lunedì 30 ottobre 2017

Il mio amico Diario - parte 1



"…per tanti anni ho cercato la mia identità, il mio scopo, il mio senso, nella vita. Anni.
Sono arrivata alla conclusione che sono prigioniera di me stessa…
Ho imparato la dura realtà. So che posso vivere con me stessa solo se accetto che i miei errori, le mie brutte esperienze, possono fungere da catalizzatore, essere il seme di nuovi inizi, per la mia realizzazione.
Faccio molta difficoltà a capirmi, a capire i miei comportamenti, ma devo cercare di capire le mie paure, i miei bisogni, se devo correggermi e vivere il resto della mia vita libera dagli orribili divieti che hanno afflitto il mio io interiore così a lungo."
(pagina di diario, 38 anni)

Nel mio primo diario, un regalo di Natale nello stesso anno in cui mi sono ammalata di Anoressia Nervosa, all'età di 11 anni, trovai prima di tutto conforto.
La prima pagina, il 1 gennaio 1963, è stracolma di precisissimi dettagli, come ad esempio il tempo passato ad allenarmi e il cibo ingerito, l'ora in cui mi alzavo e in cui andavo a letto. Prima che arrivasse il diario, tutti questi pensieri segreti si erano affollati nella mia testa, senza avere un posto in cui andare. Condividerli con il mio nuovo amico, il diario, mi aiutava in qualche modo a sentirmi meno in ansia.
Quando passai dall'anoressia alla bulimia, nel periodo dell'adolescenza, notai una maggiore capacità di espressione personale. Le parole saltavano fuori, mentre cercavo di dare un senso a tutti quei pensieri e quelle sensazioni. Il mio mondo era piccolo. C'era il diario, e c'ero io. Non ci sarebbero voluti molti anni per rendermi conto che c'era anche il Disturbo Alimentare, e che l'impatto del diario si sarebbe esteso ben oltre noi due.  

La malattia, come il diario, traeva beneficio dalla segretezza, e mi incoraggiava a mantenere i miei segreti.
Essendo io ancora una bambina, una ragazzina, i miei diari erano luoghi sicuri in cui esprimere ed analizzare i miei pensieri, ed elaborare delle strategie comportamentali. Ma, senza un aiuto, affidarmi al diario aggravò anche il mio disturbo alimentare, le sue incessanti e severe richieste, che diventarono per me sempre più impossibili da soddisfare.
Io non ero mai abbastanza e le regole della malattia diventarono segreti all'interno di altri segreti, che dovevano essere protetti e tenuti nascosti.
Per anni, il diario fu il mio unico sfogo.
All'età di 28 anni, il mio diario aveva registrato una quasi completa disconnessione del mio io dal mio corpo.

Dai segreti alla verità

La verità è stata essenziale per trasformare il diario da un custode di segreti che si alleava con la mia malattia, ad uno strumento di guarigione per la mia "vera me".
Ci sono stati diversi momenti di svolta nel percorso di guarigione dall'anoressia nervosa, nel mio caso lunga e grave. Prima all'età di 28 anni, quando ho cercato aiuto per la prima volta, e poi poco dopo i miei 30 anni, quando ho incontrato un medico che si è guadagnato la mia fiducia. Sviluppare fiducia è vitale, perché bisogna avere più fiducia del terapeuta che dei forti pensieri interni del disturbo alimentare.
All'apparenza, ero una moglie e madre con una carriera full-time, ma dentro, il mio diario svelava la lotta disperata per rispettare liste quotidiane e promesse, come per esempio mantenere un limite di peso molto rigoroso, correre una distanza prefissata e annotare ogni caloria.
All'età di 28 anni, i pensieri di suicidio, dopo 17 anni a braccetto con il disturbo alimentare, mi spinsero a rompere il silenzio e a svelare i pensieri finora confinati nei miei diari, ad un medico. Lui ed altri medici, quando vennero a sapere che tenevo un diario, mi ha incoraggiata a continuare la scrittura come strumento di espressione. Ma, come me, quei medici non conoscevano il potenziale ruolo centrale del diario nella mia malattia, e nemmeno la sua capacità di essere tanto un amico quanto un nemico.
Intorno ai 30 anni, mi sono fidata di uno psichiatra e lui mi suggerì che il mio diario poteva essere d'aiuto nel mio percorso di guarigione. Un po' alla volta, aiutata da una paziente guida e dalla discussione in terapia, quello che scrivevo nel mio diario cominciò a rafforzare pensieri e sensazioni autentiche. La violenza e l'autolesionismo lasciarono spazio alla cura di sé, man mano che il mio corpo e la mia mente si stavano progressivamente riprendendo.

Qualche decina di anni dopo, all'età di 55 anni, dopo essere sufficientemente guarita per poter rientrare nella vita "normale", quando mi esposi e cominciai a condividere la mia storia pubblicamente, anche i diari "vennero fuori".
Per esempio, oltre a rappresentare la principale fonte per la mia tesi di laurea (Una ragazza di nome Tim, 2011), i diari sono diventati un pozzo di 'esperienza vissuta', e documentata, a cui attingere per altri lavori letterari.
In occasione di un'altra testimonianza dal vivo, persone che avevano sofferto di DCA mi scrissero per condividere le loro storie, che fino ad allora erano state rivelate solo ai loro diari. Molti lettori adulti scrivevano moltissimo, raccontando come si fossero sentiti isolati e avessero tenuto il loro disturbo segreto per anni, ma dopo aver letto ed essersi riconosciuti nella mia storia, erano finalmente in grado di condividere ed esternare i loro pensieri e le loro esperienze per la prima volta.
Mentre riflettevo sulle risposte dei lettori, in me si fece strada la consapevolezza che forse il mio amico diario era stato tanto distruttivo quanto costruttivo nel corso della mia lunga malattia, portandomi così al mio ultimo libro (Using Writing as a Therapeutic Tool forEating Disorders -The Diary Healer).

