mercoledì 12 dicembre 2018

Rifiorire


Mi guardavo allo specchio e mi vedevo enorme, ingombrante, perfettamente in salute. Ma i medici e i miei genitori erano preoccupati, ed io non capivo la loro preoccupazione, non capivo le lacrime di mamma, non capivo le urla nell’ora dei pasti, non capivo la negazione davanti alla mia richiesta di fare una semplice passeggiata. Tutto stava precipitando, compresa la mia voglia di vivere, il mio peso, e la mia voglia di reagire. La felicità stava diventando qualcosa di lontano, un ricordo, un sentimento che non potevo più vivere per chissà quale colpa. Perché si, io mi sentivo tremendamente in colpa come se avessi fatto qualcosa di davvero grave, ma allo stesso tempo non riuscivo a capire cosa. L’unica cosa che sapevo, è che dentro di me si era rintanato un mostro, che mi diceva di non mangiare, che mi sussurrava di essere un fallimento, che mi trattava sempre male, che mi costringeva ad andare a camminare e fare esercizi. Mi sentivo così male, mi sentivo vuota, ricordo pomeriggi passati sul letto a guardare il soffitto, con dentro quella sensazione di malessere immenso.
L’anoressia non è solo l’atto di non mangiare o mangiare poco e determinate cose, l’anoressia è una patologia vera e propria, che logora l’anima, il corpo e la mente. Ancora oggi, nel 2018, sento dire da molte persone o leggo sui social network tanta disinformazione a riguardo, dunque sarebbe meglio che la gente prima di parlare si informasse. Perché di anoressia si muore, di anoressia si sta davvero male. Ho passato 5 lunghi anni in questo tunnel, sono stata in comunità, ho urlato, pianto, preso a pugni il muro, volevo andare via. Ma i miei genitori mi hanno dato la forza di restare, e non ci siamo arresi. Dopo la comunità sono stata in ospedale, e lì ho aperto totalmente gli occhi. Mi sono spaventata tanto, avevo paura di morire. Per la prima volta, dopo cinque anni ho capito la gravità della situazione. Ed ho deciso di prendere in mano la mia vita, per davvero. 
In comunità ho conosciuto molte ragazze con un dca, ho visto tante lacrime sui loro visi, ho visto corpi emaciati, ho visto persone urlare e correre via dalla sala pranzo, ho visto ragazze che camminavano ossessivamente in pochi metri quadri di stanza. Anche io iniziai a farlo. Dopo mangiato mi faceva sentire meno in colpa, e allora mi chiedevo in una stanza a caso e camminavo, come un cane in gabbia. Poi iniziai a farlo anche di prima mattina, quando salivamo al piano di sopra per fare colazione, io ci andavo venti minuti prima, e mi mettevo in una stanza, e camminavo in cerchio. Non mi sentivo una pazza, mi sentivo bene perché mi toglieva un po’di malessere e allora iniziai a farlo ogni giorno. Dopo qualche giorno però, le educatrici iniziarono a sorprendermi mentre camminavo, e ovviamente mi facevano uscire dalla stanza. A volte però, nonostante il loro richiamo, io continuavo, senza darne importanza. In comunità avevamo la possibilità di incontrare i genitori il fine settimana, dunque vedevo mia madre e mio padre il sabato o la domenica, e andavamo a fare un giro rigorosamente in macchina, come specificato dalle educatrici, nei paesi vicini o in qualche parco. Io però, abituata alle mie lunghe camminate, mi sentivo fortemente a disagio nello stare ferma, allora costringevo i miei genitori a fare delle passeggiate, brevi, ma avrei fatto di tutto pur di non restare seduta in macchina. Ricordo che una volta mi portarono in una villetta, con delle giostrine per bambini, io mi precipitai sullo scivolo e inizia a giocare, non curante della gente. 
Avevo 17 anni, ma dentro mi sentivo una bambina. Io volevo rimanere tale. Non volevo crescere. Di cosa avevo paura? Cosa mi bloccava? Spesso la psicologa della comunità mi faceva queste domande, ma io restavo in silenzio perché non sapevo proprio cosa dire. Durante le sedute ero distante. Volevo solo uscire da quella stanza e andare in camera a camminare. Quello era il mio principale obbiettivo della giornata, camminare, bruciare.
È davvero quella la vita che volevo? 
La vita è bella ragazzi, la vita va vissuta, non sprecata in una stanza a spegnersi sempre di più.
Abbiate il coraggio di rifiorire.
 
Cristina
 
 

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