sabato 29 agosto 2020

Lo sguardo che cura - Laboratorio 19 agosto 2020

 


Il laboratorio è iniziato con una tematica che spesso compare tra le problematiche da affrontare in un percorso di cura: il rapporto con la psicoterapia. Spesso il percorso psicoterapeutico viene affrontato dalla propria figlia/figlio con ostilità. In realtà questo può avvenire perché inizialmente sorgono in maniera naturale dei meccanismi di difesa che cercano di proteggere dal pericolo del cambiamento che la psicoterapia in qualche modo minaccia di voler apportare. Ecco allora che cominciano ad affiorare commenti del tipo: “Lo psicologo non mi piace”. “Lo psicologo non capisce niente”. “Io da quel psicologo non ci vado perché intanto non serve a nulla”... Ovviamente, di fronte a tali affermazioni, non ci si deve scoraggiare perché, come scritto precedentemente, sono naturali passaggi di messa in atto di meccanismi di difesa. Come non ci si deve sentire sbagliati e impotenti qualora la propria figlia/figlio scarica tutta la frustrazione e inadeguatezza provata nel setting terapeutico attraverso l’aggressività o al contrario il rinchiudersi ermeticamente in se stessa/o creando un clima di palpabile tensione tra le mura domestiche. È però importante che la terapia possa essere intrapresa poiché dalla malattia non si può guarire da soli. Lo stesso discorso vale per la famiglia che non può assolutamente essere lasciata sola ad affrontare le dinamiche messe in atto dal disturbo alimentare. È come se nel tempo si venisse a creare un cordone ombelicale che tiene legati a se’ figli e genitori, creando una fusione talmente invischiante che rende impossibile qualsiasi tentativo di indipendenza e autonomia. Diventa allora necessario tagliare questo cordone, ma farlo, come giustamente ha evidenziato una mamma, provoca dolore. E in effetti è così se tale taglio avviene senza gli strumenti adeguati. E quali sono questi strumenti? Sono i propri pensieri, giudizi, sguardi, descrizioni che si sono costruiti nel tempo intorno al disturbo alimentare e che occorre andare a modificare perché è attraverso il modo in cui si osserva la malattia che si viene a sviluppare il comportamento che si assume di fronte ad essa. Una mamma a tal proposito ha raccontato la sua esperienza di questi giorni in cui trovandosi in montagna riceve quotidianamente lunghi messaggi dalla propria figlia che cerca in tutti i modi di farla rinunciare alla vacanza per far ritorno a casa e ristabilire quell’ambiente di confort zone che la malattia ha costruito interno a se’. Nel tempo questa mamma ha imparato a interpretare il linguaggio della malattia distinguendolo dal linguaggio sano che l’ha portata in questi giorni a non cedere più a simili richieste. A questo punto ci siamo domandati quanto sia importante ritrovare il proprio spazio, i propri interessi, le proprie emozioni. Ma soprattutto ci si è voluti chiedere : “ Come era la propria vita prima della malattia? Come era stare in compagnia della propria figlia/ figlio? Come era la quotidianità senza il disturbo alimentare?”. È importante rispondere a queste domande e lo si può fare andando a ricercare i ricordi della propria storia che la malattia nel frattempo ha saputo astutamente nascondere.
Riprendere in mano il proprio vissuto significa riportare alla luce quel prezioso legame che unisce un padre e una madre alla propria figlia/figlio. A tutti i genitori sarà capitato di vivere l’esperienza in cui la propria bambina/bambino ha cominciato a imparare a camminare. Immaginiamo la scena.
“Il bambino/La bambina è davanti a noi a pochi metri di distanza. Muove un passo, due, tre. Ci guarda sorridendo e noi lo guardiamo con amore aspettandolo con le braccia aperte. Ad un certo punto cade, comincia a piangere.. ma noi, non smettendo mai di guardarlo con amore, gli diciamo che non è successo nulla, di rialzarsi che lo stiamo aspettando. Il bambino sorride, si rialza da solo, muove un passo, poi un altro e un altro ancora fino ad arrivare finalmente a noi. E a questo punto lo prendiamo in braccio trasmettendogli tutta la nostra protezione e presenza”. Questa scena rappresenta la metafora dell’atteggiamento che un genitore può rimettere in atto di fronte al disturbo alimentare. I genitori non possono intraprendere il percorso terapeutico che è diretto alla propria figlia/figlio però possono mantenere vivo quello sguardo di amore, fiducia, sostegno che si è saputo trasmettere quando lui/lei era piccolo/a. Questo è il significato del ritornare a riprendere in mano la propria storia, il legame e il linguaggio costruito tra genitori e figli. Certo non è facile.
Per questo è nato il laboratorio. Attraverso la condivisione ognuno può trovare tra le righe di ogni storia frammenti di esperienze in cui ritrovarsi e scorgere la propria risposta. Riuscire a comprendere le dinamiche della malattia significa riuscire anche a dare un valore a ciò che accade e tutto questo riduce la forza e l’energia distruttiva che il disturbo alimentare porta dentro di se’ poiché ogni tipo di sofferenza nasce dalla mancanza di senso. Una mamma la cui figlia sta affrontando un percorso di cura in una struttura apposita, è voluta intervenire ponendo un suo quesito che le sta accadendo in questi giorni e a cui non sa dare un significato. La propria figlia le sta esprimendo la esplicita volontà a non voler condividere con lei alcune problematiche legate al rapporto con la malattia che sorgono all’interno della struttura stessa. Se la madre cerca di farle qualche domanda a riguardo, si arrabbia rispondendo con molta aggressività. Probabilmente questa rabbia rappresenta la percezione del non essere visti se non attraverso l’identità del disturbo alimentare. La malattia si è impossessata del corpo e continuare a vedere l’altro solamente attraverso di esso vuol dire non vederlo nella sua essenza vera, vuol dire rinnegare la sua anima, la sua identità. Ecco allora che la scena del bambino che cerca lo sguardo del genitore mentre sta imparando a camminare esprime come questa ricerca non abbia mai smesso di esistere. Ed è per questo che è importante riuscire a ritrovare quello sguardo che sa arrivare
all’anima della propria figlia/figlio. Emozionante la condivisione di un’altra mamma la cui figlia è
riuscita, dopo tanti anni di silenzio e allontanamento, a ricontattare il suo papà per chiedergli aiuto. Perché è inutile girovagare tanto, alla fine la vita riconduce sempre laddove ci sono le proprie origini, laddove ci sono i propri genitori, laddove c’è quello sguardo che ha trasmesso l’essenza di essere visti.
La frase che contrassegna questa settimana è: LO SGUARDO CHE CURA.

