venerdì 15 aprile 2022

Storia di un cubetto di ghiaccio che imparò ad amarsi.


Provate a pensare cosa si prova ad essere un piccolo cubetto di ghiaccio.

Intrappolato in un quadratino di plastica dentro ad un frigorifero bianco come la neve.

Ogni tanto, quando aprono lo sportello la vede, mamma Acqua. Scorre dal rubinetto, sempre nuova, sempre fresca, bellissima e pura.

Vorrebbe tanto raggiungerla, abbracciarla.

Ma lui è solo un piccolo cubetto di ghiaccio. Immobile. Intrappolato. Solo.

Che ci faccio qui se tanto non mi usa mai? Perché tanta cattiveria? Tenermi qui, impaurito, lontano dagli affetti, circondato dalla nebbia gelida della condensa.

Il piccolo cubetto di ghiaccio non voleva più stare così.

Voleva uscire da quella prigione, voleva abbracciare mamma Acqua, ritrovare la sua vera essenza, diventare ciò che era sempre stato.

Un giorno però nel frigorifero arrivarono dei nuovi abitanti.

Avevano una forma diversa dalla sua. Piccole stelline ancora acquose.

Le guardò in silenzio diventare ghiaccio, e sorrise.

Poteva un piccolo cubetto di ghiaccio quadrato amarsi per quello che era, un piccolo pezzo di acqua congelata?

E se fosse stato quello il suo destino? Può un cubetto di ghiaccio trovare il suo spazio nel gelo del freezer? Può sentire il calore senza dover cambiare la sua natura?

Stelline…

Le chiamò e quelle, come fanno le principesse con un bacio del principe, si svegliarono lentamente.

Non abbiate paura. Siete ghiaccio ora.

Quella che una volta era mamma Acqua, ora era diventata una costellazione di ghiacciolini.

Il destino ci regala Luce quando siamo pronti ad accoglierla. Quando smettiamo di aver paura di farci scaldare. Quando il bisogno di sciogliersi diventa consapevolezza del fatto che per provare calore non serve tornare indietro, ma crearsi la strada giusta per andare avanti. Rinascere come Fenice, non tornare ad essere Acqua.

Disegno di Anna Rita

Daria

martedì 18 gennaio 2022

Il dolore toglie, ma se lo ascolti, il dolore dona - Laboratorio del 11 gennaio


Nel laboratorio di questa stasera si è parlato molto delle dinamiche che la malattia del comportamento alimentare crea. Dinamiche che sappiamo quanto destabilizzano la comunicazione dell’interno della famiglia. Dinamiche che il periodo festivo appena concluso ha messo maggiormente  in evidenza, facendo vivere le festività in un clima spesso carico di tensione per la paura di dire o fare la cosa sbagliata. 
Qualcuno ha festeggiato questo periodo natalizio solo tra i membri più stretti della famiglia per soddisfare le richieste della figlia/o che voleva proteggersi dai parenti che a volte si lasciano andare inconsapevolmente a commenti un po’ troppo spontanei che possono fere chi soffre di una malattia del comportamento alimentare (come ti vedo bene…oppure, ma non lo mangi il primo?…. ). Dietro a questa richiesta che apparentemente può apparire banale, si nasconde un aspetto importante da non trascurare: ovvero, il riuscire a individuare quelle situazioni o persone che possono scatenare i meccanismi della malattia. Questa consapevolezza può essere la base per imparare a vedere le dinamiche della malattia e conseguentemente imparare a gestire l’ambiente intorno in modo da proteggersi. Spesso i genitori non riescono a intravedere questi passaggi perché ne sono direttamente coinvolti e influenzati, quasi impossibilitati a estrapolarne invece il significato che tali aspetti portano. Finiscono anche per dimenticare di pensare a se stessi perché il loro pensiero principale (che è umanamente comprensibile) è focalizzato solo sul fare stare bene i propri figli.

