martedì 6 luglio 2021

Laboratorio del 29 Giugno ACCOGLIERE , ADDENTRARSI , CONDIVIDERE ...PER METTERSI IN GIOCO E ANDARE AL DI LA' DEL PROPRIO VEDERE .

 Stasera il laboratorio ha toccato tanti punti che poi si sono intrecciati tra le varie storie dando 

forma e contenuto a una serata molto ricca e preziosa vista da diverse prospettive. Siamo in 

estate, e sappiamo che questa è una stagione molto complessa per chi soffre di una malattia del 

comportamento alimentare. Una ragazza ha condiviso i suoi ricordi legati alle tante estati vissute 

in presenza con la malattia. La spiaggia, il mare, che per lei erano sempre stati sinonimo di libertà 

e spensieratezza, d’un tratto si erano trasformati nel luogo più inavvicinabile. La sensazione di 

paura mista a vergogna nell’esibire un corpo che sentiva estraneo e non amato. Il confronto con le 

altre ragazze. La gioia e le risate di coloro che si divertivano mentre lei provava l’irrefrenabile 

desiderio di sparire, essere invisibile da tutto e da tutti. Sono passati tanti anni dalla sua 

guarigione dalla malattia, eppure ancora è ben impresso in lei il ricordo di quella volta in cui, 

arrivata in spiaggia e pronta a starsene per ore sdraiata al sole, all’improvviso ha provato un forte 

senso di solitudine con una sensazione di vuoto alienante che le era impossibile da gestire. Così 

si rivesti’ in fretta e furia per scappare a casa e riempire quel vuoto nell’unico modo a lei 

conosciuto in quel momento, con la malattia. Quell’episodio ha dato l’inizio ad una serie di clic, 

perché se fino a quel momento lei credeva che bastasse allontanarsi dalle mura domestiche per 

saper controllare le dinamiche della malattia, si era resa conto che non era così. Questo fatto la 

spavento’ molto perché improvvisamente aveva realizzato di essere caduta in un qualcosa che 

era molto più grande di lei e difficile da contenere. Oggi, a distanza di molti anni, ogni volta che le 

giornate cominciano ad allungarsi, sorge in lei una sottile rimembranza di quel senso di 

annichilimento provato quella volta in spiaggia. Come una sorta di memoria impressa dentro di lei. 

Un qualcosa che non ha una valenza prettamente negativa ma anzi, le ricorda quanto l’aver 

imparato a stare in quel vuoto l’abbia resa oggi capace di accogliere le sue emozioni, belle o 

brutte che siano. 

 Una mamma ha riportato che sua figlia non vuole andare al mare perché odia mostrarsi in 

costume e nemmeno in montagna perché ha paura di incontrare altre persone. Come se volesse 

proteggersi dal contatto con l’esterno. E allora forse è giusto stare a casa? Ovviamente non 

possono esserci risposte dirette poiché ogni situazione va sempre valutata rispetto al contesto in 

cui si manifesta. È chiaro che le paure di questa ragazza non possono essere ignorate, ma è 

anche vero che la famiglia non può restare barricata in casa rinunciando alla vacanza. Se il mare 

rappresenta forse il luogo più difficile da gestire dato il coinvolgimento con il rapporto col proprio 

corpo, alcuni giorni in montagna possono essere una soluzione ideale. Soluzione che deve però 

essere presa insieme alla propria figlia, per renderla partecipe e soprattutto per darle la possibilità 

di esprimere le sue emozioni e desideri.

 Un’altra mamma ha raccontato della sua recente vacanza organizzata insieme al marito. Come 

era prevedibile la figlia maggiorenne, che era rimasta a casa, ad un certo punto ha telefonato ai 

genitori e ha cercato di farli sentire in colpa, riuscendoci solo in parte, poiché entrambi, marito e 

moglie, hanno saputo allearsi e sostenersi a vicenda dall’attacco ricevuto.

 Un’altra mamma ha voluto esporre una problematica che dovrà affrontare a settembre 

riguardante il percorso di cura della figlia che sta avvenendo in un centro ambulatoriale della sua 

regione. I dottori l’hanno già avvisata che, siccome il percorso terapeutico sta avendo progressi 

positivi, a fine estate la figlia non verrà più seguita così da lasciare il posto a coloro che sono in 

lista di attesa. Questo ovviamente ha gettato nell’ansia e preoccupazione questa mamma perché, 

anche se la cura sta effettivamente dando buoni risultati, non può essere interrotta 

improvvisamente, soprattutto quando parliamo di una malattia del comportamento alimentare, 

poiché sappiamo quanto queste fasi siano delicate e importanti nel processo di guarigione. 

 Un’altra mamma è intervenuta dicendo che in un qualche modo sta vivendo una situazione simile 

anche se a ruoli invertiti. Ovvero, i terapeuti sono disposti a continuare la cura con la figlia 

maggiorenne, la quale, dopo un periodo di ricovero in struttura, ha paura a proseguire la terapia. 

La madre ha cercato di spronarla, per stimolarla a non rinunciare. Di rimando però si è sentita 

rispondere dalla psicoterapeuta di lasciare che sia la figlia a prendere la decisione. Questo ha 

creato ansia e confusione in questa mamma perché sa benissimo che se non interviene lei, la 

figlia abbandonerà qualsiasi iniziativa. 

