Stasera il laboratorio ha toccato tanti punti che poi si sono intrecciati tra le varie storie dando
forma e contenuto a una serata molto ricca e preziosa vista da diverse prospettive. Siamo in
estate, e sappiamo che questa è una stagione molto complessa per chi soffre di una malattia del
comportamento alimentare. Una ragazza ha condiviso i suoi ricordi legati alle tante estati vissute
in presenza con la malattia. La spiaggia, il mare, che per lei erano sempre stati sinonimo di libertà
e spensieratezza, d’un tratto si erano trasformati nel luogo più inavvicinabile. La sensazione di
paura mista a vergogna nell’esibire un corpo che sentiva estraneo e non amato. Il confronto con le
altre ragazze. La gioia e le risate di coloro che si divertivano mentre lei provava l’irrefrenabile
desiderio di sparire, essere invisibile da tutto e da tutti. Sono passati tanti anni dalla sua
guarigione dalla malattia, eppure ancora è ben impresso in lei il ricordo di quella volta in cui,
arrivata in spiaggia e pronta a starsene per ore sdraiata al sole, all’improvviso ha provato un forte
senso di solitudine con una sensazione di vuoto alienante che le era impossibile da gestire. Così
si rivesti’ in fretta e furia per scappare a casa e riempire quel vuoto nell’unico modo a lei
conosciuto in quel momento, con la malattia. Quell’episodio ha dato l’inizio ad una serie di clic,
perché se fino a quel momento lei credeva che bastasse allontanarsi dalle mura domestiche per
saper controllare le dinamiche della malattia, si era resa conto che non era così. Questo fatto la
spavento’ molto perché improvvisamente aveva realizzato di essere caduta in un qualcosa che
era molto più grande di lei e difficile da contenere. Oggi, a distanza di molti anni, ogni volta che le
giornate cominciano ad allungarsi, sorge in lei una sottile rimembranza di quel senso di
annichilimento provato quella volta in spiaggia. Come una sorta di memoria impressa dentro di lei.
Un qualcosa che non ha una valenza prettamente negativa ma anzi, le ricorda quanto l’aver
imparato a stare in quel vuoto l’abbia resa oggi capace di accogliere le sue emozioni, belle o
brutte che siano.
Una mamma ha riportato che sua figlia non vuole andare al mare perché odia mostrarsi in
costume e nemmeno in montagna perché ha paura di incontrare altre persone. Come se volesse
proteggersi dal contatto con l’esterno. E allora forse è giusto stare a casa? Ovviamente non
possono esserci risposte dirette poiché ogni situazione va sempre valutata rispetto al contesto in
cui si manifesta. È chiaro che le paure di questa ragazza non possono essere ignorate, ma è
anche vero che la famiglia non può restare barricata in casa rinunciando alla vacanza. Se il mare
rappresenta forse il luogo più difficile da gestire dato il coinvolgimento con il rapporto col proprio
corpo, alcuni giorni in montagna possono essere una soluzione ideale. Soluzione che deve però
essere presa insieme alla propria figlia, per renderla partecipe e soprattutto per darle la possibilità
di esprimere le sue emozioni e desideri.
Un’altra mamma ha raccontato della sua recente vacanza organizzata insieme al marito. Come
era prevedibile la figlia maggiorenne, che era rimasta a casa, ad un certo punto ha telefonato ai
genitori e ha cercato di farli sentire in colpa, riuscendoci solo in parte, poiché entrambi, marito e
moglie, hanno saputo allearsi e sostenersi a vicenda dall’attacco ricevuto.
Un’altra mamma ha voluto esporre una problematica che dovrà affrontare a settembre
riguardante il percorso di cura della figlia che sta avvenendo in un centro ambulatoriale della sua
regione. I dottori l’hanno già avvisata che, siccome il percorso terapeutico sta avendo progressi
positivi, a fine estate la figlia non verrà più seguita così da lasciare il posto a coloro che sono in
lista di attesa. Questo ovviamente ha gettato nell’ansia e preoccupazione questa mamma perché,
anche se la cura sta effettivamente dando buoni risultati, non può essere interrotta
improvvisamente, soprattutto quando parliamo di una malattia del comportamento alimentare,
poiché sappiamo quanto queste fasi siano delicate e importanti nel processo di guarigione.
Un’altra mamma è intervenuta dicendo che in un qualche modo sta vivendo una situazione simile
anche se a ruoli invertiti. Ovvero, i terapeuti sono disposti a continuare la cura con la figlia
maggiorenne, la quale, dopo un periodo di ricovero in struttura, ha paura a proseguire la terapia.
La madre ha cercato di spronarla, per stimolarla a non rinunciare. Di rimando però si è sentita
rispondere dalla psicoterapeuta di lasciare che sia la figlia a prendere la decisione. Questo ha
creato ansia e confusione in questa mamma perché sa benissimo che se non interviene lei, la
figlia abbandonerà qualsiasi iniziativa.
