lunedì 12 ottobre 2020

Riprendersi la propria vita - Laboratorio 7 ottobre 2020

Il laboratorio di stasera ha ripreso l’argomento della paura che provano i genitori quando vivono un disturbo alimentare all’interno del contesto familiare. È emersa nuovamente la richiesta di aiuto su come affrontare quei timori che sorgono quando i propri figli tornano a casa dopo un percorso intrapreso in una struttura residenziale. Spesso si prova la paura di sbagliare insieme al desiderio di voler proteggere ulteriormente la propria figlia o figlio dalla sofferenza che la malattia porta con se’. Questo atteggiamento protettivo ovviamente non aiuta perché, come ha commentato una mamma, l’altra persona si sente come una bambola di porcellana ultra delicata e fragile. Si finisce così col vivere come se si camminasse sulle uova, sempre con quel timore di fare il passo sbagliato che genera tensione e ansia. Allora che cosa bisogna fare affinché si riesca a gestire meglio queste paure? Una mamma ha condiviso la sua recente esperienza in cui, grazie a un lavoro personale su se stessa, sta cercando di lasciare meno spazio alle proprie ansie cercando di prestare molta attenzione a distinguere e differenziare la malattia dalla persona. Questo la aiuta a ridimensionare gli eventi, ritrovando la calma e la capacità di gestire le sue emozioni, a beneficio della comunicazione e della relazione con la propria figlia. Tutto ciò ci ha riportato a riflettere e a constatare concretamente come sia possibile ritrovare quel profondo canale comunicativo che si è instaurato fin dalla nascita con i propri figli che rappresenta un nutrimento essenziale per vivere.
Un canale comunicativo in cui è fondamentale che ci sia anche la figura paterna in quanto il rapporto tra padre e figlia o figlio è essenziale per lo sviluppo e la crescita della persona, e proprio per questo non può essere trascurato.
Come è stato evidenziato dal laboratorio precedente, il genitore non deve trasformarsi in un terapeuta, così come la casa non deve diventare una struttura residenziale in cui vige il controllo e imperano le dinamiche della malattia. Al contrario, la casa deve essere il luogo in cui si ritrovano i propri affetti, i propri legami che possono essere liberati dalla gabbia che la malattia ha costruito tutto intorno a se’. Per farlo, è necessario recuperare il proprio ruolo genitoriale, abbandonando tutti quei sensi di colpa che accompagnano i genitori nel pensare di agire sempre nel modo sbagliato. Ci sono momenti della malattia che portano la persona che ne è affetta a non recepire nessun consiglio, nessun gesto, nessuna attenzione. Questo accade perché la persona quando si trova in questa fase non permette a nessuno di avvicinarsi a lei, inducendo l’altro a credere di sbagliare tutto. Ma non è così. Ogni cosa detta o fatta, anche se non viene ascoltata e recepita sul momento, rimane impressa nella memoria. Anzi. Come hanno rivelato le testimonianze di persone che sono guarite dal disturbo alimentare, in loro è ben vivido ancora adesso tutto quello che i loro genitori hanno fatto, consapevoli di quanto la malattia abbia invaso anche la stessa esistenza dei propri familiari.
È poi emerso il concetto della dipendenza legata al disturbo alimentare. Se da una parte si ha un vuoto interiore che necessita di essere riempito attraverso un uso spasmodico di cibo che anestetizza il dolore, dall’altra parte si ha un vuoto interiore che ha congelato ogni emozione e sentimento con l’illusoria sensazione di avere il controllo su ogni cosa. In entrambi i casi si sta cercando di rimediare a una sofferenza interna di cui il disturbo alimentare non è che la punta dell’iceberg. Il problema reale non è il cibo quanto il dolore che la persona prova e dalla quale cerca di proteggersi attraverso la malattia. Una malattia che non dimentichiamo, nelle fasi iniziali attraversa un momento di vero innamoramento del disturbo e che di fatto viene chiamata la fase di luna di miele. In questo periodo la persona finisce con l’identificarsi con la malattia tanto da non riuscire più a riconoscersi senza di essa. Per questo è necessario affrontare un percorso terapeutico in quanto serve andare a smantellare questa identità malata per costruire una nuova  identità basata su basi nuove, stabili, autonome.
Il genitore può essere di aiuto durante questo percorso riappropriandosi a sua volta del suo ruolo genitoriale e soprattutto ritornando a vivere la propria vita. Che non vuol dire dimenticarsi della propria figlia o figlio. Tutt’altro. Significa ritrovare quegli spazi propri in cui prendersi cura di se stessi o semplicemente di rilassarsi o svagarsi, poiché il dono più grande che possiamo fare a noi stessi e ai nostri figli è riprendere in mano la nostra vita.
Emozionante la testimonianza di una ragazza che ha condiviso il ricordo della malattia vissuta anche dalla parte del suo fidanzato il quale non si è mai lasciato manipolare dal disturbo alimentare ponendo di fatto molti paletti che in qualche modo le sono serviti per reagire. Grazie anche a questi, un giorno ha deciso di voler accompagnare il suo fidanzato a cena fuori, così si è preparata con cura, vestendosi tutta carina. Quel giorno, ha ricordato che la psicologa con la quale aveva parlato le aveva detto che oramai, dato che il suo disturbo era cronico, il suo destino non poteva che essere altro che andare in cura presso il servizio di salute mentale. Una volta seduta al ristorante, si è guardata intorno e ha visto che le persone vicino a lei erano serene e “normali”. In quel momento le sono tornate in mente le parole della psicologa e improvvisamente si è come rotto il ghiaccio vicino al suo cuore: anche lei era come quelle persone “normali” e non da salute mentale. In quel momento, ha cominciato a riprendersi la sua vita.


La parola della settimana è: RIPRENDERSI LA PROPRIA VITA.

 

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