giovedì 26 ottobre 2017

La storia di Serena - parte 2


Il paradosso di questa malattia è che più scompari più ti guardano. Questo mi ha sempre affascinato. Mi divertivo quando tornavo a casa per il week end e in metropolitana mi guardavano con paura mista a tenerezza ed imbarazzo (ehi, non è contagiosa l'anoressia, tuttalpiù prendetela per mano ed imparate a conoscerla).
Furono tre mesi di ricovero inutile, almeno per me, in cui persi altri 4 kg fino ad arrivare a 37 e lì scattarono le pressioni psicologiche. Vedevo altre ragazze venir congedate dopo un mese, felici di aver ripreso a mangiare, ingrassate - per così dire- in modo sereno. Altre ci impiegavano un po' di più. Altre come me, non ci riuscirono. 
I miei reni erano compromessi, ero a rischio dialisi perché non mangiavo e non bevevo, il ciclo mestruale ormai era solo un vago ricordo, mi dissero che avrei anche rischiato di non avere più figli. Mi riempirono di flebo di glucosio, mi minacciarono col sondino nasogastrico se fossi calata anche solo di un altro kg. Ma poi scadendo i 3 mesi di ricovero fui dimessa, perché guarita o non guarita, avevano diritto anche altri malati a prendere il mio posto...per provare a salvarsi. Tornai a casa in condizioni peggiori di prima, non avevo più vene dove potesse attaccarsi un ago, non avevo più tono muscolare, non avevo più forze ed io mi sentivo ancora più impotente dopo un tentativo di ben 3 mesi fallito. I miei non mi volevano a casa, mia madre non era in grado di gestire la sofferenza di una figlia che stava decidendo in modo cosciente di morire giorno per giorno, i miei fratelli volevano vivere in una famiglia normale. Continuai tuttavia le mie sedute dallo psichiatra del centro di ricovero per alcuni mesi finché ci suggerì di trovare un'altra soluzione perché così non potevo stare. Passarono alcuni mesi a casa, finchè finalmente i miei genitori trovarono un altro centro, stavolta in provincia di Verbania e lì ci finii per un mese, lontano da tutti. Il protocollo prevedeva solo un mese e in tutto il centro eravamo solo 3 anoressiche, sparse in piani diversi dell'ospedale affinché non ci si potesse neanche incrociare. La cosa mi dava sollievo. Tutto il resto della struttura era costituita da pazienti affetti da obesità, disturbi alimentari opposti ai miei ed era uno spasso parlare con loro, perché spesso sapevano prendersi in giro, sebbene a volte anche loro piangevano ed erano arrabbiati col loro corpo. Ma non c'era competizione, anzi, io ero lo scricciolo di tutti, ero trattata da tutti gli altri pazienti con tenerezza e premurosità. Nonostante il clima lì dentro fosse meno teso le cose non cambiarono, anzi, calai altri kg così arrivarono i sondini di emergenza, nuovi farmaci, psicoterapia ed esami su esami dai nomi più strani. Ero arrabbiata, non c'era modo di farmi far pace con me stessa. Uscii da lì che ero 35kg. Alzarono le mani anche loro, non erano in grado di fare altro.  Ero inquieta, sola, disperata, impaurita da me stessa. 
E così dopo il congedo tornai a casa dove tutti notarono il peggioramento fisico.
Capii che non sarebbe mai cambiato nulla, la preoccupazione era il mio peso, non ciò che stava dietro al mio peso, e sì che ero così trasparente che volendo si potevano leggere dentro i miei pensieri se mi si metteva in controluce. Capivo che sarebbe stato duro il rientro a casa in quelle condizioni. Mi sentivo un pacco da spedire, ma che immancabilmente ritornava al mittente. 
Fu così che presi finalmente in mano le redini. A settembre ripresi la scuola dopo un anno passato a giocare a ping pong tra ricoveri e momenti di attese. 
