrambi i lembi, </p><p>e non solo uno, altrimenti il nodo rimane ingarbugliato.</p><p> Un papà ha riportato la sua difficoltà a trovare l’appoggio del medico di famiglia nel trovare una </p><p>soluzione alla bulimia della figlia. Nonostante si conoscano i danni organici che una tale malattia </p><p>comporta, il medico gli ha risposto che se la figlia non vuole intraprendere alcun percorso </p><p>terapeutico, lui non può fare nulla. E purtroppo sappiamo che è così. Non si può costringere una </p><p>persona alla cura se questa la rifiuta. Ma sappiamo anche che spesso chi soffre di una malattia </p><p>del comportamento alimentare non è consapevole di essere malato. E allora cosa bisogna fare? </p><p>Come abbiamo già accennato in altri laboratori, occorre andare a creare percorsi alternativi che </p><p>passano attraverso le emozioni. Può essere utile cercare di coinvolgere i figli o le figlie in situazioni </p><p>che li fanno stare bene; ad esempio, lo stare a contatto con la natura, leggere, fotografare, stare </p><p>con gli animali...Questo fa sì che le emozioni positive possano emergere e far percepire loro una </p><p>sensazione di benessere che può spronarli a cercare di vivere quella sensazione piacevole anche </p><p>in altre circostanze. Va sottolineato che questo non vuol dire che il genitore debba diventare il </p><p>terapeuta dei propri figli. Vuol dire al contrario andare a porre cura e attenzione al dialogo e alla </p><p>comunicazione. Nutrire il desiderio di conoscere meglio i propri figli. Aiutarli a esprimere ciò che </p><p>sentono, desiderano, a cui aspirano. Ci rendiamo conto però che se un genitore è carico già di </p><p>suo di quello che la malattia gli getta addosso, difficilmente vorrà approfondire la comunicazione, </p><p>il dialogo, lo stare vicino. Perché ogni cosa viene intrisa dal peso della malattia. Ecco allora che si </p><p>può incominciare da se stessi. Come? Ad esempio attraverso il laboratorio. Questo significa </p><p>mettersi in gioco, e non è così scontato che un genitore lo faccia. Significa voler andare al di là del </p><p>proprio vedere. Significa addentrarsi nel significato di ciò che accade. Significa accogliere il </p><p>proprio mondo interiore. Significa condividere la propria sofferenza.... </p><p>La frase della settimana : ACCOGLIERE , ADDENTRARSI , CONDIVIDERE ...PER METTERSI IN </p><blockquote style="border: none; margin: 0 0 0 40px; padding: 0px;"><blockquote style="border: none; margin: 0 0 0 40px; padding: 0px;"><blockquote style="border: none; margin: 0 0 0 40px; padding: 0px;"><p style="text-align: left;">GIOCO E ANDARE AL DI LA’ DEL PROPRIO VEDERE .</p></blockquote></blockquote></blockquote>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-38161458296884952192021-06-17T16:41:00.000+02:002021-06-17T16:41:27.191+02:00Spostare lo sguardo dal sintomo per porre attenzione a ciò che accade intorno ad esso - Laboratorio del 15 Giugno.<p style="text-align: justify;">Stasera il laboratorio è iniziato con una bella sorpresa, una mamma ha chiesto se la propria figlia poteva salutarci. E anche se il periodo che questa ragazza sta vivendo non è dei più facili, il suo gesto è stato molto significativo, soprattutto nei confronti della sua famiglia: l’essere consapevole e grata di quanto i suoi genitori stiano cercando a loro volta di mettersi in gioco per capire sempre più che cosa sia una malattia del comportamento alimentare. Il sorriso di questa ragazza mi ha toccato molto, perché pur nella sofferenza, ha trasmesso il suo essere aperta alla vita. Nonostante il dolore, nonostante la malattia, nonostante le inevitabili cadute. </p><p style="text-align: justify;">Questo ovviamente mi ha portato a riflettere sul peso che hanno le emozioni. Quanto queste incidano nella vita di ognuno di noi e ancora di più in coloro che soffrono di queste malattie. Pensando ai genitori, quante volte ci si trova così carichi e pieni di emozioni da non riuscire ad avere spazio per accogliere niente altro? Ci si dimentica di pensare a se stessi, ci si dimentica di prestare attenzione ai propri stati d’animo, ci si dimentica dei propri bisogni. Ogni cosa è focalizzata e finalizzata al fare stare bene i propri figli ammalati. Tutto questo è umanamente comprensibile e naturale. Quale genitore si rifiuterebbe di farlo? Il problema è che in mezzo c’è una malattia del comportamento alimentare e le modalità di azione inevitabilmente cambiano. Spesso si chiede ai figli di impegnarsi per cercare di stare meglio, di sforzarsi di parlare, di provare a condividere quello che sentono. Ma quanto il genitore ha smesso di farlo lui per prima? O meglio, da quanto il genitore è rimasto avvinghiato in circuiti emotivi di ansia, paura e preoccupazione che rendono sempre più pesante ogni momento della loro giornata? Ovviamente questa non vuole essere una colpa, ma anzi, vuol essere un tentativo di apportare consapevolezza su quei meccanismi che finiscono per invischiare la famiglia in trappole soffocanti.</p><p style="text-align: justify;">Vivere le emozioni è basilare. Non solo le emozioni positive, ma anche e soprattutto le emozioni negative. Rabbia, dolore, angoscia, senso di vuoto, sono sentimenti difficili da tollerare e soprattutto vederli vivere sulla pelle dei propri figli. Eppure, è attraverso questa esperienza che si comincia a conoscere il valore e l’intensità delle emozioni nella propria vita. Spesso di fronte a uno scoppio emotivo intenso, a una crisi, il genitore prova l’impulso di intervenire per bloccare il proseguimento delle stesse, ignorando che nel fare ciò interrompe il naturale flusso della conoscenza; impedendo ai figli di essere messi davanti al proprio sentire, fondamentale per cominciare a capire quello che accade dentro di se’. Spesso si ha l’idea che la crisi sia negativa, distruttiva, da evitare, ma, al contrario, ha lo scopo di mettere in luce ciò che non va nella propria vita. Le emozioni hanno bisogno di essere espresse. E possiamo dire che il corpo è un veicolo importante di trasmissione emotiva. Il corpo infatti non è un qualcosa distaccato. Il corpo parla, e dice molto di se’. </p><p style="text-align: justify;">Quando vediamo il sintomo manifestarsi, in realtà dietro vi è un insieme di emozioni che non sono riuscite a esprimersi diversamente. Dietro a un disagio, a un malessere, non dimentichiamo mai che c’è sempre la persona e la sua storia. La crisi non avviene mai per annientare, ma per portare nuove consapevolezze. E allora ci si domanda che cosa può fare un genitore per vivere queste situazioni dalla giusta prospettiva. E qui ritorniamo ( e non mi stancherò mai di ripeterlo poiché è un concetto essenziale) alla punta dell’iceberg. Il genitore deve spostare lo sguardo dal sintomo per cominciare a porre attenzione a ciò che è intorno ad esso. Restare fermi alla punta della iceberg ci fa perdere il reale contenuto che sta al di sotto. È come se questo diventasse uno specchietto per le allodole, acceca e impedisce di vedere altro. Un concetto basilare delle emozioni è fare esperienza del saper stare. Stare nel dolore, nella paura, nell’ansia. Ma come si fa? Per aiutare i propri figli ad accogliere il loro sentire occorre averne fatto esperienza diretta ed essere in grado di darne un esempio immediato che non si trasmette attraverso le parole, poiché spesso queste non riescono ad arrivare, ma si trasmette diventando noi stessi modelli di apprendimento da osservare e imitare. Significa adattarsi al flusso delle cose non rimanendo carichi di emozioni stagnanti e non proprie. Spostare lo sguardo dal sintomo per porre attenzione a ciò che accade intorno ad esso dà una prospettiva diversa. Spesso si pensa che la malattia del comportamento alimentare sia come un mostro che si è impossessato dei propri figli, un qualcosa che sopraggiunge da chissà dove. In realtà non è altro che la esagerata manifestazione della parte di se’ deputata al controllo e al dettar le regole. Tutte le altre parti sono diventate succube e sottomesse, finendo con il creare all’interno della persona solo un monologo ossessivo che spesso viene raccontato come un imperante ed estenuante voce che non da’ alcun respiro e tregua. </p><p style="text-align: justify;">Una ragazza ha condiviso il momento in cui, alla fine di un lungo percorso terapeutico, è giunta all’incontro diretto con questa propria parte di se’ malata. Lasciare definitivamente la malattia per diventare finalmente responsabile della propria vita. In quell’occasione ha ricordato come davanti a lei si fosse materializzata l’immagine della malattia attraverso le sembianze di una belva feroce, pronta ad annientarsi su di lei alla prima debolezza o caduta. Fu proprio di fronte a quell’immagine che d’un tratto ha percepito una forza intensa dentro di se’ che ha saputo ribattere a gran voce che tutto quel potere da lì in avanti non ci sarebbe più stato perché non glielo avrebbe più permesso. E così è accaduto. Arrivare a formare quell’immagine della belva feroce, permettendo quel dialogo tra le varie parti, è stato possibile solo attraverso l’esperienza delle innumerevoli emozioni che non sanno più esprimersi nel modo giusto all’interno di una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare. Questa ragazza aveva sempre avuto paura di provare quell’angosciante senso di vuoto che era dentro di lei e che emergeva quando si sentiva sola. L’abbuffata o l’eccessivo controllo le erano sembrati la soluzione migliore per allontanare quelle sensazioni. Attraverso la terapia, ha cominciato ad accogliere dapprima pochi attimi di quella emozione di vuoto, fino ad arrivare a minuti, ore, giorni, settimane...e finalmente non averne più paura. Ora la solitudine per lei non è più sinonimo di mancanza, ma anzi, è una preziosa presenza, ricca di tanti contenuti inespressi. </p><p style="text-align: justify;">Una mamma ha voluto condividere la sua esperienza dello stare nell’emozione. Questo le ha permesso di capire la manipolazione che la malattia aveva giocato su di lei ogni volta che la figlia, invece di chiedere aiuto ai suoi terapeuti, si rivolgeva direttamente a lei, caricandola di responsabilità che non erano di sua competenza. Un’altra mamma, che fa come lavoro l’insegnante, ha voluto chiedere quante sono le bugie che spesso vengono raccontate all’interno di una malattia del comportamento alimentare. In realtà sono tantissime. Bugie che la persona racconta pure a se stessa poiché non è consapevole dello sporco gioco che la malattia mette in atto. Quando accade che gli altri vogliano smascherarne le infide trame, si assiste all’attacco violento a difesa del potere. Ricordiamo sempre quanto sia importante che i genitori debbano essere alleati tra loro per non permettere che la malattia prenda il controllo su ogni cosa. Agire per contrastare il perverso gioco manipolatorio, anche in maniera forte se necessario, affinché non se ne diventi complici. </p><p style="text-align: justify;">Un’altra mamma ha voluto chiedere come comportarsi poiché ha progettato una settimana di vacanza insieme al marito e alla nipotina dato che la