Cibo e vergogna

Oggi amo il cibo.
Per 40 anni, però, ogni pasto è stato un calvario, avvolto in strati di vergogna e colpe. Scrivere tantissime regole e contratti su cosa mangiare e come comportarsi, può dare sollievo a breve termine, ma le regole del disturbo alimentare sono destinate a fallire. Perciò, durante il disturbo alimentare, mentre il diario può fungere da confidente in momenti di estremo isolamento, un rifiugio in cui cercare un senso ad un mondo complicato, può anche però diventare uno "schiavo" del disturbo alimentare, intrecciarsi con esso; un segreto "dentro al" segreto.
Così, senza direzione, più cercavo un ordine al mio caos mentale nel mio diario, più irrazionale diventavo rispetto agli eventi, reali o immaginari, disturbanti. Tuttavia, gradualmente, con l'aiuto di terapeuti, il diario si è evoluto da strumento di sopravvivenza a metodo per ri-costruire me stessa. Per esempio, nel mio blog The Diary Healer, gli scrittori del diario discutono come la scrittura li abbia aiutati a scendere a patti, e a superare, le loro esperienze di vergogna e stigma.
Attingendo ai miei diari, ho scritto delle lettere ai membri fidati dell'équipe che mi ha aiutata a procedere verso la guarigione, aprendomi così la strada per legarmi a loro, anche quando non sapevo quale fosse la 'giusta' direzione. Da questo salto incerto nel buio, ho cominciato lentamente a fidarmi e connettermi con la mia "vera me". Con il loro supporto, ho cominciato a rileggere i diari precedenti, a rifletterci sopra e ad affrontare le questioni che contenevano. Questo ha implicato rivivere momenti dolorosi e traumatici, ma anche liberare e riesaminare ricordi troppo difficili da elaborare altrimenti. Andare a scavare in fondo e affrontare strati di emozioni soppresse era un prerequisito per sfuggire alla morsa del disturbo alimentare e costruire una base sicura di autostima. Annotavo particolari pensieri e sensazioni nel tempo che intercorreva tra i vari appuntamenti, per discuterli poi alla visita successiva.

Il cammino non sempre è stato facile. Ci sono state grandi perdite in termini di relazioni personali e, una volta guarita, non tutto è stato recuperabile. Andare avanti mi ha richiesto una totale ricostruzione; reintegrare varie parti consumate, o perdute, della vera ‘me’.

L'essenza della scrittura del diario è sostanzialmente essere amica/o di te stesso. In questo modo, il diario è come un migliore amico fidato, che conosce tutto di te e che ti ama incondizionatamente. Nelle persone che soffrono di DCA, l'evitamento può verificarsi e portare a inganni, non solo con gli amici e i famigliari, ma anche con il proprio diario. Ma con il giusto aiuto, il diario può trasformarsi in uno strumento di riflessione, di esplorazione e guarigione, e aiutare a scoprire, o riscoprire, parti del nostro "vero io". Quindi, oltre a fornire un luogo sicuro in cui raccogliere e 'lasciare andare’ le emozioni, il diario può servire come una sorta di "personal trainer"

June 

--- continua --- 


June Alexander è una scrittrice internazionale e appassionata attivista nell'ambito dei disturbi alimentari. Da quando è guarita, nel 2006, ha scritto 9 libri sui DCA. L'ultimo, Using Writing as a Therapy for Eating Disorders—The Diary Healer, è la sua opera principale del suo lavoro di Dottorato in scrittura creativa.
La sua passione per la scrittura e per la cura che pone al centro il paziente, l'ha portata all'attivismo in ambito DCA a livello locale, nazionale ed internazionale. 

Di recente, June ha intrapreso uno scambio internazionale con Sandra Zodiaco e l'Associazione Mi Nutro Di Vita (Pieve Ligure, GE), per la lotta ai DCA e allo stigma che circonda queste malattie. Come parte di questa collaborazione oltreoceano, la traduzione in inglese di questo post scritto da June è disponibile su: https://www.thediaryhealer.com/category/blog/.

sabato 28 ottobre 2017

La Speranza



Hanno sempre detto che è l'ultima a morire
forse per non farci soffrire,
per non cedere alla tristezza
continuando a percepire la bellezza,
della propria vita incasinata
ma in fondo...amata.

Un'illusione per noi esseri umani
che sarà più roseo il nostro domani.
Dobbiamo credere sarà migliore,
chiusa una porta si spalanca un portone...

Arriva il giorno in cui cambia il tuo pensiero,
non c'è niente di vero...
Precipiti nello sconforto,
preferiresti avere torto.

Senza speranza non sai più che fare,
ti senti persa in mezzo al mare.
Odio, rabbia, delusione...
Quale sarà la conclusione?
Amarezza, paura, apatia...
Finirà mai questa agonia?

