lunedì 11 aprile 2016

Da "Mi nutro di parole" QUESTIONI DI SCELTE



Sei anni fa, in questo periodo, il freddo di gennaio a farmi da sfondo, stavo decidendo come morire. Anno 2009, 17 i miei anni per 163 centimetri di altezza in 52,7 chilogrammi infilati a stento nel tubino nero confezionato da mia madre. Ho nitidi e dettagliati ricordi di quel compleanno: un’intera giornata per creare la perfezione e, infine, quell'immagine allo specchio che mi diceva che un’unica cosa non era perfetta e mai lo sarebbe stata: io. Ricordo gli occhi intensi di uno sguardo deciso mentre scelsi che morte volevo: “Da oggi, si dimagrisce sul serio”. E fu così che presi per mano l’anoressia, per morire in solitaria sofferenza. Illusione. Dopo quel nitido ricordo, una nebbia di disperazione aleggia tra i cinque anni che sono seguiti. Soltanto un dettaglio è impresso nella mia testa: i numeri. Il mio ‘record’ di 31,8 chilogrammi, i numeri dei tagli sulle braccia (di questi, ho ancora le cicatrici da poter contare), i numeri di quante volte al giorno vomitavo, i numeri dei giorni in ospedale, il numero del letto in ospedale, il numero che diventai in ospedale. E il numero di diari e di pagine scritte per tentare di non dimenticare che io, un numero, non lo ero.
Oggi, sei anni dopo, talvolta e per puro caso, saltano fuori attimi di malattia: video ‘contro l’anoressia’ dove io mi ergevo a ‘paladina di vita’ per scongiurare le altre di guarire (affinché fossi io la sola ragazza-scheletro del mondo); e le foto che scattavo per fermare un’immagine di me-perfetta. Perché sapevo che non sarebbe durato a lungo quel corpo e dovevo avere le prove che, anche io, ero stata uno scheletro vivente. Mi trovo a guardare tutto questo ed essere, pressoché, indifferente. Più che altro, distaccata. Come se niente mi appartenesse più. Talvolta, proprio come se non mi fosse mai appartenuto. Potrei dipingere, fin nei minimi dettagli, questo periodo in una fredda cronaca di giornale. Guardo un pezzo della mia vita da spettatrice, dall'alto di una rossa poltrona. E, sul palco, i protagonisti non hanno nome, né volto. È una storia anonima, quindi di tutti. Non sento più il brivido in quel vissuto. Come quando scelsi l’anoressia perché mi affascinava avere una storia fuori dagli schemi, una vita speciale, che non tutti avrebbero vissuto o potuto vivere, una storia da film drammatico. Il senso del tragico e del macabro scorreva nelle mie vene, era lo stimolo a continuare nella mia teatrale impresa: una morte da combattente, stremata da una malattia. Io, l’anoressia l’ho voluta. Intensamente. “Non è colpa tua”, dicono dalla terapia. Non sono mai stata d’accordo: non ho scelto io un odio profondo e radicato verso me stessa, è vero. E nemmeno un bestiale istinto autolesionista con cui torturarmi. Però, fui io a scegliere di appagare questa fame di tragedia che mi pervadeva. Scelsi io di farlo nel silenzio, chiudendomi in me stessa per combattermi, fino alla morte. E decisi io, di rifiutare numerosi aiuti o affetto dimostratomi. Scelsi io di gettare all'aria tutti i miei sogni, quelli veri e importanti e, di conseguenza, più difficili da realizzare. Decisi io che, per me, la vita sarebbe stata troppo difficile da vivere e, quindi, era meglio fuggire in fretta. Non so perché, né quando precisamente, questi sentimenti di odio e rancore verso me stessa e il mondo intero abbiano smesso di pervadermi. Penso che, questo, sia successo nell’istante in cui l'ho voluto e chiesto. Quando io ho scelto di mettere in pratica le mie prediche: la vita è bella, è gioia, è amore. La vita è debole, e va difesa. Quando