situazione in casa con la figlia maggiorenne malata di anoressia, è diventata pesante, con la speranza che questo breve stacco possa essere uno stimolo per indurla a mettersi maggiormente in discussione nella cura. La paura di questa mamma è quella di andare incontro a inevitabili conseguenze e soprattutto, di vedersi poi sfumare la vacanza perché interrotta dalle probabili telefonate della figlia che vorrà farli ritornare a casa. In questo caso, siamo di fronte a un altro tentativo manipolatorio della malattia. I genitori devono essere genitori, e niente altro. Se ci sono eventuali problemi, il numero da comporre per chiedere l’aiuto necessario è quello dei propri terapeuti. </p><p style="text-align: justify;">C’è poi una fase importante della malattia che spesso getta i genitori nella confusione e panico totale; è quando sintomi e guarigione vivono in parallelo. La malattia non dimentichiamolo mai che ha assunto e ancora assume la funzione di una stampella. E finché non si avverte che le proprie gambe sono forti abbastanza per reggersi da sole, la stampella viene ancora ben tenuta strettamente a se’. Se ci pensiamo bene, quando una persona ha una gamba rotta, non si pretende che questa ritorni a camminare subito come se niente fosse. Siamo consapevoli che per farlo è necessario un lungo periodo di fisioterapia. Quando vediamo questa persona tornare dalla seduta fisioterapica sorreggendosi sulle stampelle, non le chiediamo come mai non cammini con le sue gambe. Capiamo che questo non è possibile fino a che la gamba non sia guarita perfettamente. Nella malattia del comportamento alimentare però accade tutto l’opposto. Ci stupiamo che nonostante i figli seguano un percorso terapeutico, ancora il sintomo sia ben presente. Ma è naturale che accada questo. Come accade con la gamba rotta, a cui ci si appoggia sempre alla stampella nonostante la cura, così accade con la malattia del comportamento alimentare. E questo ci riporta al concetto iniziale: per riuscire a gestire le emozioni di ansia, paura, preoccupazione occorre spostare lo sguardo dal sintomo per porre attenzione su ciò che accade intorno ad esso. </p><p style="text-align: justify;">Frase della settimana: SPOSTARE LO SGUARDO DAL SINTOMO PER PORRE ATTENZIONE A<br />CIÒ CHE ACCADE INTORNO AD ESSO.<br /></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-50191037878659047242021-06-03T12:12:00.001+02:002021-06-03T12:12:30.748+02:00Il confine tra la malattia e la vita reale - Laboratorio del 1 Giugno.<p style="text-align: justify;"> Il laboratorio di questa sera ha ripreso tematiche affrontate più volte, e questo fa riflettere su quanto sia difficile per un genitore dover convivere e gestire la malattia del comportamento alimentare del proprio figlio o figlia. Il laboratorio avviene a cadenza quindicinale, ma i genitori sanno che possono usufruire del servizio di sostegno dell’associazione anche durante gli altri giorni della settimana. </p><p style="text-align: justify;">In questo periodo sono state sempre più le telefonate dei genitori che si trovano a dover gestire i momenti di convivenza stretta col sintomo. Genitori di figli maggiorenni che si trovano all’oscuro di tutto quello che avviene nel percorso psicologico e nutrizionale dei propri figli, e non sanno interpretare i sintomi che si manifestano sotto i loro occhi: “ avrà mangiato veramente quello che le ha indicato la dietista? Come mai continua a non avere il ciclo? Non è che ha bisogno di qualche integratore? Come faccio a sapere se quello che sta facendo è giusto se nessuno mi dà informazioni ?...”<br />Tutte queste domande sono ragionevolmente lecite. Sfido qualunque genitore che ama il proprio figlio o figlia a non porsele. Il problema è che non si arriva a nessuna risposta o soluzione se non quella di veder accrescere l’ansia dentro di se’ per non avere il controllo di ciò che sta accadendo. Stasera abbiamo ricordato la metafora dell’iceberg. Soffermarsi a guardare la punta dell’iceberg, ovvero il sintomo, non aiuta perché impedisce di prendere in considerazione altri dettagli che sono al contrario fondamentali. Infatti l’attenzione va rivolta verso quei piccoli passi che la propria figlia o figlio sta mettendo in atto:“ Sta riprendendo in mano progetti che aveva abbandonato? Ha ripreso a frequentare le sue amicizie? Ha cambiato il modo di vestire? Comunica maggiormente in casa?....” Sembrano dettagli banali e di poco conto ma in realtà non è così. La guarigione non è data dall’assenza improvvisa dei sintomi. Non è come l’avere una malattia qualsiasi che basta fare la cura prescritta dal medico per avere un miglioramento definitivo. Purtroppo il percorso è molto lungo e richiede tempo. </p><p style="text-align: justify;">Spesso i genitori sono preoccupati nel vedere la resistenza che i figli hanno verso la cura; ma non è la guarigione ad essere rifiutata quanto il cambiamento. Chi ha una malattia del comportamento alimentare vuole guarire ma allo stesso tempo, non vuole abbandonare il sintomo. Non perché non desidera curarsi, ma perché si è spaventati dal dover vivere senza quelle sicurezze che comunque la malattia sa dare. Un genitore questo lo comprende benissimo a livello razionale, ma non a livello emotivo. Una delle grandi difficoltà che un padre e una madre devono affrontare è il convivere per lungo tempo insieme alla malattia quando anche loro desidererebbero una guarigione immediata. Tutto questo è stato molto faticoso da gestire nel periodo della pandemia, e ad oggi ne vediamo le conseguenze. </p><p style="text-align: justify;">Molti genitori, soprattutto quelli di figli maggiorenni, si sentono abbandonati a se stessi perché oltre a non essere coinvolti personalmente in un percorso di cura, sono lasciati fuori da quello che è il piano terapeutico dei propri figli. Più volte stasera è emerso il concetto dell’importanza di poter parlare e confrontarsi sulla malattia poiché da soli è difficile capirne le dinamiche intrinseche. La malattia stringe in una morsa stretta e soffocante tutti i membri del nucleo familiare. Si rimane intrappolati in quelli che sono gli schemi patologici che portano a squilibri e sofferenza. Quante volte accade che un genitore cerchi di creare in casa un ambiente il più protetto da tutti quelli stimoli che potrebbero scatenare reazioni di conflitto. Ecco allora che si cerca di comprare solo determinati cibi, di cenare a determinati orari, di acconsentire alla mezz’oretta di cammino. Questo accade perché si è convinti che creando un ambiente il più tranquillo e sereno possibile, possa favorire un atteggiamento migliore verso la cura, ignorando che l’agire in questa maniera significa diventare complici della malattia. Non bisogna avere paura dello scontro, della porta sbattuta, del piatto gettato a terra, della violenza verbale. Questa non è che la manifestazione chiara ed esplicita della difficoltà nella gestione delle proprie emozioni e non può essere altro che materiale utile su cui lavorare nella stanza del terapeuta. Se tutto rimane sempre tranquillo e sotto controllo, su che cosa mai si può lavorare? Sul sintomo? Certamente, però, torniamo a ripetere che il sintomo non è altro che la punta dell’iceberg. Quindi ben vengano gli scoppi d’ira, gli oggetti buttati a terra, i graffi autolesionistici. Certo, assistere a tali scene non è facile ne’ piacevole né tanto meno se ne esce indenni in veste di genitore. E ancora sottolineiamo l’importanza di parlarne, di condividerne le esperienze, di permettersi di far emergere ciò che più preoccupa. </p><p style="text-align: justify;">Il laboratorio è anche questo: il luogo dove si può svuotare un poco il proprio zaino e ripartire più leggeri. Spesso la famiglia non riesce a staccarsi dall’ etichetta di anoressia o bulimia che nel tempo si è involontariamente appiccicata addosso alla propria figlia o figlio. Non si riesce più a veder altro se non quella identità. E questo non aiuta nessuno. Una ragazza ha raccontato di quanto a lei sia stato utile ricevere lo sguardo di quelle persone che per la prima volta l’avevano guardata per quello che era e non per quello che era scritto su innumerevoli fogli diagnostici. Quello sguardo l’ha aiutata ad abbandonare a sua volta quelle lenti distorte che le avevano fatto credere per anni di essere soltanto l’incarnazione dell’anoressia. Invece no. Lei non era la malattia. Sembra tutto banale quello che stiamo dicendo. Eppure sono concetti basilari per ritrovare se stessi. </p><p style="text-align: justify;">Ma come si fa ad aiutare un genitore ad abbandonare quello sguardo etichettante? E come si fa a far sì che i figli possano percepire che in quegli sguardi c’è amore e cura? Bisogna incominciare da se stessi. Spesso accade che la famiglia abbia smesso di guardarsi. Tutto si è andato a concentrare solo ed esclusivamente sulla malattia. Il pensiero fisso per una madre e un padre è la guarigione della propria figlia o figlio. Così ci si trova da una parte col genitore che è ossessionato dal : “ Devi guarire! Devi guarire!”, e dall’altra parte abbiamo il figlio o la figlia che a sua volta è ossessionato dal : “Non voglio guarire! Non voglio guarire!” In mezzo c’è la malattia che come un joker si diverte a cambiare le carte in tavola. Ecco allora che diventa importante ritornare a ritrovare quello spazio vitale nella propria vita per dare l’esempio pratico di come si fa. Non basta più dire che bisogna prendersi cura di se’, occorre mostrare come ci si prende cura di se’. La vita fa paura. Ci si illude che sia più facile starsene rintanati nella gabbia dorata della malattia. “ mamma /papà. Vieni anche tu qui dentro con me. Non mi abbandonare . Stammi vicino, stai con me”.... “ No figlia/figlio mio. Io in quella gabbia non ci entro. Perché la vita non è lì dentro. La vita è qui fuori. E il mio compito è farti veder che non c’è nulla da temere a stare al di là’ di quella gabbia.” Solo parlando, solo confrontandosi si riesce a comprendere il confine che separa la metaforica gabbia della malattia dalla vita reale. </p><p style="text-align: justify;">La frase della settimana: IL CONFINE TRA LA MALATTIA E LA VITA REALE<br /></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-34638891823458275802021-05-21T14:30:00.001+02:002021-05-21T14:30:22.052+02:00Reimparare a emozionarsi. Laboratorio del 18 Maggio.