Cam

venerdì 27 ottobre 2017

Zero





Andare avanti, ero bravissima ad andare avanti.
Avevo imparato a resettare tutto.
Resettare ogni cosa e ricominciare da zero…un numero...
Per chi soffre di disturbi alimentari i numeri sono devastanti
perché tu diventi quel numero...
perché tu ti identifichi in quel numero...
ma quando cambi i pensieri, se ci pensi bene…
Zero è un bel numero per chi vuole ricominciare.
Puoi moltiplicare un milione di cose per zero,
ma lo zero annulla tutto: 5849302 x 0 = 0.
Ogni errore, ogni mancanza, ogni assenza.
Ogni emozione, ogni giorno. Tutto.
Lo zero cancella tutto.
Ero perennemente costretta a riscrivere la mia vita:
nuove pagine, nuovi volti, nuovi errori.
Immaginavo la mia vita come un muro bianco.
Un enorme muro bianco, tutto da scrivere.
E non facevo mai in tempo a finirlo;
prima o poi il muro sarebbe tornato bianco.
Ed io avrei dovuto ricominciare.
Ricominciare, ricominciare e ricominciare ancora.
Ricominciare è il verbo di chi fallisce,
di chi non resta.
Ricominciare è il verbo di chi ha troppi inizi,
ma non ha mai scritto un finale per il suo futuro...sono stanca di quel muro...
E' ora… di abbatterlo...
Non voglio più essere dipendente dai muri...
per chi lotta ogni giorno...

Katiuscia

giovedì 26 ottobre 2017

La storia di Serena - parte 2


Il paradosso di questa malattia è che più scompari più ti guardano. Questo mi ha sempre affascinato. Mi divertivo quando tornavo a casa per il week end e in metropolitana mi guardavano con paura mista a tenerezza ed imbarazzo (ehi, non è contagiosa l'anoressia, tuttalpiù prendetela per mano ed imparate a conoscerla).
Furono tre mesi di ricovero inutile, almeno per me, in cui persi altri 4 kg fino ad arrivare a 37 e lì scattarono le pressioni psicologiche. Vedevo altre ragazze venir congedate dopo un mese, felici di aver ripreso a mangiare, ingrassate - per così dire- in modo sereno. Altre ci impiegavano un po' di più. Altre come me, non ci riuscirono. 
I miei reni erano compromessi, ero a rischio dialisi perché non mangiavo e non bevevo, il ciclo mestruale ormai era solo un vago ricordo, mi dissero che avrei anche rischiato di non avere più figli. Mi riempirono di flebo di glucosio, mi minacciarono col sondino nasogastrico se fossi calata anche solo di un altro kg. Ma poi scadendo i 3 mesi di ricovero fui dimessa, perché guarita o non guarita, avevano diritto anche altri malati a prendere il mio posto...per provare a salvarsi. Tornai a casa in condizioni peggiori di prima, non avevo più vene dove potesse attaccarsi un ago, non avevo più tono muscolare, non avevo più forze ed io mi sentivo ancora più impotente dopo un tentativo di ben 3 mesi fallito. I miei non mi volevano a casa, mia madre non era in grado di gestire la sofferenza di una figlia che stava decidendo in modo cosciente di morire giorno per giorno, i miei fratelli volevano vivere in una famiglia normale. Continuai tuttavia le mie sedute dallo psichiatra del centro di ricovero per alcuni mesi finché ci suggerì di trovare un'altra soluzione perché così non potevo stare. Passarono alcuni mesi a casa, finchè finalmente i miei genitori trovarono un altro centro, stavolta in provincia di Verbania e lì ci finii per un mese, lontano da tutti. Il protocollo prevedeva solo un mese e in tutto il centro eravamo solo 3 anoressiche, sparse in piani diversi dell'ospedale affinché non ci si potesse neanche incrociare. La cosa mi dava sollievo. Tutto il resto della struttura era costituita da pazienti affetti da obesità, disturbi alimentari opposti ai miei ed era uno spasso parlare con loro, perché spesso sapevano prendersi in giro, sebbene a volte anche loro piangevano ed erano arrabbiati col loro corpo. Ma non c'era competizione, anzi, io ero lo scricciolo di tutti, ero trattata da tutti gli altri pazienti con tenerezza e premurosità. Nonostante il clima lì dentro fosse meno teso le cose non cambiarono, anzi, calai altri kg così arrivarono i sondini di emergenza, nuovi farmaci, psicoterapia ed esami su esami dai nomi più strani. Ero arrabbiata, non c'era modo di farmi far pace con me stessa. Uscii da lì che ero 35kg. Alzarono le mani anche loro, non erano in grado di fare altro.  Ero inquieta, sola, disperata, impaurita da me stessa. 
E così dopo il congedo tornai a casa dove tutti notarono il peggioramento fisico.
Capii che non sarebbe mai cambiato nulla, la preoccupazione era il mio peso, non ciò che stava dietro al mio peso, e sì che ero così trasparente che volendo si potevano leggere dentro i miei pensieri se mi si metteva in controluce. Capivo che sarebbe stato duro il rientro a casa in quelle condizioni. Mi sentivo un pacco da spedire, ma che immancabilmente ritornava al mittente. 
