L’articolo che segue non vuole risultare l’ennesimo trafiletto che propone numeri e statistiche sterili su quanto concerne l’ambito dei disturbi del comportamento alimentare. Non che questi dati non siano rilevanti ai fini di una presa di coscienza del problema che dilaga nella società contemporanea in maniera sempre più preoccupante, ma vi sono altre componenti che andrebbero sottoposte all’attenzione dei lettori. Ciononostante, per amor di chiarezza, ritengo sia opportuno fare alcune precisazioni di sorta per fugare eventuali dubbi e domande in merito al tema proposto.
Negli ultimi tempi si sente sempre più di frequente parlare di DCA, ossia i disturbi del comportamento alimentare, ma quanti sanno realmente di cosa si tratta?
I DCA sono patologie che si manifestano attraverso un’alterazione delle abitudini alimentari e da una spasmodica ossessione per il corpo e la propria immagine. I principali disturbi del comportamento alimentare sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo dell’alimentazione incontrollata, noto anche come bingeeatingdesorder.
Negli studi condotti in merito ai disordini alimentari si tiene conto non solo dei fattori genetici, biologici e psicologici ma anche della compresenza di fattori culturali e sociali, tra i quali assumono grande rilevanza i messaggi veicolati dai mass media. Tuttavia, è improprio attribuire all’idea di perfezione fisica e di magrezza, spesso legate all’idea del successo, la colpa in toto dell’insorgere di un disturbo alimentare, anche se sarebbe molto più semplice circoscrivere l’unica causa all’ambito della percezione corporea e della spasmodica ricerca della perfezione. Le cause di un DCA, infatti, sono molteplici e spesso variano da persona a persona, pertanto il modello multifattoriale appare il più adatto a fornire una spiegazione.
Parlando con persone affette da DCA, sovente, è emersa l’importanza del “non detto”, in cui, data l’incapacità di esprimere il dolore a parole, il corpo diventa veicolo di informazione per “dar voce” ad una sofferenza interiore. La mancanza di comunicazione entra a far parte del novero dei possibili fattori predisponenti. A tal proposito vorrei riportare brevemente le parole di una ragazza affetta da anoressia nervosa: “Non mi sento un numero di quelle statistiche. Non sono stati i modelli proposti dai mass media a farmi cadere nel circolo vizioso dell’anoressia. Certo non sono qui a negare che sia una delle possibili cause, ma ricondurre tutto e circoscriverlo al mero aspetto fisico lo trovo riduttivo, se non addirittura offensivo. Una soluzione facile e populista, rafforzata da preconcetti e basata su pregiudizi. Vuoi sapere la verità? Io mi piacevo prima di ammalarmi. Sono diventata uno scheletro non per ricercare la perfezione o emulare le modelle che sfilano in passerella, ma per suscitare repulsione. Volevo rabbrividire ogni qualvolta incrociassi il mio riflesso nello specchio. Incredibile, non è vero?”.
Questa confessione mi colpì. Quella ragazza non aveva mai desiderato diventare magrissima per imitare un modello, tutt’altro. Cadere nello stereotipo e finire per generalizzare è un errore, ma non per questo è ineliminabile. Bisogna, tuttavia, essere disposti ad affrontare una realtà con più di una sfaccettatura, non lasciarsi ingannare da falsi preconcetti o accettare semplicistiche soluzioni, e non arrendersi qualora le risposte non siano capaci di soddisfarci in toto.
Vorrei mostrare ai lettori cosa possa significare tenere un segreto nascosto, o avere una ferita ancora aperta sepolta nel profondo e quali contorti meccanismi si possano progressivamente innescare nell’individuo che li custodisce.Quando le parole non sono sufficienti e se ne prova timore e vergogna, molteplici ed ingegnosi sono i modi che le persone trovano per esprimersi, alcuni dei quali si rivelano potenzialmente devastati.