<p style="text-align: justify;">Il laboratorio è cominciato con una domanda specifica posta da una mamma: “ quando tua figlia o figlio che soffre di un disturbo alimentare continua a provocarti, attaccarti, tu genitore cosa devi fare? Controbattere o stare in silenzio?” </p><p style="text-align: justify;">La risposta, come abbiamo detto più volte, ovviamente non può essere univoca. Sarebbe troppo facile avere una risposta pronta per ogni occasione. E siccome questo non è possibile, occorre far riferimento alle diverse situazioni in cui si verificano tali attacchi. In riferimento alla storia di questa mamma, lo scontro verbale si è verificato durante la cena. Come sappiamo, il momento dei pasti è sempre critico, poiché la malattia è molto presente ed è difficile che dietro ad una eventuale provocazione si possa instaurare un dialogo costruttivo. In queste occasioni è quasi sempre preferibile non discutere su nulla, poiché qualsiasi cosa può essere usata come espediente per portare avanti la discussione e quindi spostare l’attenzione. Ma spostare l’attenzione da cosa? Qui abbiamo ripetuto un concetto che spesso emerge durante il laboratorio e che non ci stancheremo mai di ripetere perché rappresenta una base importante su cui riflettere quando accadono simili situazioni. </p><p style="text-align: justify;">Davanti a noi vediamo quella che è solo la punta dell’iceberg, ovvero quella provocazione. Quello che però sta al di sotto, il sommerso, non è visibile agli occhi. E nel sommerso ci sono le emozioni che la propria figlia o figlio sta vivendo. Emozioni che spaventano, perché in effetti si è davanti a una grande paura che viene simbolizzata attraverso l’assunzione del cibo. Anche un’altra mamma ha raccontato che, nonostante la figlia abbia cominciato a progettare una propria vita indipendente, incominciando ad affrontare il delicato mondo del lavoro, non è ancora riuscita ad abbandonare la bulimia, che al contrario, la accompagna con costanza, a volte anche in modo violento. Anche qui però, ciò che si osserva è solo la punta dell’iceberg ( la crisi bulimica) ma il sommerso, le emozioni, non sono visibili. Ma che cosa potrebbe esserci in questo sommerso che porta a far emergere sempre e solo il sintomo? Questo è un argomento un po’difficile da trattare, ma è necessario farlo per cercare di portare chiarezza su alcuni aspetti della malattia del comportamento alimentare. Il sintomo, non è un qualcosa che improvvisamente si è calato nella mente dei propri figli e, con abile destrezza, si è divertito a scombussolarne i pensieri, le idee, le percezioni. Il sintomo in realtà si fa portavoce di quella parte che non ha trovato un modo migliore per esprimere e comunicare quel malessere di fondo che nasconde la paura di vivere, la paura di affrontare la vita. Ma il sintomo in realtà non è qualcosa di completamente<br />estraneo alla persona. Ovvero. Non è che improvvisamente i propri figli vengono posseduti da chissà quale forza demoniaca che ne ha rapito la loro essenza. In realtà ciò che prende il sopravvento in una malattia del comportamento alimentare è quella parte di se’ che ha il compito di controllare, decidere e far mantenere le regole. Semplificando, potremmo dire la parte etica che è in ognuno di noi. Una parte che deve dialogare con le altre parti, per riuscire a stabilire quello che è un adeguato equilibrio.</p><p style="text-align: justify;"><br />Ora, riprendiamo la situazione di questa mamma che si trova a vedere che la propria figlia sta cominciando a progettare una sua vita autonoma, ma con la malattia ancora ben presente. Perché il sintomo non abbandona la figlia? Che cosa è che la porta ancora a rifugiarsi in quelle dinamiche così incomprensibili viste da fuori ( o più precisamente viste solo guardando la punta dell’iceberg)? In realtà ognuno di noi non può mai sapere la lotta interna che sta affrontando l’altra persona. Visto dall’esterno quella situazione può essere uguale a tante altre situazioni vissute apparentemente sempre in modo uguale, ma che così uguale in realtà non è. Infatti, c’è una fase del percorso della cura in cui guarigione e malattia camminano parallele ( lo abbiamo descritto anche in altri laboratori). Ma perché accade questo? Perché quella parte che si manifesta attraverso il sintomo è una parte della persona e come tale non può essere cancellata da un momento all’altra. Finiremmo per avere una persona monca, a cui le è stata tolta una parte importante di se’. E questo è impossibile. La guarigione richiede tempi lunghi perché quella parte “etica” che ha preso il sopravvento deve gradualmente ricominciare a dialogare con tutte le altre parti. E soprattutto, deve integrarsi e trovare il proprio posto. Affinché possa avvenire questo dialogo e integrazione, è necessario che la persona venga a diretto contatto con questa parte di<br />se’. E questo non è mai facile, a volte il risultato è un aggravarsi del sintomo. Qui è molto difficile per il genitore capire cosa stia accadendo, perché è sempre la punta dell’iceberg che si sta osservando. Viene in automatico che un genitore si preoccupi e giustamente cerchi di gestire lui stesso quella ripetuta situazione del figlio o della figlia. Ma in realtà, questo è un passaggio che non può avere sostituti. Per poter integrare ed equilibrare le varie parti di se’, occorre guardarle direttamente in faccia. Come è stato detto da una ragazza che ha raccontato quella che è stata la sua esperienza della guarigione, imparare a stare in quel vuoto, in quell’ emozione che spaventa. Infatti, solo restando nella paura si può cominciare a conoscerla e gestirla, riducendone l’intensità con il quale si manifesta. Da fuori potrebbe sembrare che si stia ritornando a riabbracciare la malattia, in realtà si sta andando a riconoscere se stesse. Si sta andando a fare esperienza di ciò che più spaventa. Si va a fare conoscenza diretta della propria ombra. Ognuno di noi è sia ombra e luce. In una malattia del comportamento alimentare prevale esclusivamente l’ombra....ma è da quel timido bagliore di luce che comincia la risalita verso se stesse. </p><p style="text-align: justify;">In questo discorso, è importante anche includere quei genitori che hanno figli o figlie maggiorenni che rifiutano di intraprendere un percorso terapeutico. Dato che non si segue un percorso di cura, vuol dire che la speranza di arrivare ad una guarigione è da abbandonare completamente? Anche qui il discorso è complesso da affrontare, ma riprendendo il concetto dell’ombra che prende il sopravvento sulla luce, quest’ultima può ritornare a risplendere anche attraverso un percorso non psicoterapeutico ma più olistico. Ad un certo punto, può accadere che la persona stessa senta il desiderio di approfondire certe cose di se’ e quindi affidarsi a una terapia. Questo per dire che non sempre la guarigione inizia da un percorso terapeutico, a volte può cominciare da un approccio olistico. Resta però inciso che la conoscenza di se’, e quindi l’affrontare direttamente la malattia, richiede un lavoro più approfondito, </p><p style="text-align: justify;">Una mamma ha condiviso la storia di sua figlia adolescente. Considerata sempre la classica alunna modello, diligente, educata, con bei voti a scuola. La perfezione. Finché non è giunta la malattia. Ovviamente, la madre ha cominciato subito a pensare dove avesse potuto sbagliare. Un giorno, grazie a una telefonata di un’altra mamma, è venuta a sapere che sua figlia stava vivendo seri episodi di bullismo a scuola. Questo è stato un fattore che ha inciso in modo importante nell’indole dolce e sensibile di questa ragazzina, che ha finito col cercare rifugio nella malattia. Ritornando al discorso delle emozioni, possiamo notare quanto l’incapacità di gestire ciò che accade possa poi indurre a far credere che il rifiuto, o al contrario la consolazione del cibo, possa essere la soluzione giusta nei confronti di quel malessere di fondo. Questa mamma ad oggi considera la malattia il mezzo attraverso il quale ha potuto conoscere realmente sua figlia, scoprendo che la vera bellezza sta proprio nell’imperfezione. Si, perché tutto ciò che è perfetto in realtà manca di animosità, è freddo, prevedibile, privo di reale emozione. Sul tema del bullismo, è intervenuta un’ insegnante di una scuola primaria. In questo periodo di pandemia, è emerso quanto sia importante per i suoi giovani alunni poter condividere le ore scolastiche tutti insieme. Da qui è nata l’idea di un laboratorio di scrittura, in cui i bambini possono esprimere e tradurre a parole quelli che sono i loro desideri, le loro gioie, ma anche le loro paure e difficoltà. Quello che è emerso è stato di una bellezza indescrivibile poiché i bambini hanno la naturale curiosità di esplorare ed esplorarsi. E lo fanno con quella purezza che è da alimentare e preservare anche attraverso queste importanti attività scolastiche che sono fondamentali nella crescita di un bambino. </p><p style="text-align: justify;"><br />Un’altra mamma, insegnante di una scuola media, si trova invece ad affrontare il disagio di una ragazzina di 12 anni che ha palesemente chiesto aiuto ai suoi insegnanti per il malessere che sta vivendo e che dimostra anche nei confronti del cibo. Questa mamma, conoscendo per esperienza personale la pericolosità di certe dinamiche che portano poi a una malattia del comportamento alimentare, ha cercato di sensibilizzare anche gli altri docenti, ma ha riscontrato quanto le altre persone ancora non conoscano bene queste malattie e spesso minimizzino i segnali attribuendoli a forme di imitazione dei modelli proposti sui social. Ancora una volta è emerso quanto ci sia da lavorare affinché le malattie del comportamento alimentare possano essere riconosciute nelle loro manifestazioni, e quanto sia importante che ci sia conoscenza, sensibilità e rete sociale, iniziando non solo dalla famiglia, ma anche dalla scuola che ha il compito e il dovere non solo di istruire ,ma anche di difendere.</p><p style="text-align: justify;"><br />La frase della settimana: REIMPARARE A EMOZIONARSI<br /></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-74757781194155607572021-05-06T11:14:00.000+02:002021-05-06T11:14:19.813+02:00Il sintomo è portatore di significato - Laboratorio 4 Maggio<div style="text-align: left;"><p>Il laboratorio di questa sera è stato molto ricco di condivisioni, storie, riflessioni che aprono sempre nuovi spiragli sul vissuto di ognuno di noi.</p></div><p style="text-align: justify;">La situazione che stiamo vivendo in questo periodo ha messo alla prova molti genitori che si trovano ancora più stanchi nel dover affrontare un disturbo alimentare che sappiamo bene quanto lasci stremati e senza forze. Una cosa importante da sottolineare sempre, è che spesso si rimane intrappolati nell’ osservazione di ciò che appare visibile ai nostri occhi: ovvero il sintomo. Ma per comprendere e saper affrontare il disturbo alimentare, serve andare al di là di esso per cercare di capire cosa questo ci voglia dire. Infatti, se si rimane fissi solo sul sintomo, si finisce col percorrere un’unica strada, quella della malattia. Eppure, anche se sembra paradossale, il sintomo è arrivato per far sì che si vadano a riaprire delle “porte” che sono state inavvertitamente chiuse e che ora reclamano di essere riaperte. Porte che appartengono sia al figlio/figlia, sia ai genitori. </p><p style="text-align: justify;"><br />Perché abbiamo detto questo? Perché la malattia percorre delle fasi ben precise, non si passa improvvisamente dallo stare male allo stare bene. Questo richiede molti passaggi che spesso passano attraverso l’apparente ritornare indietro. Dico apparente perché quando si ritorna a mettere in atto dei meccanismi della malattia che sembravano superati, in realtà i figli stanno vivendo un momento particolare del loro percorso. Un momento che può essere dettato da tante cause, anche il dover affrontare qualcosa di spinoso emerso in terapia. Ci si spaventa, e non avendo ancora acquisito strumenti nuovi per affrontare eventuali difficoltà, si torna a riabbracciare la finta sicurezza e controllo che da’ la malattia. Il genitore ovviamente vede però il sintomo, non ha la possibilità di comprendere la battaglia interna dei proprio figlio/figlia. Entrambi è come se si trovassero incastrati nelle proprie paure, che portano a creare ulteriori incomprensioni e conflitti all’interno del nucleo familiare. E qui, come sappiamo bene, il disturbo alimentare prende il sopravvento.