venerdì 22 marzo 2019

Senza prova evidente


Li sentivo i brusii, le risatine e poi la prof, quella di matematica mentre eravamo tutti in fila aspettando suonasse la campanella “ma com’è che sei così grassa?”. I medici, i parenti, chiunque mi conoscesse, perché io ero quella grassa, quella enorme, quella del “ma non la fai la dieta?” racchiuso in un sorriso mesto di commiserazione.
Ma che ne sanno loro del buio che ti avvolge quando non ti guardi più allo specchio, della paura della luce che possa mostrarti così come sei, mentre affondi le mani e la bocca nella tua nascosta disperazione. Sono solo io e le mille carte chiuse nel cassetto di qualsiasi cosa che possa riempirti lo stomaco, sfondarti lo stomaco, avere quella sensazione di pieno che non riesco a darmi da sola.
Ancora una volta sono solo io e la mia vergogna. Sono solo io e la luce, quella confortante del frigorifero, quella degli scaffali dei supermercati, immensi e sempre accessibili.
Piangi? Cosa piangi? Non piangere, sono forte. Sono più forte anche di tutto questo, devo resistere a tutto il mondo fuori - voglio nascondermi, mangio. Voglio diventare invisibile, mangio -. Tutto si incrina, la vita è il rumore di uno specchio che va in mille frantumi ed è impossibile non guardarsi mille volte ora. Ma quello che si rompe può solo creare qualcosa di nuovo: sono bella, sono io. Sono la persona che desidero essere, mentre la luce riassume toni più naturali, riesco a vedere il sole. Esco a vedere il sole.
La mano tesa è solo la mia e la vedo con i miei stessi occhi che tanto mi hanno mortificato; la bocca serve a parlare, a chiedere aiuto non solo ad afferrare dalla credenza la mia sicurezza mangiabile.
Un passo, due e poi cado. Tre, quattro: i giorni hanno tutti una fine, ma tanti vorrei non iniziassero. Ho le mani che tremano, ho caldo, ho freddo, mangio, non ho fame, sono un drogato. Il primo morso è la mia dose di felicità, poi non li conto più, non li sento più. Mi chiudo, ma non chiudo la bocca e le mani continuano nervose ad afferrare: paura, vergogna, spavento, disgusto. Provo disgusto per tutto questo, ma non posso smettere. Provo disgusto per me stessa e vorrei smettere. Smettere me stessa. Finire. Finirla qui.
Cinque, sei, forse non cado; forse si, ma mi rialzo. Cadere non è l’ultima cosa che farò.
Sette, otto, trenta. Trenta giorni senza binge. Trenta giorni di vita: quella vera. Quella che ti fa arrabbiare, che ti fa gioire, che ti fa stancare, ma perché è vita e sono io ad averne il pieno possesso.
Esco e vedo il sole. Sono diversa, gli altri mi vedono diversa: sono io. Ora sono io, sono me stessa. Sono nel mondo, occupo spazio nel mondo: non ho paura di farlo. Sorrido, parlo, mi muovo e sono affamata, si, affamata di ore che corrono troppo veloci e di sapori, odori.
Oggi, duemilacentrotrentasei giorni di vita. 

D.

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