Pensieri ingannevoli condizionano una persona affetta da anoressia. Non è pienamente se stessa, all’interno della sua mente si innescano meccanismi perversi che la inducono a credere solamente alla “voce” della malattia, che la tiene per mano come una compagna fedele e la persuade a diffidare da tutto quello che le altre persone possano dire o fare. Nella maggior parte dei casi, un’insistenza eccessiva nell’offrire un aiuto induce chi è afflitto dalla malattia a rifugiarsi ancora di più dentro di essa, perché nel suo abbraccio si sente forte e al sicuro.
Il messaggio che vorrei trapelasse è che gli iniqui giudizi pronunciati da chi convive con tale patologia, spesso non sono altro che parole dettate da convinzioni alterate e percezioni sfalsate. Vorrei chiedere a tutti quei genitori che devono affrontare questa lotta accanto al proprio figlio di non smettere mai di sostenerlo, talvolta anche quando l’unica scelta da fare è quella di sopportare docilmente parole taglienti e avvelenate o di farsi momentaneamente da parte. E per quanto ci si possa sentire impotenti e per quanto possa essere struggente e angosciante assistere all’autodistruzione del proprio figlio, che lenta e inesorabile lo trascina verso l’abisso, non bisogna mai smettere di lottare e perseverare, vegliando su di loro.
E tante saranno le volte che si avrà la percezione di sbagliare e che qualunque decisione risulti inutile, ma quando la persona che soffre riuscirà finalmente a liberarsi dal demone si renderà conto di tutti sforzi fatti, delle altrui battaglie, di quanto dolore ha arrecato e sarà grata per aver avuto qualcuno al proprio fianco che non si è mai arreso. E ci vuole una forza sovrumana nel rimanere a guardare il proprio figlio, giorno dopo giorno, avvicinarsi sempre di più all’orlo dell’abisso e vederlo danzare su quel filo sottile che si interpone tra la vita e la morte con tanta disarmantefacilità. Le parole che spesso ho sentito ripetere sono state “qualunque cosa io faccia, è sempre sbagliata”, perché offrire un aiuto induce a chiudersi ancor di più in se stessi e peggiorarne le condizioni fisiche; viceversa, non fare nulla viene percepito come menefreghismo, il quale ha un effetto altrettanto annichilente sulla psiche, in quanto induce un particolare tipo di pensiero: “tanto a nessuno importa se vivo o muoio”. Quelle madri avevano tutte l’impressione di trovarsi in un circolo vizioso dal quale era pressoché impossibile uscire. In aggiunta, ascoltando le parole di una di loro, la cui figlia, affetta da anoressia nervosa, era quasi giunta al punto di non ritorno, capii la devastante sensazione di inettitudine alla quale era costretta a sottostare: “la cosa più straziante è sentirsi del tutto impotenti di fronte al deperimento costante della persona a cui si vuole più bene al mondo. Hai la persona che ami più della tua stessa vita davanti agli occhi e non riesci a fare nulla per aiutarla”.
Le persone che vivono indirettamente queste patologie devono armarsi di una grande forza d’animo e non lasciarsi abbattere, sopportare le critiche e i commenti sprezzanti pronunciati con cattiveria da coloro che amano, ma la cui voce è stata rubata dalla malattia. Non bisogna arrendersi ma perseverate nella lotta, perché quando coloro che sono affetti da un DCA cesseranno di essere succubi del canto seducente della malattia, si renderanno conto di non essere stati lasciati soli. Ci vorrà del tempo, forse più di quanto ciascuno sarebbe disposto a sopportare, ma bisogna aver fede che arriverà quel momento.
Non bisogna giudicare senza conoscere, né emettere sentenze sulla base di stereotipi e pregiudizi o cedere all’inganno dei luoghi comuni per trovare facilmente una spiegazione. Ma soprattutto vorrei fare un appello a non arrendersi mai nel supportare coloro che si amano anche quando sembra che non vogliano il nostro aiuto. Colmate i silenzi e non rifugiatevi in un ostinato mutismo: non ho chiesto aiuto a parole, ma l’urlo di dolore espresso dal mio esile corpo mi ha quasi condotto là dove le parole non sarebbero più servite.