<br />Spesso accade poi, soprattutto quando ci sono fratelli o sorelle, di dimenticarsi che anche loro sono parte della famiglia. Spesso i bisogni, i desideri, anche le paure stesse degli altri figli non vengano viste e riconosciute con il giusto valore, quasi fossero di minore importanza rispetto a quelli della figlia o figlio che soffre di un disturbo alimentare. Capitano situazioni in cui, alla richiesta dell’altro figlio/figlia, si sono pronunciate frasi del tipo: “ non possiamo andare in pizzeria perche’ tua sorella poi reagisce male”... oppure: “ dobbiamo cenare a tale ora perché altrimenti tuo fratello salta il pasto”.. dimenticandoci che i bisogni, le esigenze e anche la sofferenza degli altri figli devono essere riconosciute. Infatti, non dimentichiamo che anche loro soffrono nel non avere più il rapporto che avevano prima con la sorella o il fratello malato/a di un disturbo alimentare. Lo stesso discorso vale anche per la coppia marito e moglie. È importante ridefinire i propri spazi e ruoli, dedicandosi tempo e non sacrificandosi perché si ha paura di lasciare i propri figli soli in casa.</p><p style="text-align: justify;"><br />Una mamma ha raccontato il difficile momento che sta vivendo con la figlia che, ricaduta in frequenti crisi di bulimia generate dal sentire un grande senso di vuoto interno, arrivata al limite della situazione creatasi, ha reagito urlandole contro di non sopportare più di vedere in lei quella totale inerzia e apatia. Queste urla sono state dettate non solo dalla grande sofferenza di questa mamma, ma anche da un suo volerla scuotere per vederla reagire in un qualche modo. Così, senza aspettare da lei di avere una risposta su quello che avrebbe voluto per pranzo, la mamma è uscita a fare la spesa e al momento del pasto, ha detto solo che era pronto. La figlia, senza fare alcuna protesta, ha mangiato e poi è andata a lavorare. Il giorno dopo si è svegliata presto provvedendo, come non faceva da giorni, a occuparsi delle sue cose personali, ringraziando infine la madre. Come se quella sfuriata l’avesse momentaneamente ridestata. I genitori spesso sono lasciati soli ad affrontare il delicato momento in cui i propri figli, dopo un lungo periodo di terapia, incominciano a sperimentarsi nell’ affrontare quella che è la vita, anche nelle sue “banali” incombenze quotidiane. Dico periodo delicato poiché è solo facendo esperienza del disequilibrio che si impara a trovare il proprio baricentro. </p><p style="text-align: justify;">Ma assistere alla costante alternanza giù e su, sfianca e getta nella paura totale un genitore che ha già visto più volte il ripetersi di quel meccanismo perverso che sembra inghiottire il figlio/figlia. Ma ci tengo a sottolineare, che anche questo fa parte del percorso di cura, quello che invece a volte ne sono esclusi da questo processo, sono i genitori, che si ritrovano risucchiati non capendo cosa sta di nuovo accadendo . Ma ripeto, ogni fase è diversa, ogni crisi non è mai uguale alle precedenti, non è mai un ritornare indietro, perché nel frattempo chi sta cercando di guarire dalla malattia, si sta anche mettendo in gioco. Diventa allora ancora più importante che i genitori possano avere modo di parlare di quello che sentono, pensano, vivono poiché tutto ciò che viene tenuto dentro di se’, si cristallizza in una visione a senso unico . Al contrario, attraverso la parola condivisa, diamo espressione al nostro sentire, lo elaboriamo riuscendo a darne una prospettiva diversa. Un’ altra mamma ha raccontato di come sia stata dura anche per lei accorgersi che aveva talmente focalizzato la sua attenzione sulla figlia malata da essersi dimenticata degli altri suoi figli. <br />Grazie alla terapia, ha capito che non poteva estraniare il resto della famiglia per proteggerne uno solo. Ognuno aveva bisogno della stessa cura, tempo, dedizione ma anche conoscenza della malattia stessa, per imparare a relazionarsi con questa e quindi a non averne paura. Questo è basilare per i rapporti e l’equilibrio dell’ intero nucleo familiare. E qui torniamo al discorso di prima, al non fermarsi a vedere solo il sintomo ma andare al di là di esso per capire cosa voglia dirci. Infatti, è importante allenarsi costantemente a distinguere quando parla la malattia da quando parla la persona. Questo è essenziale per avviare una comunicazione che sia costruttiva e soprattutto che non vada a sostenere ulteriormente il disturbo alimentare.</p><p style="text-align: justify;"><br />Una mamma ha raccontato di quanto sia difficile in questo periodo subire gli attacchi aggressivi della figlia che rinfaccia continuamente ai genitori di averla costretta a intraprendere un percorso terapeutico contro la sua volontà. In realtà questo è un tentativo della malattia di scaricare sui propri genitori ogni responsabilità, compreso l’intero peso della propria sofferenza. Come è accaduto nel racconto precedente della mamma che si è lasciata andare a una sfuriata per ribellarsi a quel peso diventato insopportabile e ingiusto da sostenere. È necessario quindi saper distinguere bene chi è che parla quando si è in presenza del figlio o figlia malato/ malata di un disturbo alimentare, perché permette di acquisire strumenti per respingere le richieste manipolatorie della malattia. Spesso accade che la figlia/figlio ringrazi i propri genitori per non aver dato spazio al disturbo alimentare. So che è difficile da comprendere, ma affinché si possa arrivare alla consapevolezza di prender in mano la propria vita, occorre fare esperienza del vuoto, del non trovare nessuno che “appoggi” le manovre manipolatorie della malattia. Questo fa si che la persona si trova a diretto contatto con la propria sofferenza realizzando che tutto quello che ha messo in atto fino a quel momento attraverso il disturbo alimentare non è che una realtà distorta che l’ha tenuta lontana dalla sua vita e dai suoi cari.</p><p style="text-align: justify;"><br />Un’altra mamma ha condiviso quanto sia importante per lei il ruolo che i genitori hanno. Sono, come spesso abbiamo evidenziato nei laboratori, una risorsa. Attraverso un percorso sia di terapia familiare che individuale, questa mamma è riuscita a sintonizzarsi sulla sofferenza della figlia, che spesso ricorreva anche all’autolesionismo. Sintonizzarsi non significa fondersi con quel dolore, ma anzi, significa distaccarsene per poi poterlo riconoscere e accogliere come parte dell’altro e non di se’. Certo, questa mamma ha corso dei rischi permettendo alla figlia di restare sola nella propria sofferenza, poiché poteva farsi ulteriore male. Ma aveva compreso che lei, come genitore. stava agendo spinta prevalentemente dalla sua enorme paura per quello che poteva accadere. Così, doveva essere lei madre a sganciarsi per prima da quel meccanismo per far sì che la figlia potesse ritrovare se stessa. Non è stato ovviamente facile. Ma non dimentichiamoci che i genitori, sia la madre che il padre, sono coloro che hanno creato con i propri figli un legame molto forte, un legame costruito su una comunicazione che non necessita di parole. Ed ecco ritornare a quelle “porte chiuse” citate all’inizio.</p><p style="text-align: justify;"><br />Il sintomo arriva per portare la famiglia a riaprire porte che sono state chiuse e ora reclamano di essere riaperte. Il sintomo arriva per riportare la famiglia a riprendere in mano quella comunicazione profonda che in qualche modo si è interrotta o ha cambiato direzione. La guarigione ha bisogno di ritrovare questo legame, ritrovare le proprie radici per radicarsi e crescere saldi e stabili. Pensiamo agli alberi. Per svilupparsi, hanno bisogno di avere spazio intorno a se’, necessitano sia di una vicinanza data dalle rispettive radici, sia di una giusta distanza affinché i rispettivi rami non si vadano a intrecciare tra loro, soffocandosi a vicenda. </p><p style="text-align: justify;"><br />La frase della settimana : IL SINTOMO È PORTATORE DI SIGNIFICATO<br /></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-69875907632369769582021-04-29T12:34:00.000+02:002021-04-29T12:34:50.517+02:00Se manca la famiglia, manca il significato della propria storia. Laboratorio del 20 Aprile<p>
</p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Quante volte capita a un genitore
che ha una figlia o un figlio che soffre di un disturbo alimentare di sentirsi
dire : “ <i>mi dispiace, ma sua figlia/ o non è abbastanza motivata/o alla
cura. Torni quando ci sarà questa motivazione</i>”. Ma cosa vuole dire in
realtà questa affermazione? Tutto e nulla. Ovvero, è cosa assai difficile che
una persona con un disturbo alimentare abbia realmente desiderio di
intraprendere un percorso di cura, soprattutto quando la persona in questione è
minorenne. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Chi soffre di questa malattia, in particolare nelle prime fasi, non
la vive come un ostacolo ma come la soluzione ad ogni problema. Il disturbo
alimentare diviene così una sorta di stampella senza la quale la persona non
sarebbe in grado di camminare. E’ impensabile che la stessa persona voglia
disfarsi di questo mezzo che per lei rappresenta l’ unica modalità con il quale
trovare appoggio e sostegno. Di conseguenza, è abbastanza ovvio che mostri
opposizione, un’ opposizione che non è verso la guarigione ma bensì verso il
cambiamento. La persona quindi si trova a non voler lasciare andare il disturbo
alimentare e tutto questo va esplorato per comprendere che cosa è che spaventa
così tanto da far ergere questa resistenza, e tutto ciò richiede tempo,
professionisti specializzati e denaro. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Capiamo bene che se consideriamo un
ambiente di sanità pubblica, vengono a mancare le possibilità di attingere a
tali risorse e quindi si declina il tutto sul piano della motivazione, come se
fosse la persona a doversi in qualche modo adeguare alla terapia e non la
terapia che debba adeguarsi alla persona e alla sua storia. E da qui può
capitare di sentirsi dire: “<i>mi dispiace, ma sua figlia/ o non è abbastanza
motivata/o alla cura. Torni quando ci sarà questa motivazione</i>” Tutto questo
getta nella disperazione la famiglia che, non conoscendo appieno le dinamiche
del disturbo alimentare ne’ tantomeno alcune possibili problematiche
organizzative sanitarie, finisce con l’attribuire la “colpa” di una
stabilizzazione della malattia alla mancanza di volontà della propria figlia/o.
