mercoledì 25 novembre 2015

La realtà come giudizio




Un riscontro con la realtà esterna tante volte può diventare l 'unico modo per avere percezione di se stessi, di quello che ti sta accadendo fisicamente ed emotivamente. Ricordo ancora uno degli episodi più significativi per me in cui venni a contatto con la realtà della mia magrezza. Ero seduta in macchina e una sensazione spiacevolissima di colpo mi assalì, una doccia fredda. Il sedile di quella macchina perse la sua reale funzione per diventare un vero e proprio 'mezzo di comunicazione'. Non stava più lì per farmi sedere, ma per dirmi quello che mi stava succedendo. La sensazione di esser seduta su una roccia spigolosa piuttosto che su qualcosa di relativamente morbido, fu il messaggio che mi inviò. Un messaggio che provai immediatamente a decifrare. Si il mio corpo era dolorante, a causa del contatto delle mie ossa sporgenti con il sedile di quella auto. Mi mossi con una certa irrequietezza avendo l’impressione che dovessi solo trovare la giusta posizione, pensando di aver assunto solo una postura sbagliata, ma in realtà qualsiasi posizione assumessi il dolore non mi abbandonava; schiena, glutei erano ‘aggrediti’ dalle mie ossa. Il messaggio diventava sempre più chiaro, o meglio, metteva in dubbio qualcosa, quella certezza falsa che il mio corpo fosse sano. Una voce che però strozzavo in pochissimo tempo. Se fisicamente sentivo e, rifiutando di sentire, cercavo di mettere a tacere il mio corpo, emotivamente la sensazione sgradevole della preoccupazione per la mia persona moriva sul nascere. Preoccupazione che si risvegliava solo attraverso il confronto con le persone, che inevitabilmente notavano la mia ‘pericolosa’ minutezza, un senso di angoscia che però per me si mescolava all'idea del giudizio. Nonostante il mio istinto di autoconservazione provava in tutti i modi a parlare, cercando anche nelle parole altrui quella dimensione del reale che io non avevo e che in qualche modo poteva salvarmi, l’ombra del giudizio mi remava contro. Una voce imperava dentro di me e mi diceva: 'la loro preoccupazione è espressione di un mio comportamento sbagliato' come se ancora una volta ci fosse stata la convinzione che ero io a voler stare male, che ero sbagliata. La volontà di capire per poter fare luce su quello che mi stava accadendo, così come il terrore di farlo perché tutto si trasformava in uno spietato giudizio. Cercare disperatamente così come fuggire, tutto nello stesso momento. La realtà, quella realtà che rifiutavo era per me prevalentemente giudizio. Allora, quale ‘migliore’ strada se non quella di rifuggire quella realtà, se ai miei occhi appariva così dolorosa. Quale migliore ‘soluzione’, se non costruire un mondo tutto mio, fatto di regole tutte mie, che mi davano modo di farmi vedere quello che io decidevo, perché su quello potevo avere un controllo? E tutto continuava ad essere sempre e solo una trappola dalla quale però potevo disincagliarmi solo io.
Rosy