Fu così che presi finalmente in mano le redini. A settembre ripresi la scuola dopo un anno passato a giocare a ping pong tra ricoveri e momenti di attese. 
E nel riprendere gli studi ci fu un incontro provvidenziale con uno psicologo che tenne un convegno sull’anoressia proprio nella mia scuola. Chiesi ai miei di partecipare, tutti insieme. Fu amore a prima vista. Riconobbi nelle sue parole tutta me stessa . Era come se nel suo parlare ci fossi stata io e le parole che non riuscivo ad esternare . Mi sentivo compresa benché fossi una tra tante nel pubblico . Ma era come se lui stesse parlando con me, di me. Il giorno seguente chiesi informazioni in segreteria e mi feci dare il suo numero di telefono. Io volevo lui . Volevo guarire con lui, ed era una mia scelta, per una volta fu davvero una scelta solo mia e di nessun altro. Presi contatto con lui, ci furono dei primi incontri con i miei genitori, poi iniziai io da sola. Fu un percorso che durò più di un anno, ogni benedetta settimana prendevo un permesso per uscire prima da scuola, prendere il treno, poi due metropolitane per arrivare nel suo studio in centro, parlare, piangere, non dire niente a volte, e in quel niente c'era sempre tanto, e poi tornare a casa la sera stremata. Finalmente avevo trovato la mia strada. Perché ogni malata ha le sue vie di guarigione, siamo tutte magre ma siamo tutte diverse dentro la nostra magrezza, e come ho visto guarire persone nel mio primo ricovero, così io man mano sono guarita un anno dopo, con della semplice - si fa per dire- psicoterapia, dove ho scavato nel mio passato, nei miei pensieri più imbarazzanti, nei conflitti famigliari con mia madre, nei piccoli traumi che ognuno di noi vive nell'arco della propria vita ma rielabora a modo suo. E' stato un percorso non sempre in discesa, ma nei momenti più difficili dove cadevo in tentazione e magari perdevo qualche etto, vedendo che al mio psicologo non interessava affatto del mio peso, mi sentivo finalmente non un corpo ma semplicemente Serena. Con lui non parlai mai di kg, bilance, cibi, digiuni, ma solo di amore, di paure, di rabbie, di insicurezze, desideri, strade fatte e strade non scelte, del passato, del presente, di mamma, papà, di chi era Serena. 
Le cose man mano si sistemarono, con non poche difficoltà perché nonostante nelle sedute di psicoterapia io iniziavo a capirci qualcosa, non appena tornavo a casa il mondo crollava perché i miei non vedevano risultati tangibili (il mio aumentare di peso, per intenderci). Non capivano che quello sarebbe arrivato dopo, che a volte è anche necessario parlare alla propria malattia, vederla come un'amica, anche solo per un attimo, accarezzarla per poi far pace e lasciarla libera di andare. Non sono cose che si risolvono in una manciata di mesi, specie se la malattia è presente già da tempo. Io forse non son stata "presa in tempo", forse ho fatto outing quando era già tardi per molte cose, ma non è mai troppo tardi finché si è vivi e finché si ha la voglia di cambiare. Ho fatto pace con la mia malattia attorno ai 20 anni, nel frattempo mi sono diplomata, sono andata via da Milano, ho trovato un lavoro, poi un altro, poi un altro ancora, mi sono re-inventata un sacco di volte e ogni tanto non nego che la mia ex co-inquilina torna a trovarmi con discrezione. Ma io ormai la conosco bene, e per questa ragione la tengo un po' con me, come si fa con dei vecchi amici che non vedi da tempo ed ospiti a casa tua per qualche giorno. Ci parliamo, mi chiedo il perché della sua visita proprio nei momenti più bui della mia vita, dopo essermi separata dal mio compagno, dopo un periodo turbolento al lavoro, dopo aver perso mia madre di tumore. Sì, l'anoressia se ne è andata ma ogni tanto passa a farmi un saluto ed io cordialmente la invito a fare quattro chiacchiere, e poi le dico che è ora di tornare al suo posto, a casa sua
Nessuno è infallibile, mentirei a dire che non mi fa più paura questa malattia, ora che ho 33 anni, una famiglia, un figlio di 7 anni, e un sacco di responsabilità. Però ho imparato che le paure vanno prese per mano, vanno fatte parlare, bisogna imparare a volerle bene e senza aver fretta imparare anche a concedersi di essere imperfetti. Non è facile ammetterlo, sopratutto a se stessi, perché viviamo in una società che chiede sempre troppo, e sempre il meglio. Ma se imparassimo a fermarci un attimo e parlare a noi stessi, ai nostri piccoli fantasmi, questi smetteranno di essere fantasmi, assumeranno una propria identità ben definita e per questo motivo vivranno di vita propria e andranno altrove...a farsi la loro vita...lasciandoci vivere la nostra. 