Ma un disturbo alimentare non è mai causato, ne’ tantomeno alimentato, da una
non volontà da parte della persona che ne soffre. Centra ben poco la volontà
quando si parla di un disturbo alimentare, poiché spesso dietro vi è la paura
di vivere, insieme alla sofferenza che ne deriva, che induce la persona a
rifugiarsi dentro a un disturbo alimentare. Per fortuna però ci sono anche
strutture adeguate e dottori che conoscono bene questa malattia e sanno affrontarla
non solo con le cure appropriate ma anche con un approccio umano che è
indispensabile in queste patologie. Infatti, affinché una cura possa far effetto
occorre che si venga a creare fiducia e affidamento verso il proprio terapeuta
e la propria nutrizionista. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Come ha riportato una mamma, la fiducia con
l’equipe è fondamentale, non solo per la persona che soffre di un disturbo
alimentare ma anche per la famiglia stessa. Dalla diretta esperienza di questa
mamma, da circa due mesi la figlia si trova ricoverata in una struttura e non
c’è serata che non sia caratterizzata da telefonate intrise dal pianto e dalle
suppliche per ritornare a casa. Pochi giorni fa, durante un incontro in cui
erano presenti tutta l’equipe della struttura e la famiglia al completo di
questa ragazza, all’ennesimo tentativo di supplica di tornare a casa, questa
mamma si è schierata completamente con l’equipe. Questo ha sortito un effetto
molto forte sulla figlia, che improvvisamente ha visto davanti a se’ la
debolezza della malattia. Il disturbo alimentare infatti, non è poi così forte
come vuol far credere, ma anzi, diviene assai debole se viene smascherato nel
suo sporco gioco manipolatorio. Alla fine, la ragazza ha ringraziato la mamma
per non averla assecondata nella sua ossessiva richiesta. Ora è consapevole che
il no non era diretto personalmente a lei, ma alla malattia. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Un’altra mamma ha
condiviso un accaduto simile. La psichiatra e la terapeuta le hanno sempre
detto che quando riceveva le telefonate piene di pianti e suppliche da parte
della figlia, doveva con calma rispondere con un : “ <i>ti voglio bene.... ma
io con la malattia non parlo, poiché a parlare in questo momento non sei tu”. </i>E
questo in effetti ha poi migliorato la vita ad entrambe. La figlia ha smesso di
fare telefonate secondo la modalità di supplica, e la madre ha smesso di
passare notti in bianco perché preoccupata e angosciata di quelle comunicazioni.
Inoltre, questa mamma ha raccontato un ulteriore passaggio importante avvenuto
in questi giorni. La figlia, rivedendosi in un video girato un anno e mezzo fa,
ha confidato di essersi spaventata nel vedersi in uno sguardo in cui non si
riconosceva e attraverso il quale non vedeva nulla di se stessa. Anche lo
sguardo ha un ruolo importante in un percorso di cura. Lo sguardo sa rivelare
molto più di tante parole. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Lo sa bene una ragazza che, raccontando la sua
esperienza personale, ha riportato quanto durante la malattia faceva fatica a
riconoscere lo sguardo di amore che è sempre esistito da parte dei suoi
familiari. In quel periodo, era come se si fosse rinchiusa nella gabbia dorata
che rappresenta bene la metafora del disturbo alimentare. E sono stati proprio
gli sguardi di persone a lei estranee, ma che conoscevano bene il disturbo
alimentare, che l’hanno in un certo senso spronata a uscire dalla gabbia
dorata. Queste persone erano riuscite a vederla al di là di ogni etichetta che
la identificava come se fosse lei solo un disturbo alimentare. Questo le è servito
come stimolo per ritornare a chiedere aiuto ai dottori che l’avevano seguita e
a cui lei non aveva mai dato la giusta attenzione fino ad allora, cominciando
finalmente ad affidarsi a loro. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">È bene sottolineare che nessun dottore possiede
la bacchetta magica che porta alla guarigione. Lo stesso dottore può andare
bene per una persona e non per un’altra. Sono tante le variabili che
intercorrono nel rapporto di cura. Però, è anche vero che le figure
terapeutiche hanno il compito di creare il più possibile un ambiente
accogliente di ascolto, comprensione, dialogo, empatia. La parola empatia è
utilizzata così tanto da perdere quasi valore, ma è, al contrario, un principio
cardine. Empatia, entrare nel pathos, nel sentimento dell’altro. Solo così può
avvenire il sentirsi visti e riconosciuti, e quando una persona che soffre
sente arrivare su di se’ uno sguardo simile, comincia la vera cura. Quello
sguardo nutre, riempie, dona linfa vitale. E permette alla persona di far
emergere la voglia di ritornare a rimettersi in gioco, intraprendendo
finalmente il cammino della guarigione, fidandosi completamente in chi ha saputo
donarle quello spazio di accoglienza e riconoscimento. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Quindi, il personale
medico da una parte e la famiglia dall’altra, sono indispensabili nel percorso
di cura di una persona che soffre di un disturbo alimentare. La famiglia è
importante che diventi un’alleata dell’equipe terapeutica per far sì che non
vada ad alimentare le dinamiche della malattia. Perché questo accada, occorre
che ci sia coinvolgimento e collaborazione da entrambe le parti. Ogni piccolo
passo fatto va a porre un tassello di quello che è il puzzle della propria
storia, ma una volta che ogni elemento è finalmente incastonato, è ancora
incompleto. Affinché il puzzle possa essere ben compatto e solido, occorre
andare a incollare le varie parti. Questo collante è dato dalla rete di relazioni
che sono fondamentali per creare unione e collegamento. Ma ancora, il puzzle
non è terminato. Serve che l’intera tela possa essere contenuta dentro ad una
cornice, e questa cornice, che delinea i margini e contiene e’ rappresentata
proprio dalla famiglia. Ognuno di noi, senza la cornice della famiglia, perde
il significato della propria storia. </p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;">La frase della settimana : SE MANCA LA
FAMIGLIA, MANCA IL SIGNIFICATO DELLA PROPRIA STORIA</p>
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Brescia.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;"><span style="font-size: 12pt; mso-ascii-font-family: Calibri; mso-bidi-font-family: Calibri; mso-hansi-font-family: Calibri;">La mia storia di disturbo alimentare è
iniziata a 11 anni in modo graduale con l'arrivo del menarca: era l'8 marzo 2009, ricorrenza del giorno
della donna. Proprio il mio diventare donna è ciò che mi ha portato a vedermi in modo diverso.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;"><span style="font-size: 12pt; mso-ascii-font-family: Calibri; mso-bidi-font-family: Calibri; mso-hansi-font-family: Calibri;">Attorno ai 13 anni non avevo ancora vere
e proprie mestruazioni ma continue emorragie abbondanti e dolorosissime, che mi
facevano pensare che il mio corpo fosse qualcosa che non potevo più controllare. Non capivo cosa
mi stesse succedendo, quello fu di fatto un evento traumatico. I miei cambiamenti fisici avevano smosso
in me un modo più severo di guardarmi e non mi apprezzavo. Avevo iniziato a
pensare che fosse il cibo il mio più grande nemico, subito dopo il mio corpo, che non voleva stare a una minima
regola di quello che era previsto dai libri o dagli standard estetici della
società. Il continuo flusso di sangue rappresentava simbolicamente il
sanguinamento di una ferita interiore, ma io pensavo che togliendo un po' di
cibo dal piatto avrei alleggerito anche quel peso che mi portavo dentro:
cercavo di risolvere esteriormente un problema che partiva da dentro. Infatti dentro di me vivevo un profondo
disagio emotivo. Non riuscivo ad integrarmi nella nuova classe pensando di essere “sbagliata” e
non riuscivo a trovare il mio posto, tanto meno me stessa. La percezione distorta della mia fisicità
non mi faceva sentire mai “abbastanza” secondo i miei standard di perfezione che applicavo
duramente a tutto ciò che mi riguardava. Provavo costantemente una sensazione
di vuoto profondo e opprimente, sentivo che dentro di me c'era qualcosa che nonostante i miei sforzi mi
risucchiava sempre in un vortice di dolore, lacrime e solitudine. Passavo ore in camera mia, da
sola, a piangere, sempre cercando di nascondermi. Talvolta il malessere che provavo mi
faceva “uscire” dal mio corpo facendomi sentire come un'abitante di quelle
membra che si muovevano da sole e io rimanevo a guardare dai miei stessi occhi ma come una terza persona.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;"><span style="font-size: 12pt; mso-ascii-font-family: Calibri; mso-bidi-font-family: Calibri; mso-hansi-font-family: Calibri;">Nonostante tra quell'estate e l'inizio
del liceo avessi preso in mano il mio dolore e iniziato per mia volontà un percorso psicologico, il solo
soffrire di un disturbo alimentare mi faceva sentire in colpa verso i miei genitori e mio fratello
(molto più grande), per la sofferenza che stavo portando loro.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;"><span style="font-size: 12pt; mso-ascii-font-family: Calibri; mso-bidi-font-family: Calibri; mso-hansi-font-family: Calibri;">Loro avevano già vissuto un dramma, “il
vero dramma”: nel 1988 mio fratello Stefano morì a soli tre anni di leucemia, e quello che stavo
creando io secondo loro era solo frutto del mio egoismo, ma io mai avrei voluto far loro del male. In tutto il percorso della mia malattia
non sono mai riuscita comunicare con la mia famiglia, soprattutto con mamma e
papà. Mamma piangeva, ma lontano da me. Papà non capiva, e si arrabbiava. Nemmeno ora se ne parla... Quello che mio papà cercava di fare, per
risolvere la cosa a modo suo, era farmi mangiare. Quello che provavo in quei momenti a tavola era
dispiacere: non potevo mangiare quello che aveva preparato per me e mangiare
non avrebbe guarito il mio dolore ma avrebbe fatto crescere il suo. Il suo impormi di mangiare era visto da
me come un modo per farmi stare alle sue regole, che secondo i suoi schemi mi avrebbero
salvata. Ma in quel momento avevo bisogno di seguire le mie regole. Purtroppo, più mi veniva imposto
di mangiare e meno mangiavo, più mi ribellavo e più volevo stare sola.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;"><span style="font-size: 12pt; mso-ascii-font-family: Calibri; mso-bidi-font-family: Calibri; mso-hansi-font-family: Calibri;">Il mio atteggiamento era un modo
implicito di chiedere disperatamente un dialogo con i miei genitori. Tante volte avrei voluto
sentire un “come stai?” che arrivava invece solo da un compagno di classe. Il fatto che fosse un mio
coetaneo esterno alla famiglia a parlarmi e cercare di capire il mio malessere mi ha magicamente fatto
vedere che io ancora ero degna di essere amata nonostante le mie crepe. Volevo
essere ascoltata e finalmente qualcuno mi vedeva e capiva che delle volte avevo bisogno di fermarmi e
piangere magari, perchè andava tutto un po' troppo veloce per me... e infine ho
scoperto che potevo anche piacere ed innamorarmi :)</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;"><span style="font-size: 12pt; mso-ascii-font-family: Calibri; mso-bidi-font-family: Calibri; mso-hansi-font-family: Calibri;">Piano piano, con l'aiuto psicologico,
sono riuscita ad alleggerirmi abbandonando i comportamenti nocivi per me e mangiare un po' di più.