Questa tematica ha aperto un confronto importante tra i genitori del laboratorio: “ quanto i familiari
devono restare ai margini della cura dei figli che soffrono di una malattia del comportamento
alimentare ”? È un argomento complesso e per certi versi difficile da definire. Oggi sappiamo che i
genitori sono una risorsa all’interno del processo di cura. È impensabile infatti avviare un percorso
terapeutico di una malattia del comportamento alimentare senza coinvolgere anche la famiglia.
Una mamma ha raccontato che nel centro che sta seguendo sua figlia, i genitori non possono
ricevere alcuna informazione sull’andamento della cura. È chiaro che lo psicoterapeuta non può
assolutamente riferire i contenuti che avvengono all’interno del setting terapeuti.
Questo è infatti un luogo protetto in cui la persona deve sentirsi libera di riportare tutto ciò che emerge in
lei, sicura che niente verrà trapelato al di fuori di quel contesto. Se questo dovesse avvenire, ne
pregiudicherebbe la continuità della terapia stessa rompendo definitivamente l’alleanza costruita
tra lo psicoterapeuta e il paziente.
Però è anche vero che un genitore non può essere tenuto all’oscuro sulla malattia del
comportamento alimentare del proprio figlio o figlia. Come non può non essere sostenuto dalle
inevitabili emozioni di ansia, paura e preoccupazione che sorgono. Laddove poi si vengono a
manifestare dinamiche che richiedono una rielaborazione, diviene importante iniziare una terapia
familiare che permetta di coinvolgere e far interagire tra loro figli e genitori attraverso la presenza e
la guida del terapeuta. È evidente che tale modalità richiede risorse sia a livello di personale che a
livello economico che scarseggiano all’interno del sistema sanitario nazionale. E quindi è facile
che ci si focalizzi prevalentemente solo sulla presa in carico della persona che riporta il sintomo,
lasciando la famiglia spesso abbandonata a se stessa. Non perché non si voglia coinvolgere i
genitori nel percorso terapeutico, ma perché mancano le risorse necessarie. Tutto ciò ricade
negativamente sugli esiti della cura stessa. Il discorso poi si complica ulteriormente quando i figli
sono maggiorenni perché allora la famiglia difficilmente viene interpellata. Ma se ci riflettiamo, è
impensabile credere di poter affrontare una malattia del comportamento alimentare senza
conoscere la storia e le dinamiche familiari. Anche se queste possono essere raccontate dalla
persona presa in carico, la terapia ha comunque il compito di andare a sciogliere i vari nodi che si
sono creati all’interno di quel sistema familiare e per farlo, occorre andare a tirare entrambi i lembi,
e non solo uno, altrimenti il nodo rimane ingarbugliato.
Un papà ha riportato la sua difficoltà a trovare l’appoggio del medico di famiglia nel trovare una
soluzione alla bulimia della figlia. Nonostante si conoscano i danni organici che una tale malattia
comporta, il medico gli ha risposto che se la figlia non vuole intraprendere alcun percorso
terapeutico, lui non può fare nulla. E purtroppo sappiamo che è così. Non si può costringere una
persona alla cura se questa la rifiuta. Ma sappiamo anche che spesso chi soffre di una malattia
del comportamento alimentare non è consapevole di essere malato. E allora cosa bisogna fare?
Come abbiamo già accennato in altri laboratori, occorre andare a creare percorsi alternativi che
passano attraverso le emozioni. Può essere utile cercare di coinvolgere i figli o le figlie in situazioni
che li fanno stare bene; ad esempio, lo stare a contatto con la natura, leggere, fotografare, stare
con gli animali...Questo fa sì che le emozioni positive possano emergere e far percepire loro una
sensazione di benessere che può spronarli a cercare di vivere quella sensazione piacevole anche
in altre circostanze. Va sottolineato che questo non vuol dire che il genitore debba diventare il
terapeuta dei propri figli. Vuol dire al contrario andare a porre cura e attenzione al dialogo e alla
comunicazione. Nutrire il desiderio di conoscere meglio i propri figli. Aiutarli a esprimere ciò che
sentono, desiderano, a cui aspirano. Ci rendiamo conto però che se un genitore è carico già di
suo di quello che la malattia gli getta addosso, difficilmente vorrà approfondire la comunicazione,
il dialogo, lo stare vicino. Perché ogni cosa viene intrisa dal peso della malattia. Ecco allora che si
può incominciare da se stessi. Come? Ad esempio attraverso il laboratorio. Questo significa
mettersi in gioco, e non è così scontato che un genitore lo faccia. Significa voler andare al di là del
proprio vedere. Significa addentrarsi nel significato di ciò che accade. Significa accogliere il
proprio mondo interiore. Significa condividere la propria sofferenza....
La frase della settimana : ACCOGLIERE , ADDENTRARSI , CONDIVIDERE ...PER METTERSI IN
GIOCO E ANDARE AL DI LA’ DEL PROPRIO VEDERE .
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