E nel riprendere gli studi ci fu un incontro provvidenziale con uno psicologo che tenne un convegno sull’anoressia proprio nella mia scuola. Chiesi ai miei di partecipare, tutti insieme. Fu amore a prima vista. Riconobbi nelle sue parole tutta me stessa . Era come se nel suo parlare ci fossi stata io e le parole che non riuscivo ad esternare . Mi sentivo compresa benché fossi una tra tante nel pubblico . Ma era come se lui stesse parlando con me, di me. Il giorno seguente chiesi informazioni in segreteria e mi feci dare il suo numero di telefono. Io volevo lui . Volevo guarire con lui, ed era una mia scelta, per una volta fu davvero una scelta solo mia e di nessun altro. Presi contatto con lui, ci furono dei primi incontri con i miei genitori, poi iniziai io da sola. Fu un percorso che durò più di un anno, ogni benedetta settimana prendevo un permesso per uscire prima da scuola, prendere il treno, poi due metropolitane per arrivare nel suo studio in centro, parlare, piangere, non dire niente a volte, e in quel niente c'era sempre tanto, e poi tornare a casa la sera stremata. Finalmente avevo trovato la mia strada. Perché ogni malata ha le sue vie di guarigione, siamo tutte magre ma siamo tutte diverse dentro la nostra magrezza, e come ho visto guarire persone nel mio primo ricovero, così io man mano sono guarita un anno dopo, con della semplice - si fa per dire- psicoterapia, dove ho scavato nel mio passato, nei miei pensieri più imbarazzanti, nei conflitti famigliari con mia madre, nei piccoli traumi che ognuno di noi vive nell'arco della propria vita ma rielabora a modo suo. E' stato un percorso non sempre in discesa, ma nei momenti più difficili dove cadevo in tentazione e magari perdevo qualche etto, vedendo che al mio psicologo non interessava affatto del mio peso, mi sentivo finalmente non un corpo ma semplicemente Serena. Con lui non parlai mai di kg, bilance, cibi, digiuni, ma solo di amore, di paure, di rabbie, di insicurezze, desideri, strade fatte e strade non scelte, del passato, del presente, di mamma, papà, di chi era Serena. 
Le cose man mano si sistemarono, con non poche difficoltà perché nonostante nelle sedute di psicoterapia io iniziavo a capirci qualcosa, non appena tornavo a casa il mondo crollava perché i miei non vedevano risultati tangibili (il mio aumentare di peso, per intenderci). Non capivano che quello sarebbe arrivato dopo, che a volte è anche necessario parlare alla propria malattia, vederla come un'amica, anche solo per un attimo, accarezzarla per poi far pace e lasciarla libera di andare. Non sono cose che si risolvono in una manciata di mesi, specie se la malattia è presente già da tempo. Io forse non son stata "presa in tempo", forse ho fatto outing quando era già tardi per molte cose, ma non è mai troppo tardi finché si è vivi e finché si ha la voglia di cambiare. Ho fatto pace con la mia malattia attorno ai 20 anni, nel frattempo mi sono diplomata, sono andata via da Milano, ho trovato un lavoro, poi un altro, poi un altro ancora, mi sono re-inventata un sacco di volte e ogni tanto non nego che la mia ex co-inquilina torna a trovarmi con discrezione. Ma io ormai la conosco bene, e per questa ragione la tengo un po' con me, come si fa con dei vecchi amici che non vedi da tempo ed ospiti a casa tua per qualche giorno. Ci parliamo, mi chiedo il perché della sua visita proprio nei momenti più bui della mia vita, dopo essermi separata dal mio compagno, dopo un periodo turbolento al lavoro, dopo aver perso mia madre di tumore. Sì, l'anoressia se ne è andata ma ogni tanto passa a farmi un saluto ed io cordialmente la invito a fare quattro chiacchiere, e poi le dico che è ora di tornare al suo posto, a casa sua
Nessuno è infallibile, mentirei a dire che non mi fa più paura questa malattia, ora che ho 33 anni, una famiglia, un figlio di 7 anni, e un sacco di responsabilità. Però ho imparato che le paure vanno prese per mano, vanno fatte parlare, bisogna imparare a volerle bene e senza aver fretta imparare anche a concedersi di essere imperfetti. Non è facile ammetterlo, sopratutto a se stessi, perché viviamo in una società che chiede sempre troppo, e sempre il meglio. Ma se imparassimo a fermarci un attimo e parlare a noi stessi, ai nostri piccoli fantasmi, questi smetteranno di essere fantasmi, assumeranno una propria identità ben definita e per questo motivo vivranno di vita propria e andranno altrove...a farsi la loro vita...lasciandoci vivere la nostra. 

Serena Gambuto

--- leggi anche "La storia di Serena - parte 1" ---

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