Serena Gambuto

--- leggi anche "La storia di Serena - parte 1" ---

mercoledì 25 ottobre 2017

La storia di Serena - parte 1



Quando si parla di disturbi alimentari la gente comune che non l'ha vissuta personalmente o come famigliare della "vittima" ma ne ha solo sentito parlare da un TG mentre era a tavola con la propria famiglia, o leggendo un articolo su un quotidiano in pausa pranzo, pensa subito ad una malattia del corpo. Un corpo che, quasi inspiegabilmente, diventa troppo magro, o troppo grasso. Immagina l'anoressia attraverso un vestito taglia 36 di una modella che cammina con una forza inspiegabile su una passerella, o una tuta taglia XXL introvabile, addosso a qualcuno che tenta di entrarci dentro cercando di nascondere la sua massa e di farsi scivolare addosso atti di bullismo e umiliazioni direttamente proporzionali al proprio surplus corporeo.
In realtà i disturbi alimentari sono qualcosa di molto più complesso e non solo riconducibili semplicemente ad un numero della bilancia sempre troppo borderline - anche se ovviamente, anche questo è un fattore che necessita di essere preso in considerazione quando poi si comincia un percorso di guarigione, liberazione, di... ritorno alla vita.
Io che ne ho sofferto per tanti anni e in più sfumature posso raccontarvi la mia storia, perché è necessario avere più consapevolezza in questo mare magnum di informazioni che rimbalzano da una parte all'altra del web e del mondo reale, perché sono le testimonianze di chi l'ha vissuto sulla propria pelle a fare maggior chiarezza e perché no, dare una mano a chi ci è dentro a piè pari e ancora non riesce a comprenderlo o ad ammetterne il disturbo.
Non ricordo esattamente quand'ho iniziato a soffrire di anoressia, non c'è un "giorno x" che ho segnato sul calendario e da cui ho iniziato a spuntare giorno dopo giorno le settimane , i mesi, gli anni. Però posso dirvi che ho iniziato a non accettarmi più attorno ai 12, 13 anni, parliamo di fine anni '90, poiché ora sono adulta e di anni ne ho 33. Non accettavo il mio corpo che diventava maturo, non accettavo i cambiamenti ormonali, un seno prosperoso oggetto di attenzione e scherno da parte dei compagni di scuola, non accettavo più il mio viso abitato da una forte acne giovanile, non accettavo che assieme a tutto questo cambiamento, la mia mente iniziava a prendere consapevolezze di insicurezza (sembra un paradosso, lo so), di timori mai avuti prima, fiducia in me stessa sempre più precaria, nel mio essere troppo sensibile, con cui a volte ci avrei fatto a botte per sentirmi un po' più anestetizzata e un po' meno suscettibile. 
Era evidente che mi sentivo a disagio. Non mi ritrovavo più in quell'involucro, non mi trovavo più in famiglia, dove il dialogo iniziava a trasformarsi in una battaglia continua per qualsiasi cosa. Iniziai a soffrire di gastrite, gastrite vera, già a 12 anni, di quelle che ti obbligano a seguire una dieta, dal non bere the, coca cola, non mangiare cioccolata, cibi fritti. Tutto ciò di cui un adolescente invece si nutre in quegli anni spensierati. 
E in questa dieta imposta dal dottore iniziai a sentirmi più sicura, protetta. A scuola avevo la giustificazione scritta per la dieta "in bianco", i miei piatti erano sempre candidi e puliti, mi rassicuravano come rassicurerebbe il latte materno ad un neonato, ero una mosca bianca, qualcosa di fragile che veniva visto sempre di più come "diverso" e in questa diversità silenziosa io mi ci avvolgevo come si fa in inverno con le copertine in pile. A casa c'era il piatto cucinato ad hoc solo per me. E questo mi dava sempre di più sicurezza e protezione da un mondo che non mi piaceva e di cui non sentivo di far parte. Passato il periodo di dieta e passata la gastrite però mi sentii come abbandonata e da allora ricordo che iniziai di mia volontà a scegliere lo stesso di non nutrirmi più di certi alimenti, per paura di star male; una sorta di "campagna preventiva", e da lì mi accorsi che in questo modo le persone mi guardavano, i compagni di classe, i professori, i miei genitori, e tutti rispettavano questa mia scelta senza farsi troppe domande. 
Col tempo la scelta degli alimenti non bastò più, iniziai a mangiare meno, sempre meno giustificandomi con il fatto di sentirmi già sazia dopo un boccone e di temere di star male e vomitare. Dicevo di non riuscire più a digerire niente, sembrava che tutto fosse un macigno nel mio stomaco tanto che iniziai anche a farmi comprare omogeneizzati e a nutrirmi sopratutto di quelli. Mi sentivo come una bambina in fase di svezzamento, appunto, ogni cucchiaiata presa dal vasetto la vivevo con lentezza e misticità, convinta che quello sarebbe stato il giusto compromesso tra nutrirmi, non sentirmi sazia, e mantenermi "diversa". Fu in quel periodo che avvertii anche il cambiamento del mio corpo, quando i vestiti iniziarono a non starmi più, quando le mie compagne di classe mi guardavano quasi con occhi pietosi, quando i miei genitori provavano ad alternare gli omogeneizzati con un piatto di pasta e poi, in silenzio, mi toglievano da tavola il piatto mangiato solo per un quarto. Dimagrivo e mi sentivo più forte, era un modo per gridare la mia sofferenza, perché a voce non sono mai riuscita a farmi ascoltare, forse nessuno era propenso ad ascoltare, forse io per prima non trovavo il coraggio a voce . A quell'età non si hanno abbastanza capacità rielaborative per esprimere a parole mille disagi esistenziali. Per questo i miei genitori mi mandarono da una prima psicologa, perché lei facesse da tramite, da traduttore dei miei pensieri, riportandoli poi ai miei che sempre più preoccupati si chiedevano che disagio avessi addosso. Ci andai per un paio d'anni, riuscii anche a farmi cambiare di sezione per vedere se riuscivo a socializzare con nuovi compagni di classe magari più "positivi". Nonostante questo cambiamento il mio disagio continuò a trascinarsi, anche se con più leggerezza, a fasi alterne, a volte c'era, a volte lo mandavo in ferie qualche giorno nutrendomi di attimi di pura gioia adolescenziale. Sembrava gestibile. Eppure dentro sentivo che non ero del tutto in pace
