Il
paradosso di questa malattia è che più scompari più ti guardano. Questo mi ha
sempre affascinato. Mi divertivo quando tornavo a casa per il week end e in
metropolitana mi guardavano con paura mista a tenerezza ed imbarazzo (ehi, non
è contagiosa l'anoressia, tuttalpiù prendetela per mano ed imparate a
conoscerla).
Furono
tre mesi di ricovero inutile, almeno per me, in cui persi altri 4 kg fino ad arrivare a 37 e
lì scattarono le pressioni psicologiche. Vedevo altre ragazze venir congedate
dopo un mese, felici di aver ripreso a mangiare, ingrassate - per così dire- in
modo sereno. Altre ci impiegavano un po' di più. Altre come me, non ci
riuscirono.
I
miei reni erano compromessi, ero a rischio dialisi perché non mangiavo e non
bevevo, il ciclo mestruale ormai era solo un vago ricordo, mi dissero che avrei
anche rischiato di non avere più figli. Mi riempirono di flebo di glucosio, mi
minacciarono col sondino nasogastrico se fossi calata anche solo di un altro
kg. Ma poi scadendo i 3 mesi di ricovero fui dimessa, perché guarita o non
guarita, avevano diritto anche altri malati a prendere il mio posto...per
provare a salvarsi. Tornai a casa in condizioni peggiori di prima, non avevo
più vene dove potesse attaccarsi un ago, non avevo più tono muscolare, non
avevo più forze ed io mi sentivo ancora più impotente dopo un tentativo di ben
3 mesi fallito. I miei non mi volevano a casa, mia madre non era in grado di
gestire la sofferenza di una figlia che stava decidendo in modo cosciente di
morire giorno per giorno, i miei fratelli volevano vivere in una famiglia
normale. Continuai tuttavia le mie sedute dallo psichiatra del centro di
ricovero per alcuni mesi finché ci suggerì di trovare un'altra soluzione perché
così non potevo stare. Passarono alcuni mesi a casa, finchè finalmente i miei
genitori trovarono un altro centro, stavolta in provincia di Verbania e lì ci
finii per un mese, lontano da tutti. Il protocollo prevedeva solo un mese e in
tutto il centro eravamo solo 3 anoressiche, sparse in piani diversi
dell'ospedale affinché non ci si potesse neanche incrociare. La cosa mi dava
sollievo. Tutto il resto della struttura era costituita da pazienti affetti da
obesità, disturbi alimentari opposti ai miei ed era uno spasso parlare con
loro, perché spesso sapevano prendersi in giro, sebbene a volte anche loro
piangevano ed erano arrabbiati col loro corpo. Ma non c'era competizione, anzi,
io ero lo scricciolo di tutti, ero trattata da tutti gli altri pazienti con
tenerezza e premurosità. Nonostante il clima lì dentro fosse meno teso le cose
non cambiarono, anzi, calai altri kg così arrivarono i sondini di emergenza,
nuovi farmaci, psicoterapia ed esami su esami dai nomi più strani. Ero
arrabbiata, non c'era modo di farmi far pace con me stessa. Uscii da lì che ero
35kg. Alzarono le mani anche loro, non erano in grado di fare altro. Ero
inquieta, sola, disperata, impaurita da me stessa.
E
così dopo il congedo tornai a casa dove tutti notarono il peggioramento fisico.
Capii
che non sarebbe mai cambiato nulla, la preoccupazione era il mio peso, non ciò
che stava dietro al mio peso, e sì che ero così trasparente che volendo si
potevano leggere dentro i miei pensieri se mi si metteva in controluce. Capivo
che sarebbe stato duro il rientro a casa in quelle condizioni. Mi sentivo un
pacco da spedire, ma che immancabilmente ritornava al mittente.
Fu
così che presi finalmente in mano le redini. A settembre ripresi la scuola dopo
un anno passato a giocare a ping pong tra ricoveri e momenti di attese.