Questa tematica ha aperto un confronto importante tra i genitori del laboratorio: “ quanto i familiari 

devono restare ai margini della cura dei figli che soffrono di una malattia del comportamento 

alimentare ”? È un argomento complesso e per certi versi difficile da definire. Oggi sappiamo che i 

genitori sono una risorsa all’interno del processo di cura. È impensabile infatti avviare un percorso 

terapeutico di una malattia del comportamento alimentare senza coinvolgere anche la famiglia. 

 Una mamma ha raccontato che nel centro che sta seguendo sua figlia, i genitori non possono 

ricevere alcuna informazione sull’andamento della cura. È chiaro che lo psicoterapeuta non può 

assolutamente riferire i contenuti che avvengono all’interno del setting terapeuti.

Questo è infatti un luogo protetto in cui la persona deve sentirsi libera di riportare tutto ciò che emerge in 

lei, sicura che niente verrà trapelato al di fuori di quel contesto. Se questo dovesse avvenire, ne 

pregiudicherebbe la continuità della terapia stessa rompendo definitivamente l’alleanza costruita 

tra lo psicoterapeuta e il paziente. 

 Però è anche vero che un genitore non può essere tenuto all’oscuro sulla malattia del 

comportamento alimentare del proprio figlio o figlia. Come non può non essere sostenuto dalle 

inevitabili emozioni di ansia, paura e preoccupazione che sorgono. Laddove poi si vengono a 

manifestare dinamiche che richiedono una rielaborazione, diviene importante iniziare una terapia 

familiare che permetta di coinvolgere e far interagire tra loro figli e genitori attraverso la presenza e 

la guida del terapeuta. È evidente che tale modalità richiede risorse sia a livello di personale che a 

livello economico che scarseggiano all’interno del sistema sanitario nazionale. E quindi è facile 

che ci si focalizzi prevalentemente solo sulla presa in carico della persona che riporta il sintomo, 

lasciando la famiglia spesso abbandonata a se stessa. Non perché non si voglia coinvolgere i 

genitori nel percorso terapeutico, ma perché mancano le risorse necessarie. Tutto ciò ricade 

negativamente sugli esiti della cura stessa. Il discorso poi si complica ulteriormente quando i figli 

sono maggiorenni perché allora la famiglia difficilmente viene interpellata. Ma se ci riflettiamo, è 

impensabile credere di poter affrontare una malattia del comportamento alimentare senza 

conoscere la storia e le dinamiche familiari. Anche se queste possono essere raccontate dalla 

persona presa in carico, la terapia ha comunque il compito di andare a sciogliere i vari nodi che si 

sono creati all’interno di quel sistema familiare e per farlo, occorre andare a tirare entrambi i lembi, 

e non solo uno, altrimenti il nodo rimane ingarbugliato.

 Un papà ha riportato la sua difficoltà a trovare l’appoggio del medico di famiglia nel trovare una 

soluzione alla bulimia della figlia. Nonostante si conoscano i danni organici che una tale malattia 

comporta, il medico gli ha risposto che se la figlia non vuole intraprendere alcun percorso 

terapeutico, lui non può fare nulla. E purtroppo sappiamo che è così. Non si può costringere una 

persona alla cura se questa la rifiuta. Ma sappiamo anche che spesso chi soffre di una malattia 

del comportamento alimentare non è consapevole di essere malato. E allora cosa bisogna fare? 

Come abbiamo già accennato in altri laboratori, occorre andare a creare percorsi alternativi che 

passano attraverso le emozioni. Può essere utile cercare di coinvolgere i figli o le figlie in situazioni 

che li fanno stare bene; ad esempio, lo stare a contatto con la natura, leggere, fotografare, stare 

con gli animali...Questo fa sì che le emozioni positive possano emergere e far percepire loro una 

sensazione di benessere che può spronarli a cercare di vivere quella sensazione piacevole anche 

in altre circostanze. Va sottolineato che questo non vuol dire che il genitore debba diventare il 

terapeuta dei propri figli. Vuol dire al contrario andare a porre cura e attenzione al dialogo e alla 

comunicazione. Nutrire il desiderio di conoscere meglio i propri figli. Aiutarli a esprimere ciò che 

sentono, desiderano, a cui aspirano. Ci rendiamo conto però che se un genitore è carico già di 

suo di quello che la malattia gli getta addosso, difficilmente vorrà approfondire la comunicazione, 

il dialogo, lo stare vicino. Perché ogni cosa viene intrisa dal peso della malattia. Ecco allora che si 

può incominciare da se stessi. Come? Ad esempio attraverso il laboratorio. Questo significa 

mettersi in gioco, e non è così scontato che un genitore lo faccia. Significa voler andare al di là del 

proprio vedere. Significa addentrarsi nel significato di ciò che accade. Significa accogliere il 

proprio mondo interiore. Significa condividere la propria sofferenza.... 

La frase della settimana : ACCOGLIERE , ADDENTRARSI , CONDIVIDERE ...PER METTERSI IN 

GIOCO E ANDARE AL DI LA’ DEL PROPRIO VEDERE .

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