Lottate e non arrendetevi, e forse, un giorno o l’altro, sarete di nuovo capaci di apprezzare quel vecchio dono che vi fu dato nell’esatto istante in cui veniste al mondo: la vita. Riscopritela e riempitela di nuovo di colori, potreste anche correre il rischio di rimanere sorpresi.
Negli ultimi tempi si sente sempre più di frequente parlare di DCA, ossia i disturbi del comportamento alimentare, ma quanti sanno realmente di cosa si tratta?
I DCA sono patologie che si manifestano attraverso un’alterazione delle abitudini alimentari e da una spasmodica ossessione per il corpo e la propria immagine. I principali disturbi del comportamento alimentare sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo dell’alimentazione incontrollata, noto anche come bingeeatingdesorder.
Negli studi condotti in merito ai disordini alimentari si tiene conto non solo dei fattori genetici, biologici e psicologici ma anche della compresenza di fattori culturali e sociali, tra i quali assumono grande rilevanza i messaggi veicolati dai mass media. Tuttavia, è improprio attribuire all’idea di perfezione fisica e di magrezza, spesso legate all’idea del successo, la colpa in toto dell’insorgere di un disturbo alimentare, anche se sarebbe molto più semplice circoscrivere l’unica causa all’ambito della percezione corporea e della spasmodica ricerca della perfezione. Le cause di un DCA, infatti, sono molteplici e spesso variano da persona a persona, pertanto il modello multifattoriale appare il più adatto a fornire una spiegazione.
Parlando con persone affette da DCA, sovente, è emersa l’importanza del “non detto”, in cui, data l’incapacità di esprimere il dolore a parole, il corpo diventa veicolo di informazione per “dar voce” ad una sofferenza interiore. La mancanza di comunicazione entra a far parte del novero dei possibili fattori predisponenti. A tal proposito vorrei riportare brevemente le parole di una ragazza affetta da anoressia nervosa: “Non mi sento un numero di quelle statistiche. Non sono stati i modelli proposti dai mass media a farmi cadere nel circolo vizioso dell’anoressia. Certo non sono qui a negare che sia una delle possibili cause, ma ricondurre tutto e circoscriverlo al mero aspetto fisico lo trovo riduttivo, se non addirittura offensivo. Una soluzione facile e populista, rafforzata da preconcetti e basata su pregiudizi. Vuoi sapere la verità? Io mi piacevo prima di ammalarmi. Sono diventata uno scheletro non per ricercare la perfezione o emulare le modelle che sfilano in passerella, ma per suscitare repulsione. Volevo rabbrividire ogni qualvolta incrociassi il mio riflesso nello specchio. Incredibile, non è vero?”.
Questa confessione mi colpì. Quella ragazza non aveva mai desiderato diventare magrissima per imitare un modello, tutt’altro. Cadere nello stereotipo e finire per generalizzare è un errore, ma non per questo è ineliminabile. Bisogna, tuttavia, essere disposti ad affrontare una realtà con più di una sfaccettatura, non lasciarsi ingannare da falsi preconcetti o accettare semplicistiche soluzioni, e non arrendersi qualora le risposte non siano capaci di soddisfarci in toto.
Vorrei mostrare ai lettori cosa possa significare tenere un segreto nascosto, o avere una ferita ancora aperta sepolta nel profondo e quali contorti meccanismi si possano progressivamente innescare nell’individuo che li custodisce.Quando le parole non sono sufficienti e se ne prova timore e vergogna, molteplici ed ingegnosi sono i modi che le persone trovano per esprimersi, alcuni dei quali si rivelano potenzialmente devastati.
Pensieri ingannevoli condizionano una persona affetta da anoressia. Non è pienamente se stessa, all’interno della sua mente si innescano meccanismi perversi che la inducono a credere solamente alla “voce” della malattia, che la tiene per mano come una compagna fedele e la persuade a diffidare da tutto quello che le altre persone possano dire o fare. Nella maggior parte dei casi, un’insistenza eccessiva nell’offrire un aiuto induce chi è afflitto dalla malattia a rifugiarsi ancora di più dentro di essa, perché nel suo abbraccio si sente forte e al sicuro.