Inoltre la danza, che ho sempre praticato, ha giocato un ruolo fondamentale nella mia
riabilitazione. Ho iniziato a vedere cosa il mio corpo mi permetteva di fare, piuttosto che la forma che
avesse. La perfezione fisica a cui ambivo era diventata la ricerca del movimento perfetto, il mio corpo la
possibilità che mi permetteva di arrivarvi.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: normal; margin-bottom: 0cm; mso-layout-grid-align: none; text-align: justify; text-autospace: none;"><span style="font-size: 12pt; mso-ascii-font-family: Calibri; mso-bidi-font-family: Calibri; mso-hansi-font-family: Calibri;">Oggi il mio corpo è ancora un mezzo
importantissimo che mi permette di vivere mille esperienze attraverso tutti i suoi canali che sono
connessi alla mia psiche ed alle mie emozioni, che poi rivivo nella mia arte. Ho imparato invece a comprendere modi di
comunicare diversi, come quelli dei miei genitori e della mia famiglia, di cui nemmeno mi
sentivo più parte. In questo senso conoscere la mia nonna paterna da vicino è stato illuminante.
Capire le origini di un linguaggio e chi ha educato mio papà mi ha aiutato a sentirmi più vicina a
lui. In più apprendere la storia della mia famiglia (questa volta sia dalla parte materna sia paterna) mi
ha aiutata a capire meglio l'identità della stessa. Conoscere meglio la cronologia precedente permette
di ri-conoscere i lati che si sviscerano nel tempo, e dà la possibilità ai suoi protagonisti di avere
un'identità, qualcosa di più grande di cui sentirsi parte, e questa era una cosa di cui avevo
disperatamente bisogno. Tutt'ora con tutte queste informazioni cerco costantemente di tenere vivi i
ricordi ed il senso di appartenenza all'interno della mia famiglia, ma anche di
trovare sempre punti di incontro tra consapevolezza, sensibilità e futuro.</span></p>
<p></p>minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-28304776884834571802021-03-25T11:51:00.001+01:002021-03-25T13:59:15.049+01:00Gocce di balsamo che si posano sull'anima. Laboratorio del 23 Marzo<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Il laboratorio di stasera si è focalizzato su un tema particolare per
molti genitori che, soprattutto in questo momento di pandemia, ha un impatto
maggiore all’interno di un nucleo familiare. Spesso accade che i ragazzi e le
ragazze che vengono ricoverate all’interno di una struttura per un disturbo
alimentare, assumano un atteggiamento molto collaborativo con l’equipe
terapeutica. Si comportano secondo il modello tipico del bravo/ brava paziente,
che potrebbe far pensare che il percorso stia avvenendo nel migliore dei modi.
In realtà, spesso non è così. Si compiace il dottore, lo psicologo, il
nutrizionista con il fine non di guarire ma bensì di essere dimesso/a al più
presto possibile, così da poter tornare a casa e riprendere il controllo
dettato e ordinato dalla malattia. Una mamma ha raccontato addirittura che la
propria figlia ha inserito nel suo menù in struttura cibi da lei sempre
rifiutati a casa, proprio per evidenziare ancora di più il suo impegno. </span></p><span style="font-family: arial;">
</span><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Tale modalità comportamentale ovviamente non è passata inosservata,
poiché la descrizione che questa mamma ha dato relativamente alla condotta
tenuta dalla figlia quando era a casa non corrispondeva assolutamente a ciò che
veniva riportato dall’equipe terapeutica. La domanda che è sorta nel
laboratorio è : “<i>perché accade questo? Perché in struttura alcuni ragazzi e
ragazze agiscono bene e una volta a casa si comportano male?</i>”
Indubbiamente, rispondere che il problema risiede nella famiglia è molto
semplicistico e riduttivo, oltre ad evitare di analizzare la dinamica che si
cela dentro. È invece importante cercare di andare oltre, anche se difficile
all’interno di un laboratorio, dato che le motivazioni del perché avviene
questo possono essere molteplici. </span></p><span style="font-family: arial;">
</span><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Come detto più volte, anche se la manifestazione comportamentale può
essere simile, ciò che spinge ad agire in quella maniera è diversa per ogni
ragazzo e ragazza che la mette in atto. Infatti, si assiste ad una modalità che
si snoda da un estremo all’altro: da una parte il seguire tutto ciò che viene
detto, dall’altra il rifiutare e controllare ogni cosa. Nel mezzo di questi due
opposti c’è però la persona, che confusamente, e con sofferenza, agisce in un
modo convergente perdendo la consapevolezza di chi essa sia. Questo può portare
a un mancato contatto con la realtà che provoca alienazione, smarrimento, senso
di non appartenenza. È chiaro che una tale dinamica deve essere affrontata
all’interno di un percorso terapeutico, non può essere certamente il compito di
un genitore lavorare sulla distorta visione della realtà del proprio figlio/
figlia. </span></p><span style="font-family: arial;">
</span><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Da qui si può ben comprendere quanto sia errato addossare la colpa
interamente sulla famiglia se i figli a casa manifestano il disturbo
alimentare. È chiaro che il coinvolgimento di una dinamica familiare
consolidata ci sia, ma è compito del percorso di cura affrontare tale quesito,
non attribuendone la responsabilità della risoluzione al nucleo familiare. Una
ragazza ha condiviso la sua storia raccontando di come lei sia sempre stata
catalogata come la paziente perfetta, educata, gentile. Lei faceva ogni cosa
che le veniva detto proprio per non deludere questa idea che si era fatta di se
stessa e per cercare di uscire al più presto e tornare a gestirsi autonomamente
la propria vita ( gestita in realtà dal disturbo alimentare). È stata
importante una frase emersa dalla sua narrazione: “ i<i>o seguivo ciò che mi
veniva detto di fare, ma in realtà non vivevo”</i>. Era come se avesse eretto
intorno a se’ un muro di difesa che non le faceva arrivare nessuna emozione,
sensazione, nemmeno sapore. Come un’ automa programmato a fare tutto, ma
allontanando da se’ ogni forma di sentire. Durante il laboratorio si è discusso
del senso di solitudine vissuto dai genitori che si sentono abbandonati in
questo momento molto delicato della cura. </span></p><span style="font-family: arial;">
</span><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">È emerso quanto venga a mancare spesso sul territorio una specifica
terapia familiare che possa accompagnare i genitori a essere formati e istruiti
sul come comportarsi quando si trovano a dover affrontare le dinamiche legate
al disturbo alimentare messe in atto dai loro figli nel momento in cui
rientrano a casa dopo un ricovero. La struttura sotto certi punti di vista
rappresenta un luogo ovattato e protetto, lontano dalle stimolazioni vissute
nella quotidianità. Un luogo che contiene, isola da quello che è il diretto
contatto con il mondo esterno, quello stesso mondo che tanto spaventa e da cui
si cerca di fuggire. La casa al contrario rappresenta il luogo in cui ci si è
adattati alle proprie paure utilizzando il sintomo della malattia. Si comprende
bene quanto il percorso di cura possa essere complesso dal momento che viene
influenzato non solo dalla persona che soffre il disturbo alimentare ma anche
dalla fase in cui la malattia stessa si trova. </span></p><span style="font-family: arial;">
</span><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Altro concetto emerso durante il laboratorio è stato il senso di colpa
che un genitore prova dal percepire fortemente su di se’ l’aver sbagliato
qualcosa che ha generato il disturbo alimentare, ma quando c’è di mezzo una
malattia, non ci sono colpe. Certo, torniamo a ripetere che è inevitabile che
alcune dinamiche familiari abbiano influito, ma sono talmente tante la
variabili coinvolte all’interno di un disturbo alimentare che non si può
assolutamente dare una colpa alla famiglia su quanto è accaduto. Ogni famiglia
infatti subisce delle trasformazioni, dei momenti di crisi naturali che ne
determinano la sua struttura dinamica. La modalità attraverso la quale si affronta
tale cambiamento può sfociare in processi quali un disturbo alimentare.</span></p><span style="font-family: arial;">
</span><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">E qui ritorna l’importanza della terapia familiare che deve essere
sempre inclusa all’interno di un percorso di cura di una persona che soffre di
un disturbo alimentare. Il laboratorio non rappresenta ovviamente una terapia.