Terminate le scuole medie, fu un ennesimo cambiamento a prendere il sopravvento. Scuola nuova, persone nuove, confronti nuovi, ritmi diversi. Non mi trovavo più, mi ero persa in una scuola che non ero sicura di voler fare, io volevo fare la musicista giacché suonavo il pianoforte già da 8 anni ed ero pronta per il conservatorio, i miei invece mi avrebbero voluto veder diventare psicologa, e per questa ragione intrapresi una scuola ad indirizzo umanistico, conscia anche del fatto che ero una studentessa modello, non mi mancava la buona scrittura, un buon metodo di studio, una bella dialettica. Ma non era quello che volevo. Non in quel momento. E mi trascinavo in conflitto con me stessa sui banchi, tra compagni di classe praticamente tutti sconosciuti, che condividevano con me poco e nulla, con materie che tutto sommato mi piaceva anche studiare, ma che avrei voluto scegliere io, di mia iniziativa. Davo il massimo, ottenevo il massimo. Ero l'alunna perfetta, come sempre. Ma non ero felice. 
E così iniziai a soffrire di attacchi di panico quando provavo ad uscire la sera con i miei nuovi compagni di classe, trovandosi per una birra clandestina e una sigaretta scroccata, lì mi assaliva il panico, mi mancava l'aria, non volevo sentirmi uguale alla massa eppure avevo questa estrema necessità di sentirmi parte di un gruppo, parte del mondo, essere accettata, approvata. Ma non ci riuscivo. Iniziò lì la mia vera corsa al declino, conoscevo già le tecniche, il livello base l'avevo già affrontato alle scuole medie, ora ero più grande, pronta per il corso Senior. Iniziai a non mangiare, a non bere, se proprio vedevo che a casa buttava male e tirava aria di tensione per i miei piatti lasciati così come mi erano stati offerti, mi sforzavo di mangiare e poco dopo dai sensi di colpa correvo in bagno a vomitare. Fu così che conobbi anche una delle altre sfumature dei disturbi alimentari, quella della bulimia. E quindi, per non dare troppo nell'occhio, questo nuovo comportamento alimentare divenne quasi una sfida con me stessa: riuscire a non destare sospetti, vivere la mia autodistruzione senza che nessuno se ne accorgesse. In fondo, a tutti interessava solo vedere il piatto vuoto. Per tutti era quella la voce della verità, la consolazione, la sicurezza di uno status di salute. Volevano vedermi mangiare? Perfetto. Eccovi serviti. Mangiavo. 
E poi andavo a vomitare tutto. In silenzio e lontano. 
Ormai non ero più Serena. Ero un piatto da terminare. La felicità di tutti derivava da quello. Se Serena mangiava, tutti erano felici. Ma nessuno si chiedeva come mi sentissi a fine pasto, e nessuno si chiedeva come mai- nonostante mangiassi- il mio corpo dimagriva, la bilancia segnava numeri impazziti.
Sì, la bilancia, perché iniziai a conoscere anche quel marchingegno infernale, iniziai a scoprire di averne ben 3 in casa e ognuna pesava a modo suo, con 2 o 3 etti di differenza. Ed io iniziai a sfidarle. Mi pesavo prima su una, poi sull'altra, e ridevo perché c'era la bilancia che non perdonava e mi mostrava 44 kg, quella più altruista me ne mostrava 43,7. 
Dove volevo arrivare...
Iniziai a darmi dei traguardi: 
arriviamo a 42, vediamo se ce la faccio.
Poi a 41.
E in tutto questo calare io mangiavo e nessuno si faceva delle domande, o forse non avevano il coraggio di farsele e farmele. 
E nel mio dimagrire trovavo la forza, nel mio dimagrire e nel mio fumare, perché dicevano che fumare faceva passare la fame, faceva bruciare calorie. Io in realtà bruciavo già di mio dentro, per i dolori di stomaco, le vertigini che avevo dopo ogni vomitata. Ogni tanto mi concedevo una tregua e preferivo saltare un pasto, quello mi faceva sentire meno sporca, più pura. E fu così fino ai 16 anni, alternando digiuni, rifiuti, mangiate obbligate e poi messe in punizione. Mi punivo e non ero lucida, la notte dormivo poco, di giorno ero assente, passavo le ore a toccarmi le anche che sporgevano, a guardarmi le clavicole, a piegarmi davanti allo specchio per vedere quanto le costole fossero evidenti, e se dopo aver mangiato la pancia mi si gonfiava mi tiravo dei pugni sull'addome dalla rabbia, con la speranza che rientrasse, piangevo in silenzio in camera mia, chiusa a chiave, perché nessuno potesse mai vedermi nuda. 
Poi arrivò un giorno, un giorno qualunque davvero in cui in un momento di spensieratezza in vacanza, presi in parte mio padre dicendogli che dovevo parlargli. 
Lui già sapeva cos'avevo da dire ma mi lasciò parlare. 
Gli dissi che ero malata, che soffrivo di non so bene cosa, a volte bulimia a volte anoressia, che volevo essere curata perché non ne potevo più.
Fu l'atto più coraggioso che feci nella mia vita, fu una liberazione per me ma anche una condanna perché dopo aver fatto outing ebbi gli occhi puntati addosso in modo quasi vendicativo. Mio papà mi promise un aiuto, andammo da uno psichiatra di un centro per disturbi alimentari di Milano che mi mise in lista d'attesa per il ricovero, nel frattempo iniziai una terapia farmacologica che mi spense un po' il cervello e con sé tanti cattivi pensieri. Ma in casa ormai non avevo scampo. Se mangiavo i miei mi proibivano di andare in bagno a vomitare, quindi decidevo di digiunare scatenando le ire di mia madre. Il mio sistema famigliare era ormai andato a pezzi. Mia sorella maggiore non capendo la mia sofferenza la vedeva come un capriccio, mio fratello più piccolo di me di 6 anni, ascoltando il parlare a ruota libera di mia madre nei momenti di disperazione, temeva che stessi per morire, come spesso lei mi diceva per mettermi paura.
Arrivò anche un momento in cui desiderai davvero di sparire perché il ricovero non arrivava ed io a casa ormai ero come un ospite sgradito, una mosca da mandar fuori dalla finestra. Finalmente mi chiamarono per il ricovero ma non fu come speravo. Era più che altro fatto di flebo, farmaci, incontri con psichiatra in cui si parlava del mio peso, come mi sentivo dopo aver mangiato e se me la sentivo il giorno seguente di aggiungere 5 grammi in più alla mia porzione di pasta. Ero in un gruppo di circa altre 10 ragazze, tra cui c'era solo gran competizione, e tra di noi c'erano gare ma anche scambi di "ricette" per ingannare le bilance dell'ospedale, per trovare la strada più veloce per dimagrire dopo una flebo di glucosio. Assieme facevamo delle terapie di gruppo, con conversazioni quasi scientifiche, pragmatiche, incontri con una nutrizionista che cercava di farci capire che una merendina non ci avrebbe fatto ingrassare tutto d'un colpo. 
Ed io che non sapevo se ridere o piangere, davvero, perché non era quello che cercavo, io cercavo ascolto, non indicazioni nutrizionali, io conoscevo già a memoria le tabelle nutrizionali di qualsiasi tipo di alimento, qualsiasi tipo di biscotto, di taglio di carne, di pesce, di bevanda. che bisogno c'era di fare educazione alimentare. Soffrire di disturbi alimentari significa soffrire nell'anima. Il corpo è solo un tramite per esporre il proprio soffrire invisibile, che non trova parole né espressione propria