E
nel riprendere gli studi ci fu un incontro provvidenziale con uno psicologo che
tenne un convegno sull’anoressia proprio nella mia scuola. Chiesi ai miei di
partecipare, tutti insieme. Fu amore a prima vista. Riconobbi nelle sue parole
tutta me stessa . Era come se nel suo parlare ci fossi stata io e le parole che
non riuscivo ad esternare . Mi sentivo compresa benché fossi una tra tante nel
pubblico . Ma era come se lui stesse parlando con me, di me. Il giorno seguente
chiesi informazioni in segreteria e mi feci dare il suo numero di telefono. Io
volevo lui . Volevo guarire con lui, ed era una mia scelta, per una volta fu
davvero una scelta solo mia e di nessun altro. Presi contatto con lui, ci
furono dei primi incontri con i miei genitori, poi iniziai io da sola. Fu un percorso
che durò più di un anno, ogni benedetta settimana prendevo un permesso per
uscire prima da scuola, prendere il treno, poi due metropolitane per arrivare
nel suo studio in centro, parlare, piangere, non dire niente a volte, e in quel
niente c'era sempre tanto, e poi tornare a casa la sera stremata. Finalmente
avevo trovato la mia strada. Perché ogni malata ha le sue vie di guarigione,
siamo tutte magre ma siamo tutte diverse dentro la nostra magrezza, e come ho
visto guarire persone nel mio primo ricovero, così io man mano sono guarita un
anno dopo, con della semplice - si fa per dire- psicoterapia, dove ho scavato
nel mio passato, nei miei pensieri più imbarazzanti, nei conflitti famigliari
con mia madre, nei piccoli traumi che ognuno di noi vive nell'arco della
propria vita ma rielabora a modo suo. E' stato un percorso non sempre in
discesa, ma nei momenti più difficili dove cadevo in tentazione e magari
perdevo qualche etto, vedendo che al mio psicologo non interessava affatto del
mio peso, mi sentivo finalmente non un corpo ma semplicemente Serena. Con lui
non parlai mai di kg, bilance, cibi, digiuni, ma solo di amore, di paure, di
rabbie, di insicurezze, desideri, strade fatte e strade non scelte, del
passato, del presente, di mamma, papà, di chi era Serena.
Le
cose man mano si sistemarono, con non poche difficoltà perché nonostante nelle
sedute di psicoterapia io iniziavo a capirci qualcosa, non appena tornavo a
casa il mondo crollava perché i miei non vedevano risultati tangibili (il mio
aumentare di peso, per intenderci). Non capivano che quello sarebbe arrivato
dopo, che a volte è anche necessario parlare alla propria malattia, vederla
come un'amica, anche solo per un attimo, accarezzarla per poi far pace e
lasciarla libera di andare. Non sono cose che si risolvono in una manciata di
mesi, specie se la malattia è presente già da tempo. Io forse non son stata
"presa in tempo", forse ho fatto outing quando era già tardi per
molte cose, ma non è mai troppo tardi finché si è vivi e finché si ha la voglia
di cambiare. Ho fatto pace con la mia malattia attorno ai 20 anni, nel
frattempo mi sono diplomata, sono andata via da Milano, ho trovato un lavoro,
poi un altro, poi un altro ancora, mi sono re-inventata un sacco di volte e
ogni tanto non nego che la mia ex co-inquilina torna a trovarmi con
discrezione. Ma io ormai la conosco bene, e per questa ragione la tengo un po'
con me, come si fa con dei vecchi amici che non vedi da tempo ed ospiti a casa
tua per qualche giorno. Ci parliamo, mi chiedo il perché della sua visita
proprio nei momenti più bui della mia vita, dopo essermi separata dal mio
compagno, dopo un periodo turbolento al lavoro, dopo aver perso mia madre di
tumore. Sì, l'anoressia se ne è andata ma ogni tanto passa a farmi un saluto ed
io cordialmente la invito a fare quattro chiacchiere, e poi le dico che è ora
di tornare al suo posto, a casa sua.
Nessuno è infallibile, mentirei a dire che
non mi fa più paura questa malattia, ora che ho 33 anni, una famiglia, un figlio
di 7 anni, e un sacco di responsabilità. Però ho imparato che le paure vanno
prese per mano, vanno fatte parlare, bisogna imparare a volerle bene e senza
aver fretta imparare anche a concedersi di essere imperfetti. Non è facile
ammetterlo, sopratutto a se stessi, perché viviamo in una società che chiede
sempre troppo, e sempre il meglio. Ma se imparassimo a fermarci un attimo e
parlare a noi stessi, ai nostri piccoli fantasmi, questi smetteranno di essere
fantasmi, assumeranno una propria identità ben definita e per questo motivo vivranno
di vita propria e andranno altrove...a farsi la loro vita...lasciandoci vivere
la nostra.
Serena
Gambuto
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