"Quella mattina non avevo in testa il solito
pensiero malato ma ero concentrata su un unico obiettivo: volevo dimostrare che
qualcosa dentro di me era cambiato, non solo a me stessa ma anche a lui, che
con me non si è mai arreso".
Così Michela ci racconta di una delle serate più
belle della sua vita da quando la malattia aveva rinchiuso la sua mente dentro
una gabbia, impedendole di vivere. Proprio da questo verbo nasce l'associazione
"Mi Nutro di Vita": fondata da Stefano Tavilla dopo che una delle
numerose malattie dovute a disturbi alimentari gli aveva portato via sua figlia
Giulia. Questa associazione non ha come obiettivo quello di risolvere problemi
ma di sostenere tramite un blog e alcuni incontri chi soffre di questo disagio
e le persone che fanno parte della loro vita. Proprio ad uno di questi incontri
ci hanno spiegato che “gabbia” non è un sostantivo qualunque, per queste
persone la “gabbia” diventa quel luogo in cui la malattia imprigiona i loro
pensieri e non permette loro di vedere la vita in modo normale ma solo
attraverso una lente distorta. Non è possibile esprimere le proprie emozioni in
questa realtà deformata se non attraverso il cibo, che per loro diventa un vero
e proprio linguaggio. Il cibo come linguaggio non è un concetto poi così
strano, basta pensare al premio più desiderato da un bambino: "se fai il
bravo ti compro il gelato".
“Mi sento impotente quando vedo mia figlia seduta a
tavola che non mangia mentre una volta era proprio il mio corpo a nutrirla, ora
non riesco e non posso farlo".
Il dolore di una madre che pronuncia queste parole
ci fa capire che a soffrire non è solo il malato ma anche la sua famiglia. Si
crea un circolo vizioso in cui i genitori si sentono responsabili mentre il
figlio si sente in colpa e sente sulle proprie spalle il peso della felicità
del nucleo familiare.
Michela aspetta fino all’ultimo momento per farsi
la doccia in modo tale da essere il più profumata possibile. Posticipa l’uscita
con il fidanzato verso il tardo pomeriggio per riuscire a farsi invitare a cena
fuori. Il momento di fare il passo decisivo è arrivato ma ancora una volta il
pensiero malato torna travolgendola con le solite domande: cosa avrebbe dovuto
e potuto mangiare, quante calorie avrebbe assunto con un solo pasto, quanto
condimento ci sarebbe stato nel piatto e se il digiuno che aveva prontamente
organizzato sarebbe bastato a compensare tutte le calorie assunte quella
sera.
Mentre ragiona su tutto ciò lui è lì con lei e
conoscendola bene si rende conto che sta cedendo alla malattia. Non la
abbandona.
Le pone davanti un bivio: farlo per davvero o
ancora una volta posticipare la svolta a un futuro incerto.
Lei pensa alla sensazione di impotenza e sconfitta
che aveva provato quando la sua psicologa le aveva detto che non avrebbe più
potuto seguirla poiché dopo vent’anni di anoressia la malattia era diventata
cronica; aveva deciso che quella non era la vita che voleva vivere ma era anche
consapevole del fatto che non avrebbe potuto farcela da sola. Si era presentata
al gruppo di ascolto organizzato dall’associazione e sentendo storie di persone
che effettivamente ce l’avevano fatta si accorse che anche lei voleva mettere
un punto definitivo a tutta questa storia.
Decide allora di vincere questa battaglia mettendo
a tacere le voci che provenivano dalla gabbia e andando a cena fuori.
Il giorno dopo sembra a Michela essere il giorno di
una altra vita, una vita migliore senza quel punto fisso che non le permetteva
di essere felice. Quella sera si era resa conto di quanto fosse bello e di
quanto le fosse mancato vivere.
Nessuno si salva da solo.
Giulia
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