giovedì 7 luglio 2016

Da "Mi nutro di parole" : Pensando

“Una volta l’aereo mi terrorizzava, ora non più, qualche volta ho desiderato che cadesse. Per finire un incubo, un incubo che non finisce. Una morte lenta, una morte quotidiana, una tortura. Vedere la propria morte come una liberazione, questo è un sentimento recente. Ora vivo alla giornata, non ho più progetti né tempo per me, il mio è un tempo “dedicato” e mi sento in galera. Un tempo scandito da gesti ripetuti, incombenze da assolvere. Mi chiedo spesso se questo può avere un senso e una utilità di qualche tipo, la risposta non mi viene da nessuno, devo cercarmela. Ora capisco meglio i barboni, i nullafacenti, quelli che ogni giorno è un giorno da inventarsi, penso che questo può anche avere il suo lato creativo, mi sforzo a pensarlo. Tutti, psichiatri, psicoterapeuti si affannano a togliermi i sensi di colpa, la colpa non è la tua, la colpa non è di nessuno, le cose succedono al di là delle colpe. Eppure qualcosa di storto devo aver fatto, tutta quella energia che avevo e tutta quella bellezza e forza, credevo che in qualche modo passasse come il sangue e i geni da me a mia figlia, quella mia forza che volevo diventasse la sua forza. Non è stato così. Alle volte sono di pessimo umore e senza speranza, altre volte riesco ad emozionarmi per una frase letta in un libro, per una canzone, per un tramonto e allora scopro di amare la vita. Ho bisogno di leggerezza, mi piace ridere, non ho abbandonato la capacità di ironizzare su di me e sul mondo e questa mi sembra una ricchezza, una cosa non persa, forse una cosa guadagnata. La mia schiena che l’anno scorso non reggeva più l’ho rieducata a reggere ancora il peso del mio corpo e con un rigore tedesco faccio movimento, ginnastiche mirate, non voglio soccombere e la mia schiena oggi è migliorata, mi piace camminare e sentire ancora i muscoli che rispondono ai movimenti. Mi sono sentita sola in certi momenti, esiliata ad una vita cupa, triste, ma gli altri c’erano, eccome se c’erano, ma erano lontani, io vivevo il mio dramma, da sola. Il dolore ripulisce dagli orpelli, ti permette di vedere tutto più chiaro, più pulito e più sintetico. Il dolore ti unisce a chi soffre, non ci sono più affinità culturali o di classe o politiche o di età, il dolore ti permette di specchiarti negli occhi degli altri.”


A rileggere queste cose, scritte 4 anni fa circa, mi viene una gran pena per me e per quello che ho vissuto in 11 anni di malattia di mia figlia. Un'altalena di emozioni forti, momenti carichi di angoscia e altri di speranza. Sono cambiata. Sono diventata un'altra persona. Ora sono più forte, mia figlia sta affrontando un percorso lungo e pieno di trappole, ma è più matura, è più consapevole e riesce meglio a tenere a bada i suoi malumori, ha un maggiore controllo sulla sua malattia. Ha ripreso a mangiare, forse riuscirà a trovare un equilibrio, anche nel mangiare. Con lei ho un rapporto forte, voglio fare tutto quello che posso per aiutarla, voglio vederla vivere in un modo “possibile”, poi potrò anche morire, ma dopo aver fatto tutto quello che si deve fare, che si può fare. Nel mentre cerco di vivere, faccio lunghe camminate, vedo posti bellissimi che mi riempiono la vista e l'anima, mi tengo in forma. Il corpo forte e allenato serve alla mia mente, mi rassicura e allontana i pensieri di morte. Ce la faremo.

Elisabetta Manca                                              



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