Un minuto, un lunghissimo minuto è appena trascorso; eravamo
noi due: io e la pagina bianca di fronte a me. Io: anoressica, bulimica, venti
anni, Sara. Lei: intatta, candida di una purezza vuota, ma pronta ad ascoltare
qualsiasi cosa io abbia da dire. Eppure di fronte a tanta libertà, di fronte a
tanta intimità, io mi sento costretta, soffocata, oppressa da una pressione che
mi toglie il respiro, che mi lacera il cuore, che confonde i pensieri,
cambiandone la forma, le proporzioni, i toni, i colori, la veridicità, che
priva le emozioni della loro autenticità, che mi mostra una realtà in cui
regnano soltanto corruzione, devastazione, violenza, ipocrisia, in cui le
relazioni umane collocano le loro fondamenta in un terreno sabbioso di
superficialità e opportunismo per, poi, elevarsi nei piani più alti, fino alla
falsità, alla mancanza di rispetto, alla perdita della dignità. E come si può
anche solo voler vivere con una visione così straniante della vita, come si può
stare nel mondo ed affrontarlo se lo si disprezza, se lo si teme, se se ne
diffida? Non si può, non è possibile. Qual è il compromesso? L'isolamento:
vedere ogni giorno solo e soltanto il proprio riflesso; e con riflesso non mi
riferisco solo al riflesso allo specchio bensì, soprattutto, alla proiezione di
sé, dei propri pensieri e dei propri stati d'animo sugli altri, così che
perfino quel poco che ci restava, che ci apparteneva, che ci distingueva si
disperda e si espanda sull'ambiente che ci circonda. L'isolamento porta a non
sapere più quale sia la linea di confine che ci separa dal mondo circostante ma
che, ancor più, ci definisce, ci dà una forma, ci dà un'identità, ci dà uno
strumento non soltanto forte e robusto per muoverci e combattere ma anche
plastico, flessibile per cambiare ed evolverci. L'isolamento porta alla perdita
della consapevolezza del proprio corpo ma, soprattutto, di noi stessi: si
arriva al punto in cui sembra che, di noi, soltanto il riflesso sia reale,
percepibile attraverso i sensi e attraverso la nostra proiezione su chi vive
con noi o su chi ci sta più vicino. E tale riflesso è tanto reale, quanto
odioso e intollerabile. Vorremmo distruggerlo. L'istinto di sopravvivenza ed il
principio di autoconservazione non valgono più: il nostro disprezzo è rivolto
verso ciò che vediamo negli altri di noi, nasce dal contrasto tra ciò che gli
altri vedono in noi e il vuoto e l'inesistenza che abbiamo come idea di noi
stessi. In una realtà distorta in cui il mondo che ci circonda e il nostro
corpo, il nostro io non sono più distinguibili, ciò che sentiamo un po' più
personale, proprio, ossia i pensieri, le emozioni, le idee, le opinioni, non
deve essere espresso. Dove finisce tutto ciò? Resta tutto inedito, segreto,
ignoto, ma il peso è enorme. Le alternative sono due: illudersi di avere forza
e controllo, imporsi sul cibo e credere di poter sostenere il carico di
“non-espresso”, di “non-esternato” che grava dentro di noi; oppure percepire
con angoscia lo squilibrio tra pieno e vuoto, tra la pesantezza di vivere e la
propria inesistenza nel mondo, tra i compiti/doveri da svolgere, gli impegni,
le scadenze da rispettare, le promesse da mantenere e l'ozioso non-vivere
dell'isolamento, tra la fatica e la frenesia del vivere ed il lento cullarsi
nel lasciarsi andare alla morte. Ciò porta a colmarsi di frustrazioni per non
essere in grado di: tenere la strada, mantenersi in equilibrio stabile,
affrontare il mondo che ci circonda con sicurezza, camminare tutti d'un pezzo.
Perché continuare ancora a fingere di essere qualcuno?
Perché aspettare ancora? Quando arriverà la fine?
Non è tutto perduto, possiamo esistere ancora, possiamo
vivere nuove situazioni, nuove relazioni, nuove emozioni, sebbene possano
rivelarsi sia positive sia negative: e la cosa più bella sarà sentire e
percepire queste nuove occasioni come nostre. Lo so, ne sono certa, e non
perché ho già superato il disturbo o non ne presento più i sintomi, ma perché
ho imparato a riconoscermi delle conquiste, a gioire dei miei - e ribadisco i
“miei” - passi avanti e delle mie conquiste giornaliere, a percepire e a
distinguere con comprensione e compassione le difficoltà che incontro, a perdonare
i miei errori e le mie ricadute. Alcuni dei passi più difficili da compiere
sono riacquistare consapevolezza di sé, comprendere di stare male davvero,
riconoscere di avere bisogno di aiuto, chiedere soccorso. Chiedere aiuto: per
me si tratta di uno degli ostacoli più imponenti ed impegnativi da superare.
Chiedere aiuto presuppone, oltre alla scelta del destinatario della richiesta,
che deve necessariamente godere della nostra più cieca fiducia, la preventiva
percezione della possibilità di un pericolo e, soprattutto, l'umile presa di
coscienza di non essere in grado di superarlo senza un sostegno esterno. È,
però, importante, precisare che ciò non sottintende che il percorso che porta a
superare momentaneamente un ostacolo sia facilitato o non sia compiuto da noi
stessi solo perché abbiamo avuto necessità di un ausilio: esso richiede molta
fatica e molta forza di volontà; il destinatario della richiesta di assistenza
ci fornirà il necessario bagaglio di strumenti per affrontare uno stato d'animo
e/o una difficile circostanza, ma saremo noi, in quanto persone esistenti, a
farne uso in modo costruttivo. Potremmo fallire, ma fare un passo indietro non
equivale a cominciare dal principio il cammino: la volta successiva
utilizzeremo una precauzione in più.
Concludo con una piccola considerazione: scrivendo queste
poche righe mi chiedevo a chi mi rivolgessi e chi fosse il mio reale
destinatario. Mi ha sfiorato l'idea di un giudizio, con più forza mi ha
stuzzicato la rabbia di non essere in grado di esprimere ciò che vorrei e di
non trovare mai le parole giuste. Ma poi mi sono detta: io esisto, io penso, io
scrivo, io condivido delle parole, io trovo la forza di non nascondermi e di
portare la mia piccola testimonianza di fronte a tante persone che compiono la stessa
scelta, pronte ad aiutare ed essere aiutate, a dare conforto ed essere
confortate, a raccontare ed ascoltare. Cosa c'è di più bello di tante persone
che scrivono ciò che sentono dentro? Ancora più bello è pensare che ognuno sa
che le sue parole non sono altro che una minuta parte di qualcosa di molto più
grande, che, però non potrebbe esistere facendone a meno, perché mancherebbe di
una sfaccettatura, di un punto di vista: questo concorso letterario evoca in me
l'immagine di una pagina di vocabolario aperta alla voce “vita”, in cui ogni
testo, e quindi ogni partecipante, ha contribuito in modo assolutamente
equivalente alla stesura del significato.
Sara Delli