La sua risorsa principale è data dai genitori stessi che ne fanno parte. Sono
loro che, attraverso le loro condivisioni, arricchiscono il laboratorio stesso.
Certo, a volte alcuni temi possono creare dolore, come quando si applica una
medicina su una ferita e si avverte subito una sensazione di bruciore. Ma poi,
piano piano, quella ferita si cicatrizza. Il disturbo alimentare gioca a creare
il vuoto intorno a se’, ma attraverso il laboratorio si cerca di costruire un
riparo che possa proteggere e allo stesso tempo indicare la direzione da
seguire. È attraverso la storia dell’altro, delle sue emozioni, del suo sentire
che riusciamo a riconoscere le nostre emozioni, il nostro sentire, la nostra
storia. Le parole divengono come gocce preziose che leniscono ogni ferita...
gocce di balsamo che si posano sull’anima .</span></p><span style="font-family: arial;">
</span><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">La frase della settimana : GOCCE DI BALSAMO CHE SI POSANO SULL’ANIMA.</span></p>
minutrodivitahttp://www.blogger.com/profile/17605663138367722674noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8413743418500314825.post-77742667497470967302021-03-24T15:33:00.001+01:002021-03-24T15:33:33.568+01:00<p><span style="font-size: medium;"><span style="color: #9455aa;"><span style="font-family: arial;"> <span style="font-size: large;"><b><span style="line-height: 115%;">Il diritto di essere ciò che sono. </span><span style="line-height: 115%;"><span style="line-height: 115%;">Xheka (Giona)</span></span></b></span></span></span></span><!--[if gte mso 9]><xml>
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<![endif]--><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">Sono nata in Albania il 2 agosto del 1996 e, attorno agli anni 2000,
sono arrivata in Italia. Quando raggiunsi il Trentino, avevo all’incirca 4 anni e mezzo. </span></span></p><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">I miei genitori, in particolare mio padre, si sono trasferiti in
Italia un po' per i problemi economici che il Paese stava attraversando
all'epoca ma soprattutto per le mie difficoltà. Da tempo infatti, i medici, avevano
già prospettato la mia situazione e proprio per questa ragione hanno pensato di
emigrare. Naturalmente questo trasferimento benché sofferto fu portato avanti con
coraggio e forza: infatti fin da quando ero in Albania, si sapeva che avrei
avuto dei problemi alla vista, perché già all'epoca ci vedevo poco. Una volta arrivata in Italia, in seguito a un lungo pellegrinaggio fra
innumerevoli medici, abbiamo avuto la conferma che avrei perso il mio residuo
visivo. Inoltre, una volta inseritami nella scuola dell'infanzia, gli
insegnanti di sostegno scoprirono presto che avevo anche delle difficoltà
uditive, ragione per cui invitarono la mia famiglia a consultare una
neuropsichiatra infantile. Venne confermata la diagnosi: per questo motivo,
decisero in primo luogo di assegnarmi una logopedista e, successivamente, di
prescrivermi leprotesi acustiche. Ed è così che è andata avanti per molti anni, anche se per
tutti gli anni delle scuole primarie, il mio udito andava a perdersi sempre di
più, con conseguenti otiti e dolori alle orecchie.</span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">La mia fortuna fu che un bel giorno, nell’estate del 2008, incontrai la Lega
del Filo d'oro: associazione che in Italia si occupa delle persone sordocieche
e con disabilità psicosensoriali. Grazie a loro, ho conosciuto nuove
possibilità di comunicare, nonché ausili innovativi dedicati alle persone
sordocieche. Fra questi ce n’era uno, a me molto caro ancora oggi: l’Impianto Cocleare.
Uno strumento tecnico, che attraverso un intervento chirurgico, permette alle
persone di recuperare le proprie capacità uditive. Detta così, sembra facile,
ma in verità, ce n'è voluto tanto di coraggio, per scegliere a 12 anni di
ricominciare da capo a sentire; anche perché, ci sono voluti circa 6 anni per riuscire a sentire in
maniera "normale”, o comunque come sento oggi. E' comunque un percorso di
riconquista del proprio corpo, accettando una realtà che indubbiamente è
cambiata da quel giorno. Una scelta molto grande per una bimba che diventava
donna: forte e fragile allo stesso tempo. Un passaggio davvero molto
importante: chi ci sta accanto a volte dà per scontata una scelta che invece
non lo è. Arriva persino a dimenticarsi che si tratta, appunto, di una scelta:
quella di sentire in un altro modo, gettando il cuore oltre l'ostacolo, aiutati
dalla tecnologia seppure con i suoi limiti. Una scelta di cui sono felice, ma
che di tanto in tanto mi trovo a ponderare quando alla fine di una giornata più
pesante delle altre, mi trovo con un forte mal di testa ma incapace di rendermi
conto cosa non vada, fino al momento in cui decido di disconnettere l'Impianto,
per ritornare libera in un mondo silenzioso che ho imparato a poco a poco a fare
mio.<span> </span></span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">Voi, vi chiederete: "ma cosa c’entra tutto ciò col disturbo alimentare?
". La verità è che purtroppo c’entra, e c’entra dolorosamente. Questo perchè le
mie difficoltà sensoriali, hanno in parte contribuito, per via di una sindrome
metabolica rara (la sindrome di Alstrom) all’esordio del mio problema. La
sindrome di Alstrom è una malattia che coinvolge non solo la vista e l'udito,
ma anche altri organi interni. In particolare, il cuore, il fegato, i reni e i
polmoni. Inoltre, chi è affetto da questa patologia, può riscontrare un esordio
di diabete, nello specifico il diabete mellito di tipo 2. Chiaramente, ciascuno
dei pazienti Alstrom, ha complicazioni differenti, in base alla propria
conformazione genetica e biologica.Inutile ribadire che questa, come ogni altra patologia, sa colpire il cuore di
chi la vive, cambiando il suo modo di pensare e di affrontare prima di tutto il
rapporto con se stessi e con il proprio corpo. Inoltre, si tratta di una
"malattia rara": e come immagino capiti a chi soffre di queste
patologie, ci si chiede come sia successo a noi, quali siano le ragioni che ci hanno
portato qui ora e come poter migliorare la nostra qualità di vita. riflessioni
e spunti che passano dalle nostre consapevolezze, che tuttavia diventa doloroso
e difficile trarre quando non ci sentiamo accettati, valorizzati per ciò che siamo. </span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">Ebbene sì, nel mio caso si sono manifestati molti dei sintomi della sindrome:
all'età di 10 anni, e ancora prima di fare l'Impianto mi venne diagnosticato il
diabete e col passare degli anni, anche per via delle complicanze metaboliche,
si verificò un aggravamento delle mie funzioni epatiche.</span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">La sindrome da sempre confonde le acque: ricordo quante volte i medici si sono
soffermati davanti alle mie analisi, imputandomi la colpa dei valori che
"non tornavano”, anche sapendo che per via della mia situazione, le mie
funzionalità epatiche sarebbero comunque risultate alterate.In tutto ciò, l'esordio del disturbo alimentare si è manifestato molto presto:
da che io ho memoria, ho sempre avuto un rapporto distorto col cibo. La verità
è che da quando mi è stato diagnosticato il diabete, le cose si sono complicate
molto, non solo perché dovevo seguire un'alimentazione specifica, ma anche e
soprattutto, perché la mia diabetologa cercava di mantenere il mio peso sotto
una specifica soglia. Ragione per cui mi valutava in base alla mia capacità di
gestire il mio peso e l’alimentazione: se andavo bene significava che ero
calata, se invece andavo male, significava che ero aumentata. Questo modo di
valutarmi ha fortemente condizionato me e la mia famiglia: non è un caso che
ogni volta che non seguivo l’alimentazione indicatami dallo specialista, i miei
genitori mi giudicassero dicendomi che ero incapace e che stavo sbagliando. </span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">Questo modo di fare mi ha portato negli anni a sentirmi perennemente in colpa,
nonché sbagliata. Non è un caso che ogni volta che mi alimentavo di ciò che non
mi faceva bene, mi sentissi sbagliata, in colpa e non degna di amore.
Sensazioni che ho percepito per tanti, tantissimi anni. Per anni, mi è stato insegnato
che avrei potuto ricevere quell’amore solo e soltanto se fossi stata in grado
di dare qualcos’altro in cambio. In un certo senso, dovevo essere la figlia
perfetta, migliore, quella che non sbagliava mai, perché se avesse fatto
diversamente, ossia in base a ciò che sentivo, ero sbagliata e non andavo bene.
Per questa ragione, per un numero di anni infinito, ho fatto ciò che mi veniva detto
senza esprimere il mio parere, perché pensavo che dicendo la mia, sarei stata
abbandonata e rifiutata da tutti. Ancora oggi quando mi confronto con il mio ragazzo, spesso ho paura: paura di
non essere accettata per ciò che sono o per ciò che penso, paura che di
trovarmi ad un tratto da sola. Basta alzare la voce con me, <span> </span>l'impatto emozionale di una giornata storta perchè
io rischi di perdere tutte le certezze costruite a poco a poco con dolore e
fatica. Forse ho corso il rischio di costruire dei rapporti non equilibrati con
chi mi stava vicino, ma sono riuscita a superare a poco a poco queste paure: dimostrando
prima di tutto a me stessa e <span> </span>contro ogni
previsione, che Giona è più forte. Più forte di tutto ciò che è stato. Anche
della mia stessa paura. Come voi sapete, le origini del proprio comportamento,
nascono da molto più lontano. Il mio rapporto distorto con l’alimentazione è infatti
incominciato molto presto, da molto più lontano e dalle stesse origini: penso
di aver avuto 5-6 anni quando, andando alle visite mediche, mi dicevano che ero
più in sovrappeso rispetto ad altri bambini. Questa caratteristica del mio aspetto mi
è stata ribadita tante, troppe volte, quando ero piccola, persino dagli stessi
insegnanti di sostegno. Sì, nessuno non perdeva occasione di ribadirmelo, come
se essere più robusti fosse una vergogna, qualcosa per cui sentirsi in colpa,
sentirsi in difetto, in un certo senso sbagliati. Come se questa caratteristica
fosse la cosa più importante: l'unica che mi poteva definire. Come se a nulla
valessero tutti i miei sforzi.Purtroppo sì: il mio sentirmi “sbagliata”, “non degna d’amor” iniziò già in
quel periodo della mia vita. Ma il colpo di grazia lo ebbi a una visita medica.