Serena Gambuto

--- continua ---

lunedì 23 ottobre 2017

La bestia



Finalmente pensi di averla allontanata
Ma lei di te non si è scordata.
Torna all'improvviso
Per toglierti quel fragile sorriso
Così faticosamente riconquistato
E in un attimo rubato.
Sbuca dal nulla
Ti strappa dalla tua culla.


Ed ecco che torna lo sconforto così famigliare...
Mentre la paura ti assale.
Terrore di ricascarci
Vorresti solamente rassicurarti
"Da oggi inizio una nuova vita"
Quante volte l'ho già sentita...


Bugia, inganno, delusione
Desideri solo una conclusione
Non sopporti più questa esistenza
Vorresti tornare al punto di partenza
Per ripartire da zero,
Senza entrare nel tunnel nero
Dei disturbi alimentari,
Così tragicamente avari
Della tua felicità;
Chissà se un giorno tornerà.


Intanto cerchi di sopravvivere
Provando a sorridere
Per mantenere l'immagine di ragazza solare
Così dannatamente irreale.
Quanta fatica ti deve costare
Fingere ogni giorno di non stare male...
Ti piacerebbe lasciarti andare,
Questa maschera abbandonare.


Un giorno, forse, ritroverai te stessa
Questa deve diventare una promessa.
Promessa di vivere senza timore
Superando il tuo immenso dolore.


Cam

In un angolino


A distanza di tempo e con la mente lucida e funzionante mi chiedo: "A cosa è servito tutto quel dolore? Tutta quella ostinazione diretta solo verso quel numero?"
Forse oggi l'ho capito, magari non pienamente, però ora una visione parziale di quello che è successo posso dire di averla. Ho passato gli ultimi 3 anni in un inferno, in una gabbia dorata che all'inizio mi faceva stare bene, mi dava sicurezza, mi faceva sentire forte e indistruttibile, senza rendermi conto che se pur dorata sempre di una gabbia si trattava e che quella che stava diventando indistruttibile era l'anoressia e non io. E' stata come una caduta vertiginosa e velocissima verso un abisso dal quale non riuscivo più ad uscire, e nel quale all'inizio non mi rendevo nemmeno conto di essere caduta. 40, 38, 36, 35, 34, e 33 kg; dolore e confusione. Ossa che facevano male, calcoli infiniti di calorie introdotte meno quelle bruciate, 10 chilometri al giorno, doccia fredda per bruciare più energie. Poi le crisi dissociative, l'autolesionismo e una fase di binge mai ammessa e mai accettata. Un incubo che sembrava non finire mai.
Ho pregato per mesi di non svegliarmi più, che senso aveva alzarsi la mattina per dar vita a quel rituale ogni giorno identico a se stesso? Che senso aveva continuare a vedere il dolore negli occhi dei miei genitori senza riuscire a provare nemmeno dispiacere se non rabbia e voglia di continuare ostinata verso la mia meta? Che poi prima non lo capivo, ma ora lo so, la mia meta era lo 0, il nulla, il vuoto, la pace, la fine. Perché?
Perché non riuscivo ad accettare le mie debolezze, quelle che ognuno di noi ha, perché non riuscivo ad elaborare che nella vita possono accadere cose di cui non siamo responsabili ma che ci vedono solo come vittime, perché ostinarsi in qualcosa che mi riusciva probabilmente più facilmente era più semplice di affrontare la realtà, però è in questa realtà che vivo, che viviamo tutti, e allora ho capito che per morire c'era sempre tempo, mentre quello che mi restava per vivere in quelle condizioni stava per scadere. Oggi sono una studentessa di psicologia al primo anno, oggi ho degli amici, ho una persona vicino che forse potrebbe volermi bene per davvero, oggi cucino e mangio a seconda di quanto ne ho voglia e necessità, oggi non cammino più per raggiungere i 10 chilometri giornalieri ma perché fare una passeggiata mi fa stare bene e mi rilassa.
Ci sono voluti anni per avere i primi risultati, e le ricadute sono sempre state dietro l'angolo, ma la fame di amore che avevo per la vita ha superato la forza dell'anoressia e l'ha buttata in un angolino, nello stesso angolo dove ero stata io per anni senza capire che stavo solo sopravvivendo e non vivendo.
Con l'aiuto e con l'amore possiamo tutti tornare a riprenderci la nostra vita, non sarà di certo una passeggiata piacevole e senza inciampi, ma anche questo renderà la vittoria finale ancora più bella e scaccerà finalmente via la voglia di tornare a chiudersi in quella gabbia che toglie l'ossigeno e a lungo andare la vita.

