Caro papà,
stamattina, serafico e leggero, hai ribadito che avresti continuato a rimpinzare la dispensa di biscotti e nutella, che chi non ne ha voglia è libero di non mangiarne e che tu non sei come mamma che crede alle mie stupidaggini.
Non ho potuto urlarti contro, le mie energie le ho spese tutte per salvarmi, per risalire dal baratro in cui la vita mi ha buttato. Non ho potuto urlarti contro, il fiato mi serve perché ancora scalo arrampicandomi ad una parete che un giorno mi è amica e l’altro è così friabile che mi ritrovo giù senza il tempo di accorgermene.
Che brava che sono diventata! Ho imparato a indossare uno scafandro da palombaro per proteggermi da persone, parole, occhi, e stupidaggini. Non le mie, ma le tue.
Ho imparato a lasciare andare; quanto è difficile per chi come me non lascia nulla, e tutto gli sembra sempre poco quando c’è da riempire e affogare il vuoto.
C’è una cosa, però, che credo non lascerò andare mai, papà, ed è il momento preciso in cui non mi è rimasto più nulla. Ed è a questo prezioso momento che mi aggrappo forte tutte le volte che mi sento come mi hai fatta sentire tu questa mattina.
Mi manca l’aria, ho un macigno tra l’esofago e la bocca dello stomaco, respiro velocemente. Sono piena, piena di tutto, tutto quello che va molto oltre il consentito ingerire; eppure non mi sento (piena). Lo sono, ma non lo sento. Il mio corpo parla, urla, ma io non sento, non lo sento.
Sono una musicista e sento tanta musica, sono empatica e sento tanto l’altro, ma sono malata di Binge e non sento più nulla di me e del corpo che mi contiene.
È il 3 dicembre. Sola, nella stazione di Roma Termini, con la bocca secca, la testa vuota e la pancia piena di dolore, nel pieno di un’abbuffata senza precedenti,le mie mani tremano; ho caldo, davanti a me, idealmente, la lista di tutte le cose che devo mangiare prima che venga domani (tanto ormai…), eccitata e disattenta a tutto ciò che c’è intorno, penso che ho toccato il fondo. In una città che non è la mia, dopo aver fatto una cosa bella, mi domando come sia stato possibile arrivare a tanto.
Cinque minuti prima, nell’intento compulsivo di comprare delle patatine, di cui proprio non avevo voglia, mi ero messa in fila per la cassa, facendo per indietreggiare di pochi centimetri (non ricordo perché) ero inciampata in un trolley che una signora aveva stupidamente lasciato dietro di me. Inutili le sue scuse, mi ero scagliata con violenza inveendo contro di lei “È un’idiota! Ma come le salta in mente?!”. Per poi riporre le patatine sullo scaffale scappando via come una ladra.
L’ho sempre detto: io sono dentro e fuori di me allo stesso tempo, se perdo il controllo e faccio cose impulsive c’è una parte di me lucida.
Immobile, silente, ma lucida.
E in quel momento quella fuori di me sapeva bene che ad urlare erano la rabbia e il disgusto verso me stessa e la mia voglia inarrestabile di mangiare senza nemmeno sentire che stavo iniziando a sentirmi male.
Tra la gente ignara, le luci tristi, l’odore nauseabondo dei freni tirati, le gambe bollenti, pruriginose, dilatate nei leggins, la consapevolezza di avere aggiunto un altro ricordo grigio alla mia storia, ho solo voglia di urlare, di essere salvata.
Non ho voglia di mangiare, ma ne ho bisogno.
In una vita senza disturbo dovrebbe essere il contrario.
Ecco papà, se solo riuscissi a sentire per un attimo le orribili sensazioni di quel momento,non avresti bisogno di rimpinzare la dispensa di dolci per togliermi l’amaro di bocca… né dalla vita.
A. L. P.