Sì, è stato proprio dalle persone che avrebbero dovuto tutelarmi, proteggermi e
curami che mi sono sentita maggiormente ferita: erano i tempi in cui i miei
genitori stavano ancora cercando di comprendere la mia condizione, ragione per
cui i medici mi sottoponevano a <span> </span>innumerevoli
accertamenti sanitari. Fra questi, ve ne era uno in particolare che mi ha
pesantemente condizionato l’esistenza: erano gli anni in cui non si sospettava
minimamente la sindrome attuale, sipensava che fosse un’altra malattia rara. Ragione per cui le analisi e gli
studi a cui mi sottoponevano erano tanti, troppi forse, per una bambina di
quell'età. Una bambina così sensibile. Fu così che un bel giorno, arrivata
all’ospedale di Padova, dove mi seguivano per i miei problemi di vista, mi
accolsero due medici: ancora oggi non ho idea se fossero delle ricercatrici o
se invece fossero dei medici che volevano dei dati specifici sulle mie forme
corporee. Ragione per cui decisero di “misurarmi” da capo a piedi: non tralasciarono
nessuna parte del corpo, si spinsero anche ad analizzare ogni parte della mia
intimità dinanzi ai miei genitori. Nessuno disse nulla, nessuno obbiettò
qualcosa. Io chiaramente non ero nelle condizioni di poter scegliere, o
comunque non mi diedero questa possibilità. Purtroppo, ancora oggi, sono allo
scuro delle ragioni per cui mi fecero quella visita, anche perché non riesco a parlarne,
se non in situazioni molto particolari, o quando so che posso essere capita.
Quanta sofferenza mentre scrivo queste parole: come scalare una parete di
dolore, di ricordi e di silenzi: le lacrime e le paura di perdermi.Non sono riuscita a fare domande e figuriamoci ad ottenere risposte
quindi.Ero disorientata: non riuscivo a fare chiarezza dentro di me e quindi a
chiederne a chi mi stava vicino. Fatto sta che quella visita medica me la
fecero e questo mi ha segnato profondamente, mi segna ogni istante della mia vita. </span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">Per anni ho desiderato di essere perfetta, la migliore, per cancellare quel
dolore, ma soprattutto non sopportavo quando mi si sottolineava una mia
caratteristica fisica. No, non riuscivo a sopportarlo, ancora meno se lo si faceva per aiutarmi a gestire la mia salute:
erano diventati insopportabili anche i medici, perché sembravano coalizzati con
i miei genitori, un po’ come per dirmi: “sei tu quella sbagliata, quella che
deve cambiare e che deve apparire - perfetta – agli occhi di tutti”. Ho
cominciato così a distruggermi, per punire me stessa e gli altri: un dolore sordo,
lui sì che era davvero sordo.Per anni, ancora oggi, guai se sono disordinata, se appaio con una macchia sui
pantaloni, o se per esempio ho un calzino di un colore diverso: sembra essere l’immagine
ciò che mi caratterizza e non una mia specifica caratteristica. Come fossimo
tutti prodotti sugli scaffali del supermercato della società: e io dovessi fare
attenzione alla mia etichetta. Quanto può ferire categorizzare e schematizzare
le vite delle persone, come non avessimo un cuore. Per quanto tempo mi è stato
imposto di apparire come gli altri mi avrebbero voluto e non come invece ero e
sono VERAMENTE. Come se si volesse fare di me ciò che non potevo e non volevo
essere: non lasciandomi spazio di essere me stessa e scegliere liberamente chi
avrei voluto essere un giorno.</span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">Questo negli anni mi ha scavato dentro profondamente e mi ha fatto molto
soffrire, perché in un certo senso, non ho mai avuto IL DIRITTO DI ESSERE CIò
CHE SONO, ma soprattutto di essere considerata per ciò che so fare e non fare,
oppure per quello che do o meno agli altri. In un certo senso, per quelle che
sono le mie capacità, risorse, potenzialità e non solo i miei limiti. In
definitiva, ci ho messo tanti, troppi anni, per capire che non sono solo un
“problema, ma anzi, sono molto molto di più di quel problema. Naturalmente, acquisire queste consapevolezze mi è costato molto caro, perché
se è vero che per affrontare problematiche come queste ci vuole tanto tempo, è
anche vero che il mio corpo, sempre più urla aiuto: vuole essere lasciato in
pace in un certo senso, ne soffre tantissimo. Infatti come voi sapete, questi
mali nascono dalla mente e si estendono al corpo. E sì, quel corpo per anni
stracciato, maltrattato, ora chiede fortemente, forzatamente, AIUTO. È un grido
che da tanto, troppo tempo cerca di farsi sentire dai famigliari e dai medici che mi seguono, ma purtroppo nessuno è riuscito ad
ascoltarlo. Tutti mi dicono che sono "normo peso", che non ho alcun
problema, che per salvaguardare la mia salute dovrei gestire la mia
alimentazione, ma nessuno che mi aiuti concretamente. Tutti pensano che la
forma del controllo sia quella ideale per aiutarmi: la verità è che più mi si controlla, più si fa peggio,
perché io faccio l’esatto contrario. Insomma, più si va avanti, più si fa
fatica a gestire la situazione: soprattutto dal punto di vista medico. E,
quando provi a dire che la situazione è grave, nessuno, nemmeno lo psicologo
che ti segue da tempo, lo riconosce in quanto tale: ma ciò che è peggio è che quando provi a contattare
il tuo Centro Regionale per i Disturbi alimentari, si dileguano indirizzandoti
ad un centro per la cura dell’obesità. In un certo senso ti senti sballottare a
destra e manca, tuttavia non ricevendo alcuna risposta chiara e specifica che
ti permetta di intraprendere finalmente un percorso di cambiamento e cura, un
percorso che tu possa sentire il tuo. Ciò che è ancora più grave però, è che
nemmeno i famigliari riconoscono che hai un problema: no, per loro il tuo è un
capriccio, un comportamento che puoi cambiare. Quando gli dici: “forse dovrei
levare i carboidrati per un paio di settimane, per vedere se sto meglio”, mi
viene detto: “ma sai, mica è difficile”, quando loro sono i primi a non
riuscirci. Il bello è che non è finita qui: ogni volta che cerchi di far
rispettare i tuoi diritti, invece che risponderti su quel tema/argomento, ti dicono: “guarda che pancia
hai”. Un commento che <span> </span>ferisce, perché
in un certo senso, anche quando provi a fare del tuo meglio, la frustrazione
aumenta, perché per loro non fai mai abbastanza. </span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">Naturalmente, non dico che io faccia
abbastanza, ma penso di stare facendo ciò che posso e che riesco, cercando di
mettere insieme cuore e corpo, che a volte sembrano prendersi a pugni a
vicenda. In base al periodo ci riesco più o meno, ma non penso che
colpevolizzarmi sia la soluzione giusta. Non credo di riuscirci sempre, ma
penso di provarci. La verità è che anche quando ci <span> </span>provo, per i mei genitori, in particolare per
mia mamma, è come se non stessi mai facendo abbastanza. In un certo senso,
anche se so che non è così, è come se mi si dicesse: “Giona, tu non sei
abbastanza per noi”, o ancora peggio, come se mi si facesse sentire di peso.
Una sensazione che quando si ha una o più di una disabilità, si percepisce
anche al di là del proprio disagio col cibo. Naturalmente per via di innumerevoli
dinamiche disfunzionali, negli anni i mei genitori si sono chiesti le ragioni
del mio problema, ma io non riesco a spiegargliele, anche perché nemmeno io
penso di averle capite perfettamente; ma anche questo, mi risulta, molto
difficile da far capire. Se io ho fatto il mio percorso di crescita, ricorrendo
anche alla psicoterapia, i miei genitori, in particolare mia madre, non si sono
mai fatti aiutare. Ragione per cui mi risulta molto difficile dialogare con
loro. Qui, purtroppo è molto difficile dialogare, perché invece che
confrontarci, ci si scontra. Motivo per cui io vivo il confronto con paura e
angoscia, faticando molto in certe occasioni a esprimere con tranquillità il
mio punto di vista. Ragione per cui, da un po' di tempo a questa parte, ho
deciso di uscire dal contesto famigliare: chiaramente non è l’unica motivazione
per cui porto avanti questa scelta, ma è certo una delle tante. Sono infatti
arrivata alla conclusione che io debba andare avanti con le mie gambe, facendo
il mio percorso di crescita e cambiamento in autonomia, con delle persone che
comprendano di più le mie difficoltà e che mi giudichino meno per quello che
sono e, soprattutto, per le scelte che intendo portare avanti. Io sono fatta di
grida nel silenzio, sono fatta di frasi che potrebbero quasi sembrare normali:
non fosse che sanno essere scosse di terremoto nelle vite di chi mi conosce.
sono tanto tanto amore: una pioggia ininterrotta di amore, di risate, di lacrime,
di domande, di risposte. Così viva, un fiore cresciuto nel cemento. Non so più
come chiedere aiuto ma non per questo ho smesso di farlo, di credere che il
domani sarà un giorno diverso da costruire, migliore. Ho imparato duramente a
guardare la realtà anche quando fa paura, e so fare qualcosa che purtroppo è
stato fatto poco con me: guardare le persone e vederne le potenzialità, vedere
ciò che hanno da dare, che sono, che possono essere, che saranno. Ho saputo in
definitiva, essere e trovare le risposte alle domande di chi soffoca nel silenzio:
dare tutto ciò che ho, il mio cuore. </span></span></div><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">
</span></span><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;"> Xheka Haxhiraj</span></span></p><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;">
</span></span><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: arial;"> </span></span></p>
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