Giorgia

domenica 22 ottobre 2017

L'anoressica obesa


Quante volte avete visto una cicciona mangiare come un uccellino? Addentare anche solo una mela con morsi piccoli, ma cadenzati?
Cosa avete pensato di lei? Quello che molti pensano dei ciccioni: “con tutto quello che ha mangiato per diventare così, non avrà di certo fame”. Certo, perché per voi “normali” la fame è qualcosa di conosciuto, di identificato. Il senso di fame, che cosa bella: hai fame quindi mangi. Poi ti sazi e smetti. Chi soffre di un disturbo alimentare non conosce il senso di fame, talvolta conosce i crampi allo stomaco, quelli a cui è abituato a resistere perché quel giorno deve digiunare. Quel giorno e altri giorni, per più giorni fino alla prossima abbuffata.
Ho raccontato tante volte la mia altalena tra un dca ed un altro, ma mi accorgo che ogni volta viene fuori un aspetto differente, questo perché le sfaccettature sono tante. Chi soffre, o meglio, chi ne ha sofferto ed ha avuto il modo di indagare sa. Chi si trova invece, ad avere a che fare con un malato non si renderà conto subito di quanto sta accadendo alla persona: siamo bravi a nascondere e a nasconderci, a far finta che tutto vada bene. Non lo facciamo per vittimismo, ma perché il digiuno ci esalta, ci fa sentire forti: ci dona la piacevole illusione che possiamo controllare la nostra vita mentre è la vita stessa che ci sta sfuggendo tra le mani.
Quindi?
Quindi dopo aver raggiunto i 130kg a 25 anni (ed innumerevoli diete da specialisti e poi fai da te), ho avuto la fortuna di poter chiedere aiuto. L’ho fatto silenziosamente, come silenziosissime e nascoste erano le mie abbuffate durante le quali riuscivo ad ingurgitare anche 2000/3000kcal in mezz’ora.
Ho trovato un gruppo di auto-aiuto: un piccolo forum con persone che si raccontavano. Trovare esperienze simili, background e dinamiche familiari così uguali alla mia mi ha fatto sentire a casa. Qualcuno era in cura, qualcuno no, ma tutti riuscivamo a darci una mano e iniziavamo ad analizzare con lucidità quanto accadeva. Rileggendo oggi quelle conversazioni, posso accorgermi dei periodi di non lucidità di ognuno di noi: la nostra forza era proprio il riuscire a svegliare l’altro dal torpore, risollevandolo dall’abisso in cui stava di nuovo scendendo. Iniziai a capire di come il vedermi diversa allo specchio a distanza di poche ore potesse essere un problema e non un’effettiva trasformazione: da un momento all’altro della giornata ero “gonfia – no però ora mi si vedono gli zigomi – ora no” e questo poteva cambiare sia l’esito della mia giornata, sia il mio comportamento nei confronti del cibo.
Questo percorso, dopo circa due anni, iniziò ad andare di pari passo con un’alimentazione controllata e l’inizio dello sport. Che bello vedere la bilancia scendere, che bello vedere che quei pantaloni taglia 64 iniziavano ad andare larghi. Lo scoglio psicologico dei 100kg e poi ancora giù. Ad 80 mi vedevo magra, ma ancora avevo paura a passare negli spazi stretti e a sedermi in un cinema con quei dannati braccioli in cui il mio enorme sedere non sarebbe entrato.
Quando perdi tanto peso è fisiologico che il tuo corpo vada in allarme e decida di fermarsi. Il tuo corpo si ferma, la tua testa no e all’improvviso ti ritrovi che non ti basta più perché tu non puoi più controllare il tuo corpo. E se non puoi controllare il tuo corpo significa che nulla più andrà come deve, come decidi che debba andare. I perché delle abbuffate compulsive possono essere tanti: per me, e l’ho capito solo dopo anni ed ora con la terapia, era energia inespressa. Mangiavo per accumulo, per tenere tutto con me, per controllare che tutto rimanesse con me. Si chiama paura dell’abbandono. Paura che l’abbandono dipenda da te stesso, da qualcosa che tu hai fatto.

Ad 80kg mi fermo. La bilancia non scende più. Inizio sessioni giornaliere di fitness che durano due ore. E non mangio. Il mio diario alimentare, strumento che oramai utilizzo da ben due anni ininterrottamente, sembra scritto da un colibrì a dieta. Giornate in cui mi reggo con una sola mela verde. Le abbuffate sono scomparse quasi del tutto, ma mi pongo l’obiettivo, quando faccio sport, di fare tre o quattro pasti che abbiano al massimo 100kcal ognuno. Annoto tutto. Anche i caffè non zuccherati. La caramella. Il morso al cioccolatino.
Piango, letteralmente piango, al pensiero di dover uscire e mangiare una pizza. Naturalmente l’unica cosa che avrei toccato quel giorno. Sono perfetta nella mia distruzione che va di pari passo con l’ossessione dell’apparire sempre eccessivamente in ordine: mai un capello fuori posto, mai un’unghia con lo smalto rovinato in un punto invisibile. Il nervosismo che deriva dal capire che una di queste cose non è andata come desidero e che non ho modo di rimediare mi fa diventare un’altra persona: buia, aggressiva.
Come ne sono uscita? La realtà è che ci è voluto tanto tempo: anche quando ho raggiunto un’apparente stabilità non ero ancora guarita del tutto. Oggi ho 35 anni e sebbene non abbia più abbuffate e non pratichi più il digiuno, sono ancora a parlarne. Ne parlo con chiunque sento ne abbia bisogno e ne parlo con la mia terapeuta. È proprio grazie a lei che ho capito di aver fatto tanta strada da sola fino a quel momento, ma che avrei avuto bisogno di una mano tesa dall’alto per sciogliere tutti i nodi che ancora mi tenevano stretta.
I dca sono come un’enorme lettera “Q”: è un continuo girotondo, ci si illude di poter uscire da quella coda, ma quando sei lì per imboccarla, il vortice ti riprende dentro.
Uscirne non è facile: fa paura, fa male, ma non farà mai tanto male quanto l’esserci dentro.

Diana C.