Ci sono volte in cui credi di vincere e in realtà stai perdendo.
Ho 23 anni e quando avevo 19 anni mi sono ammalata di anoressia nervosa: il ricordo più nitido di quei giorni è la sensazione di onnipotenza nel dominare il mio corpo.
Ero talmente forte da poter controllare i suoi istinti naturali, sconfiggevo la fame dicendo semplicemente “non hai davvero bisogno di cibo” e funzionava, perché passava veramente; avevo inoltre il controllo della forma del mio corpo, che si incasellava perfettamente nei paradigmi di realtà che avevo decretato essere bellezza.
Una realtà numerica, fatta di grammi e centimetri, oggettiva e che mi sembrava meritocratica: se mi fossi adeguata ai suoi standard sarei sicuramente stata bella e dunque avrei avuto più amici, l’università sarebbe andata bene, avrei trovato l’amore… la mia vita, insomma, sarebbe stata migliore.
In questo cosmo ordinato anche le mie parole erano nette e precise, frasi preconfezionate come “no grazie per me basta, non ho molta fame” o “ah dici che sono dimagrita? A me non sembra…”, frasi che funzionavano sempre.
Ho capito che era tutto una fragile impalcatura quando ho dovuto inserire quelle frasi in un dialogo, quando ho capito che il confronto con gli altri, da me prima usato come metro di valutazione, era invece la presa di coscienza che ciò che io credevo vero era la mia soggettiva visione della realtà; il passo successivo è stato capire che questo modo soggettivo di vedere il mondo, anche se mi faceva sentire potente, mi stava danneggiando: non potevo camminare tutto il giorno come gli altri, non potevo scegliere il pranzo in base al gusto ma solo in base alle calorie, non potevo avere il ciclo come le altre ragazze, non potevo studiare, non potevo ridere, non potevo volere ciò che in realtà volevo.
Allora ho deciso di andare al Centro Disturbi del Comportamento Alimentare della mia città e iniziare un percorso di cura, per provare ad ottenere una forza vera, non quella illusoria che avevo avuto fino a quel momento.
Ci sono voluti due anni e tante ore di dialogo, con tutti: la mia terapista, il mio ragazzo, la mia famiglia, i miei amici, le persone che conoscevo in rete, i miei compagni di università, le mie amiche… non ho mai nascosto a nessuno la mia malattia perché io avevo bisogno di parole.
Alla fine ho capito che non avevo bisogno di una vera forza perché non c’era un modo giusto o sbagliato di dominare la realtà, semplicemente non avevo bisogno di dominarla per essere felice, ma di pormi accanto alle cose che succedevano e vedere insieme a loro come affrontarci a vicenda.
Non esistono paradigmi corretti o correlazioni lineari, la mia stessa malattia era un grumo di emozioni, sogni e paure che poteva essere districato solo attraverso il dialogo, traducendo tutti questi aspetti a parole non per controllarli, ma per comunicarli a qualcuno, perché comunicare ed esprimermi era, ed è, il modo più bello che ho di stare a questo mondo.
Ho vinto sulla malattia quando ho capito che non c’erano vincitori e ho cominciato a prendere le mano i miei problemi, senza cercare di dominarli ma proseguendo con loro il cammino, cercando di confrontarmi con essi.
Grazie a questo alcuni se ne sono andati naturalmente, con leggerezza, altri rimangono con me e continuano talvolta a rallentarmi, mi confondono e cercano di farmi cambiare strada.
Io però non li abbandono perché so che poi tornerebbero a colpirmi: sto accanto a loro e provo a capire perché fanno così, discuto con loro e di loro con gli altri.
Cammino una parola alla volta cercando dei sorrisi che non si misurano in grammi.
Eleonora