Sei anni fa, in questo
periodo, il freddo di gennaio a farmi da sfondo, stavo decidendo come morire.
Anno 2009, 17 i miei anni per 163 centimetri di altezza in 52,7 chilogrammi
infilati a stento nel tubino nero confezionato da mia madre. Ho nitidi e dettagliati
ricordi di quel compleanno: un’intera giornata per creare la perfezione e,
infine, quell'immagine allo specchio che mi diceva che un’unica cosa non era
perfetta e mai lo sarebbe stata: io. Ricordo gli occhi intensi di uno sguardo
deciso mentre scelsi che morte volevo: “Da oggi, si dimagrisce sul serio”.
E fu così che presi per mano l’anoressia, per morire in solitaria sofferenza.
Illusione. Dopo quel nitido ricordo, una nebbia di disperazione aleggia tra i
cinque anni che sono seguiti. Soltanto un dettaglio è impresso nella mia testa:
i numeri. Il mio ‘record’ di 31,8 chilogrammi, i numeri dei tagli sulle braccia
(di questi, ho ancora le cicatrici da poter contare), i numeri di quante volte
al giorno vomitavo, i numeri dei giorni in ospedale, il numero del letto in
ospedale, il numero che diventai in ospedale. E il numero di diari e di pagine
scritte per tentare di non dimenticare che io, un numero, non lo ero.
Oggi, sei anni dopo,
talvolta e per puro caso, saltano fuori attimi di malattia: video ‘contro
l’anoressia’ dove io mi ergevo a ‘paladina di vita’ per scongiurare le
altre di guarire (affinché fossi io la sola ragazza-scheletro del
mondo); e le foto che scattavo per fermare un’immagine di me-perfetta.
Perché sapevo che non sarebbe durato a lungo quel corpo e dovevo avere le prove
che, anche io, ero stata uno scheletro vivente. Mi trovo a guardare
tutto questo ed essere, pressoché, indifferente. Più che altro, distaccata.
Come se niente mi appartenesse più. Talvolta, proprio come se non mi fosse mai
appartenuto. Potrei dipingere, fin nei minimi dettagli, questo periodo in una
fredda cronaca di giornale. Guardo un pezzo della mia vita da spettatrice,
dall'alto di una rossa poltrona. E, sul palco, i protagonisti non hanno nome,
né volto. È una storia anonima, quindi di tutti. Non sento più il brivido in
quel vissuto. Come quando scelsi l’anoressia perché mi affascinava avere una
storia fuori dagli schemi, una vita speciale, che non tutti avrebbero vissuto o
potuto vivere, una storia da film drammatico. Il senso del tragico e del
macabro scorreva nelle mie vene, era lo stimolo a continuare nella mia teatrale
impresa: una morte da combattente, stremata da una malattia. Io, l’anoressia
l’ho voluta. Intensamente. “Non è colpa tua”, dicono dalla terapia. Non sono
mai stata d’accordo: non ho scelto io un odio profondo e radicato verso me
stessa, è vero. E nemmeno un bestiale istinto autolesionista con cui
torturarmi. Però, fui io a scegliere di appagare questa fame di tragedia
che mi pervadeva. Scelsi io di farlo nel silenzio, chiudendomi in me
stessa per combattermi, fino alla morte. E decisi io, di rifiutare
numerosi aiuti o affetto dimostratomi. Scelsi io di gettare all'aria
tutti i miei sogni, quelli veri e importanti e, di conseguenza, più difficili da
realizzare. Decisi io che, per me, la vita sarebbe stata troppo
difficile da vivere e, quindi, era meglio fuggire in fretta. Non so perché, né
quando precisamente, questi sentimenti di odio e rancore verso me stessa e il
mondo intero abbiano smesso di pervadermi. Penso che, questo, sia successo
nell’istante in cui l'ho voluto e chiesto. Quando io ho scelto di
mettere in pratica le mie prediche: la vita è bella, è gioia, è amore. La vita
è debole, e va difesa. Quando ho deciso di difendermi, ho smesso di odiarmi.