ho deciso di difendermi, ho smesso di odiarmi. Non che ora mi voglia bene per davvero: tante cose ancora non accetto e non mi perdono. Però (anche se subito non concretamente, perché passai i seguenti due anni a vomitare e tagliarmi) è stata quella mia scelta, a cambiare tutto: decisi di darmi una possibilità. Di provare a essere protagonista di una vita, non di un film tragico. Decisi che, forse, anche io avrei potuto vivere. E sarebbe stato difficile, per una debole e fragile come me, ma “io sono coraggiosa. E il vero coraggio è vivere”. Sarà che da sempre cresco a ‘latte e fantasy’, perché tutte le storie di eroi che nulla avevano di speciale se non la «voglia di vivere nel mondo» (mi riferisco a Tolkien e i suoi Hobbit), mi hanno dato quell'amore per il coraggio che, io, ho deciso di far prevalere sull'attrazione per il macabro, il tragico, la disperazione. E non è che oggi, dopo tutto quello che ho vissuto sono diventata forte e ‘nulla potrà più ferirmi’. È esattamente il contrario: sono diventata ancora più fragile. Un vaso rotto rimane un vaso rotto, anche quando i cocci sono aggiustati così bene che le crepe non si notano più. Il vaso rimane comunque più fragile e, se prima era una caduta a romperlo, adesso può essere solo un tocco un po’ brusco. Ecco, io sto imparando ad essere questo vaso così fragile, ad accettare che persino un filo di vento potrà frantumarmi ora. I pezzi del vaso, però, rimarranno. E, di questo sono pienamente convinta, ci sarà sempre qualcuno che rimetterà assieme quei cocci. Sempre. Anche quando scriviamo o ci diciamo che questa è la volta buona, che - finalmente, a nostro sentire - stiamo diventando polvere… arriva qualcuno o qualcosa che (pare per magia) ricostruisce quel vaso e lo fa bello, ancora più bello di prima. E più sei bello più ami le cose belle. Ora, io mi amo così: come cocci di vaso tenuti assieme da una colla d'oro, che fa risplendere le ferite e a tutti fa dire: “sei più bello di quando eri perfetto: ora brilli!”. Il trucco, per me, è proprio dirmi che sono meravigliosa non 'nonostante' le mie debolezze, ma 'proprio per' le mie debolezze. Quelle sensibilità che mi permettono di rompermi e venire ricostruita, più bella e brillante di prima. D'altronde «la tua debolezza è la tua forza» (citando un tale di nome Gesù). È un po' così che sono guarita dai disturbi alimentari: ho smesso di lottare contro una me stessa debole e malata e ho iniziato ad ascoltare ciò che quella ragazza spaventata - e spaventante - chiedeva. Ho iniziato a dare la mia fiducia alla gente, finché ho scoperto che davvero di tanta gente ci si può fidare, che davvero chi è disposto (e capace) ad aiutarti c'è. E ho scoperto, così, che crescere (ho sempre avuto il terrore di crescere) non è poi così male; che il diventare donna- testa e fisico - è meraviglioso. Anche perché, i bambini per quanto disarmino nella loro semplice spontaneità (sono le persone per cui ho deciso di darmi ‘quella’ possibilità), non tutti sono disposti, né capaci di ascoltarli: un adulto è più credibile, per qualsiasi cosa voglia dire (e io ho sempre avuto molto da dire). Così ho deciso di dire qualcosa, con questo testo, senza una meta precisa. Ma, come da sempre, scrivere è scoprirmi: tirare fuori qualcosa che era celato alla mia mente. E grazie a queste righe, alla fine, sono arrivata a concludere che davvero sono sempre stata io la protagonista di tutto ciò che mi è successo e riesco a vedere, adesso concretamente, ciò che da un anno frulla nella mia testa: che i disturbi alimentari, sono un oscuro mondo, in cui io non vivo più.

Simona Valcarenghi