mercoledì 11 novembre 2015

Ritornare a vivere



Sorridere, amare, gioire… che bello sarebbe se potessimo - a comando - decidere il sentimento o l’emozione su cui volerci sintonizzare! Purtroppo non è così semplice! Neppure le più belle favole narrano di storie unicamente positive, infatti dietro un lieto fine spesso si celano tormentate vicende. Ebbene… è così che voglio credere che sarà la mia vita: forse la tempesta che vivo ogni giorno, ormai da anni, è solo il naturale percorso che serve e che prelude un magnifico finale. È vero, è difficile credere costantemente a questa ipotesi; non sempre riesco ad essere coerente con le mie idee, ma per fortuna in mezzo a tanti - troppi - momenti di negatività e pessimismo a volte si fa largo un piccolo spiraglio di luce che chiamo speranza e che mi permette di andare avanti nell’attesa che prima o poi qualcosa cambi nella mia vita - o meglio, nella mia mente - e che magari un giorno svegliandomi riuscirò a guardarmi con occhi nuovi. Si, perché è tutto lì il problema: non tanto l’immagine riflessa allo specchio, quanto invece il filtro dei miei occhi; un filtro “arrugginito”, distorto e da sostituire… un filtro che mi fa vedere solo il peggio, il brutto, il nero di un’immagine che di per sé sarebbe invece un arcobaleno di colori.
Convivere quotidianamente con le proprie sensazioni non è mai semplice; non lo è per la gente comune e men che meno lo è per me, per noi, per tutte quelle persone che vivono, soccombono o lottano contro un disturbo alimentare. Come si può aver voglia di fare qualcosa quando nella tua mente continua a martellare l’idea di te che non vali niente!! Credo che per molti di noi sia proprio da questo disagio e senso di inferiorità rispetto al resto del mondo che nasce il bisogno di sentirsi unici, forti, di assumere il “controllo” sull’unica cosa che possa dipendere da noi: il cibo, il peso… il nostro corpo! Ci nascondiamo erroneamente dietro la convinzione che il cibo è il nostro primo nemico o, al contrario, il nostro unico amico e in un caso piuttosto che nell’altro, finiamo esclusivamente col farci del male. Sì… perché è inutile dire che il problema alimentare, in qualunque modo esso si manifesti, non può che arrecarci dolore - fisico e mentale - lasciandoci cadere in un baratro, sempre più giù, sempre più lontano dalla realtà e da ciò che sarebbe giusto perseguire; eppure, esso assume un aspetto tanto “amichevole” nei nostri confronti da farci sentire al sicuro quando ci sta accanto: il problema alimentare, diventa il nostro fedele compagno di vita! Si tratta però di un compagno un po’ “scomodo”: geloso, possessivo, ci vuole tenere solo per sé, ci porta ad isolarci da tutto e da tutti fino a che noi, povere vittime, completamente infatuate da questo “amore proibito”, diveniamo burattini da manovrare a suo piacimento: non siamo più noi ad avere il controllo né della nostra alimentazione né, a lungo andare, della nostra vita. Così, quella forza e quella supremazia che pensavamo di avere all’inizio, finiscono per perdersi strada facendo e nella maggior parte dei casi, ce ne rendiamo conto quando è ormai troppo tardi.
Tante volte, nei miei momenti di lucidità, quando l’ansia, la paura e lo sconforto - ormai compagni di vita - mi danno un po’ di tregua, mi soffermo a riflettere sul motivo per cui la mia vita in un certo momento abbia preso questa brutta piega; perché, nonostante la consapevolezza di quanto stare così mi faccia soffrire, non riesco a dire “basta”, a tirar su le maniche una volta per tutte e ricominciare a vivere.
E dire che ci ho provato diverse volte a guarire!!                                                                                                     Eppure c’è sempre qualcosa che mi blocca nel percorso: per quanto duro esso sia, per quanti passi avanti io riconosca di aver fatto, c’è sempre quel momento di smarrimento che mi fa sentire “sbagliata” nel voler cambiare; e “presuntuosa” nel voler provare a non ascoltare i mille pensieri che incessantemente frastornano la mia mente. E così, in un niente si torna indietro… mesi di sacrifici si perdono in un baleno e prima che io possa accorgermene ciò che avevo riguadagnato mi sfugge di mano, ritornando punto e a capo, nell’ombra più totale. E di nuovo pianto, tristezza, umore depresso… dove va a finire la gioia di vivere? Dove vanno a nascondersi quella forza e quel coraggio che mi inducono ad andare avanti nonostante tutto?
Tante domande… Poche risposte… Ma forse è così che deve andare; forse chi vuole davvero guarire da un disturbo alimentare deve prepararsi ad affrontare un lungo e tortuoso viaggio, dove non si va in prima classe ma probabilmente in autostop; dove non si sosta in un hotel a cinque stelle ma nelle bettole… Tuttavia, fra i tanti viaggi che nella nostra vita avremo la possibilità di fare, quello verso la guarigione resterà di certo il più memorabile e significativo poiché, nel momento in cui saremo arrivati a destinazione, riceveremo il dono più prezioso che sia possibile desiderare: ritornare a vivere, ovvero… sorridere, amare, gioire!

Maria Cognata