Non che ora mi voglia bene per davvero: tante cose ancora non accetto e non mi
perdono. Però (anche se subito non concretamente, perché passai i seguenti due
anni a vomitare e tagliarmi) è stata quella mia scelta, a cambiare tutto:
decisi di darmi una possibilità. Di provare a essere protagonista di una vita,
non di un film tragico. Decisi che, forse, anche io avrei potuto vivere. E
sarebbe stato difficile, per una debole e fragile come me, ma “io sono
coraggiosa. E il vero coraggio è vivere”. Sarà che da sempre cresco a
‘latte e fantasy’, perché tutte le storie di eroi che nulla avevano di speciale
se non la «voglia di vivere nel mondo» (mi riferisco a Tolkien e i suoi
Hobbit), mi hanno dato quell'amore per il coraggio che, io, ho deciso di
far prevalere sull'attrazione per il macabro, il tragico, la disperazione. E
non è che oggi, dopo tutto quello che ho vissuto sono diventata forte e ‘nulla
potrà più ferirmi’. È esattamente il contrario: sono diventata ancora più
fragile. Un vaso rotto rimane un vaso rotto, anche quando i cocci sono
aggiustati così bene che le crepe non si notano più. Il vaso rimane comunque
più fragile e, se prima era una caduta a romperlo, adesso può essere solo un
tocco un po’ brusco. Ecco, io sto imparando ad essere questo vaso così fragile,
ad accettare che persino un filo di vento potrà frantumarmi ora. I pezzi del
vaso, però, rimarranno. E, di questo sono pienamente convinta, ci sarà sempre
qualcuno che rimetterà assieme quei cocci. Sempre. Anche quando scriviamo o ci
diciamo che questa è la volta buona, che - finalmente, a nostro sentire -
stiamo diventando polvere… arriva qualcuno o qualcosa che (pare per magia)
ricostruisce quel vaso e lo fa bello, ancora più bello di prima. E più sei
bello più ami le cose belle. Ora, io mi amo così: come cocci di vaso tenuti
assieme da una colla d'oro, che fa risplendere le ferite e a tutti fa dire:
“sei più bello di quando eri perfetto: ora brilli!”. Il trucco, per me, è
proprio dirmi che sono meravigliosa non 'nonostante' le mie debolezze, ma
'proprio per' le mie debolezze. Quelle sensibilità che mi permettono di
rompermi e venire ricostruita, più bella e brillante di prima. D'altronde «la
tua debolezza è la tua forza» (citando un tale di nome Gesù). È un po' così che
sono guarita dai disturbi alimentari: ho smesso di lottare contro una me stessa
debole e malata e ho iniziato ad ascoltare ciò che quella ragazza spaventata -
e spaventante - chiedeva. Ho iniziato a dare la mia fiducia alla gente, finché
ho scoperto che davvero di tanta gente ci si può fidare, che davvero chi è
disposto (e capace) ad aiutarti c'è. E ho scoperto, così, che crescere (ho
sempre avuto il terrore di crescere) non è poi così male; che il diventare
donna- testa e fisico - è meraviglioso. Anche perché, i bambini per quanto
disarmino nella loro semplice spontaneità (sono le persone per cui ho deciso di
darmi ‘quella’ possibilità), non tutti sono disposti, né capaci di ascoltarli:
un adulto è più credibile, per qualsiasi cosa voglia dire (e io ho sempre avuto
molto da dire). Così ho deciso di dire qualcosa, con questo testo, senza una
meta precisa. Ma, come da sempre, scrivere è scoprirmi: tirare fuori qualcosa
che era celato alla mia mente. E grazie a queste righe, alla fine, sono
arrivata a concludere che davvero sono sempre stata io la protagonista
di tutto ciò che mi è successo e riesco a vedere, adesso concretamente, ciò che
da un anno frulla nella mia testa: che i disturbi alimentari, sono un oscuro
mondo, in cui io non vivo più.
Simona Valcarenghi