La domanda che più frequentemente viene posta e’: “Cosa posso fare per aiutare mia figlia o mio figlio”? E la risposta che spesso viene data e’: “ Aiuta prima te stessa/o”. Una domanda che sorge quando la famiglia si trova a convivere con i rituali della malattia in un contesto di “routine quotidiana” (ovviamente non in situazioni in cui la patologia è a un livello di ricovero ospedaliero). La risposta che ne consegue è talmente ovvia e banale da sembrare di non aver colto il problema. Ma quanti sono i genitori che, assorbiti dalle dinamiche della malattia, hanno smesso di porre attenzione alle proprie emozioni, ai propri bisogni, al proprio tempo? Una volta una mamma aveva condiviso il suo sentirsi in colpa per aver provato gioia nel guardare delle vecchie fotografie in cui era stata in villeggiatura e per desiderare una vacanza. “ Ma come, mia figlia sta male e io penso ad andare in vacanza? Ma che madre
sono” ? Verrebbe da rispondere, una mamma che prova dei sani desideri naturali.

Anche se già detto più volte, la malattia del comportamento alimentare non comunica attraverso le parole, ma comunica attraverso i simboli e il corpo. Questo vuol dire che se si vuole comunicare qualcosa ai propri figli, bisognerebbe farlo mostrando i fatti e facendo da esempio. Se si desidera spronare la propria figlia o figlio a prendersi cura di sé, se li si vuole esortare a uscire di casa, non è dicendoglielo a parole che li si aiuta. Bisognerebbe essere i primi a prendersi cura di sé stessi, a uscire di casa. Perché la malattia del comportamento alimentare ragiona anche attraverso il pensiero dicotomico del tutto o del nulla, del bianco o del nero, il grigio non esiste. I genitori sentono emozioni molto intense e vorrebbero risolvere la sofferenza che la malattia riversa sui figli. Lasciare che i figli vivano il loro dolore è tra le cose più difficili che un genitore è chiamato a fare, ma è necessario per permettere a loro di risentire il desiderio di vivere. 

La malattia del comportamento alimentare è anche portatrice di un cambiamento che spaventa, i genitori potrebbero temere di perdere quel legame affettivo che li ha tenuti insieme nei momenti essenziali della crescita. La famiglia diviene al contrario una risorsa fondamentale nel momento in cui decide di mettersi in gioco totalmente chiedendo aiuto e affrontando una psicoterapia familiare che le permette da una parte di acquisire gli strumenti adatti per capire e gestire le dinamiche familiari, e dall’altra di collaborare col terapeuta affinché il cambiamento avvenga in modo sincrono con quello dei propri figli. La malattia del comportamento alimentare spesso si manifesta in un momento preciso che determina un arresto del processo evolutivo della persona interessata. Alla base c'è un trauma, che non significa che sia accaduto qualcosa di particolarmente grave (anche se lo è per chi lo ha vissuto). Il più delle volte alla base c'è un modo distorto di percepire ciò che accade intorno a sé. Molte volte i genitori sono preoccupati nel vedere che la sintomatologia si intensifica, tralasciando quelli che possono essere dettagli importanti: riprendere gli studi, rifrequentare gli amici, progettare una mini vacanza, telefonare a un’amica con cui non ci si sentiva da tempo. Per questo potrebbe essere importante per la famiglia accogliere e costruire un nuovo modo di relazionarsi e stare insieme.

La frase della settimana: IL DOLORE TOGLIE, MA SE LO ASCOLTI, IL DOLORE DONA

lunedì 3 gennaio 2022

Il cibo non può saziare se manca lo sguardo che nutre - Laboratorio del 28 dicembre

 

Il laboratorio di stasera si trova in mezzo a un Natale appena trascorso e un Capodanno che sta per arrivare, due periodi festivi che lasciano un’impronta non indifferente per chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Stasera sono state tante le esperienze condivise, e malgrado le inevitabili difficoltà è emersa la voglia comunque di stare insieme, anche se la presenza della malattia occupa un posto “primario” a tavola. Quello che però è apparso chiaro stasera è che nonostante il piatto vuoto sia stato in prima linea, ci sono stati tanti altri momenti che hanno saputo diminuire la supremazia della malattia. Sono state le occasioni in cui ci si è riuniti per scartare i regali, per giocare, per stare seduti insieme sul divano a guardare un film, attimi in cui si è scherzato e soprattutto si è avuta la possibilità di vedere la propria figlia o figlio sorridere non solo con la bocca ma anche con gli occhi. 