Il messaggio che vorrei trapelasse è che gli iniqui giudizi pronunciati da chi convive con tale patologia, spesso non sono altro che parole dettate da convinzioni alterate e percezioni sfalsate. Vorrei chiedere a tutti quei genitori che devono affrontare questa lotta accanto al proprio figlio di non smettere mai di sostenerlo, talvolta anche quando l’unica scelta da fare è quella di sopportare docilmente parole taglienti e avvelenate o di farsi momentaneamente da parte. E per quanto ci si possa sentire impotenti e per quanto possa essere struggente e angosciante assistere all’autodistruzione del proprio figlio, che lenta e inesorabile lo trascina verso l’abisso, non bisogna mai smettere di lottare e perseverare, vegliando su di loro.
E tante saranno le volte che si avrà la percezione di sbagliare e che qualunque decisione risulti inutile, ma quando la persona che soffre riuscirà finalmente a liberarsi dal demone si renderà conto di tutti sforzi fatti, delle altrui battaglie, di quanto dolore ha arrecato e sarà grata per aver avuto qualcuno al proprio fianco che non si è mai arreso. E ci vuole una forza sovrumana nel rimanere a guardare il proprio figlio, giorno dopo giorno, avvicinarsi sempre di più all’orlo dell’abisso e vederlo danzare su quel filo sottile che si interpone tra la vita e la morte con tanta disarmantefacilità. Le parole che spesso ho sentito ripetere sono state “qualunque cosa io faccia, è sempre sbagliata”, perché offrire un aiuto induce a chiudersi ancor di più in se stessi e peggiorarne le condizioni fisiche; viceversa, non fare nulla viene percepito come menefreghismo, il quale ha un effetto altrettanto annichilente sulla psiche, in quanto induce un particolare tipo di pensiero: “tanto a nessuno importa se vivo o muoio”. Quelle madri avevano tutte l’impressione di trovarsi in un circolo vizioso dal quale era pressoché impossibile uscire. In aggiunta, ascoltando le parole di una di loro, la cui figlia, affetta da anoressia nervosa, era quasi giunta al punto di non ritorno, capii la devastante sensazione di inettitudine alla quale era costretta a sottostare: “la cosa più straziante è sentirsi del tutto impotenti di fronte al deperimento costante della persona a cui si vuole più bene al mondo. Hai la persona che ami più della tua stessa vita davanti agli occhi e non riesci a fare nulla per aiutarla”.
Le persone che vivono indirettamente queste patologie devono armarsi di una grande forza d’animo e non lasciarsi abbattere, sopportare le critiche e i commenti sprezzanti pronunciati con cattiveria da coloro che amano, ma la cui voce è stata rubata dalla malattia. Non bisogna arrendersi ma perseverate nella lotta, perché quando coloro che sono affetti da un DCA cesseranno di essere succubi del canto seducente della malattia, si renderanno conto di non essere stati lasciati soli. Ci vorrà del tempo, forse più di quanto ciascuno sarebbe disposto a sopportare, ma bisogna aver fede che arriverà quel momento.
Non bisogna giudicare senza conoscere, né emettere sentenze sulla base di stereotipi e pregiudizi o cedere all’inganno dei luoghi comuni per trovare facilmente una spiegazione. Ma soprattutto vorrei fare un appello a non arrendersi mai nel supportare coloro che si amano anche quando sembra che non vogliano il nostro aiuto. Colmate i silenzi e non rifugiatevi in un ostinato mutismo: non ho chiesto aiuto a parole, ma l’urlo di dolore espresso dal mio esile corpo mi ha quasi condotto là dove le parole non sarebbero più servite.
Lottate e non arrendetevi, e forse, un giorno o l’altro, sarete di nuovo capaci di apprezzare quel vecchio dono che vi fu dato nell’esatto istante in cui veniste al mondo: la vita. Riscopritela e riempitela di nuovo di colori, potreste anche correre il rischio di rimanere sorpresi.
Camilla Accornero