C'è stato anche il racconto di chi invece ha vissuto non la gioia, ma la rabbia della propria figlia perché quella tavola così ben imbandita e preparata da lei stessa attraverso i manicaretti che con tanta dedizione si era impegnata a cucinare affinché ogni cosa fosse perfetta, si è incrinata dal gesto naturale e involontario di un parente che, portando di sua volontà una pietanza non prevista, ha scavalcato il potere della malattia.
È facile che in occasioni come le feste natalizie, ci si ritrovi con i figli che dettano legge in fatto di menù. Seguendo un regime alimentare concordato con i propri nutrizionisti, cercano di avere il pieno controllo di tutta l’organizzazione preparando loro stessi le pietanze da portare in tavola. Se da una parte questo li aiuta a essere meno spaventati, dall’altra alimenta il meccanismo di controllo della malattia che porta a concentrarsi sul cibo per tenersi lontano dalle relazioni interpersonali. I genitori non possono gestire tale modalità poiché dietro a queste dinamiche si nascondono significati inconsci e profondi che solo un contesto terapeutico può affrontare. 

La famiglia però può essere un valido aiuto perche’ può fornire ai terapeuti un’altra chiave di lettura di come si è vissuto il clima natalizio. Nei racconti di stasera c'era il desiderio di capire come accettare e in qualche modo convivere con la malattia del comportamento alimentare dei propri figli, soprattutto in queste giornate particolari dove ogni emozione riaffiora con maggiore ntensità. C’è chi ha vissuto il piatto vuoto della propria figlia con un forte senso di angoscia che ha impedito di godere della gioia che compariva negli occhi della stessa nel momento di aprire i regali, così come c’è chi ha vissuto con tristezza e preoccupazione vedere quel piatto pieno ma accompagnato da due occhi tristi e spenti. Il cibo non è il vero protagonista della scena quanto l’emozione, che rappresenta la vera fonte del nutrimento. Per capire questo concetto, basta pensare alla figura materna. Immaginiamo una mamma che allatta il proprio figlio appena nato, il suo sguardo cerca lo sguardo del figlio, poiché è questo il primo nutrimento di cui lui ha bisogno. Quel contatto visivo racchiude il significato simbolico della relazione. Una relazione che cresce e si sviluppa attraverso il contatto e la presenza di entrambi i genitori. 

Quante volte vediamo come i figli cercano di catturare l'attenzione della mamma e del papà. Non lo fanno per capriccio, è un bisogno primario di riconoscimento. Proviamo ora a immaginare come potrebbe crescere un bambino che non si è mai sentito guardato. Sicuramente si ritroverebbe senza alcun punto di riferimento, sentendosi solo e indifeso. Questo potrebbe essere ciò che vive una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare nel momento in cui si trova davanti a un piatto. Ricerca quello sguardo in cui è stato visto la prima volta e attraverso il quale si è sentito protetto.

Una mamma ha raccontato di non aver organizzato alcuna cena o pranzo particolare. Ha lasciato che ogni cosa si svolgesse come se fosse un giorno qualsiasi. Dopo i pasti, ci si è riuniti con i parenti per aprire i regali e stare insieme, questo il significato che ha voluto trasmettere del Natale. Il primo passo verso la guarigione da una malattia del comportamento alimentare non è il sedersi a tavola e mangiare, ma è il sedersi a tavola per stare insieme agli altri, questo è il vero nutrimento, alimentarsi con il cibo è il passo successivo, ma prima di questo deve esserci il nutrimento dello stare con gli altri, il nutrimento di quello sguardo che protegge e rassicura, altrimenti il cibo non potrà mai saziare e nutrire un corpo congelato dal sentirsi invisibili. Come ha raccontato una ragazza che, dopo aver trascorso tanti Natale in cui a tavola con la sua famiglia non toccava cibo, un anno ha improvvisamente sentito il desiderio di assaggiare e condividere con i suoi familiari quel pasto evitato per tanto tempo. Il senso di calore provato ha saputo lentamente sciogliere e liberare quell’anima così a lungo congelata dalla malattia del comportamento alimentare.

La frase della settimana: IL CIBO NON PUÒ SAZIARE SE MANCA LO SGUARDO CHE NUTRE