 

 

lunedì 24 agosto 2020

Urlate contro la malattia

 


Quando mi ammalai 5 anni fa mi ritenevo la persona più determinata e forte dell'universo, sapevo fare ciò che nessuno era in grado di fare: non mangiare. Riuscivo a sopravvivere senza toccare il nettare vitale degli altri uomini, come fossi una divinità, una potenza imbattibile. Iniziai a prendere distanza dal resto del mondo, dalla società, dal cibo e anche da me stessa come se fossi planata su Marte con l'anima e la testa, mentre il corpo vuoto e inerme rimaneva sulla Terra privo di ogni motivazione, passione, sentimento. Iniziai a circondarmi virtualmente di persone che approvavano le mie idee e addirittura mi davano consigli, pensavo di aver trovato le amiche vere e sincere che mi mancavano, diventai completamente una loro schiava, un burattino che potevano manovrare come meglio credevano. Le giornate passavano senza che io me ne accorgessi, il momento più bello era la sera quando mi pesavo e vedevo il numero scendere, la gioia si impossessava di me e mi spingeva a fare sempre di più: correre di più, ridurre di più,mentire di più. Non mi accorgevo che passo dopo passo mi avvicinavo al baratro, al confine che separava la vita dalla morte, la caduta definitiva dalla speranza di poter risalire, vedevo le facce delle persone che mi circondavano cambiare quando si avvicinavano e io interpretavo i loro sguardi terrificati come invidiosi, io stavo vincendo e loro perdenti non riuscivano neanche a partire, ero un'illusa.
35 chili, lacrime, urla e crisi isteriche, ma io dentro sapevo che avevo un obiettivo molto lontano ancora e non avrei mollato, mai, ero una vincente e dovevo dimostrarlo a me stessa, agli altri, all'intera galassia.
Cinque anni dopo, mi guardo indietro, spesso mi manca quel corpo, quella sensazione di onnipotenza, gli sguardi degli altri sempre addosso, mi sentivo desiderabile e capace di qualcosa per la prima volta nella mia vita, la malattia mi aveva regalato un'identità che credevo di non avere, poi apro gli occhi, accendo la lampadina della razionalità e realizzo quanto quel brodo di giuggiole in cui mi sentivo immersa era fittizio, falso, meschino. Ho perso tutto, ho lasciato la mia esistenza in stand-by per tanto, troppo tempo, ho smesso di leggere, di imparare, di uscire, di ridere, di sentire emozioni, di esperire e ora mi sento, a 18 anni, come una bambina di 14, che non ha una struttura, che deve ancora crescere, ma in realtà sono già cresciuta.
Vorrei urlare di chiudere le porte quando l'anoressia inizia a bussare, perché ti penetra nel corpo e ne occupa ogni atomo, divorando tutte le energie e gli istinti presenti, sostituendoli con odio, rabbia, fame di vittoria (una vittoria mortale e irraggiungibile).
Quanto è vile la malattia, ama giocare facile, vincere facile colpendo anime deboli e disarmate, adesso ogni qualvolta che affronto e distruggo una molecola del disturbo sostituendola con una molecola di Annalisa, spirito e corpo, lei cerca di chiedere la rivincita, con colpi bassi e costanti, ma io non sono più il dio invulnerabile che credevo di essere, io sono una persona di carne e ossa, con debolezze, difetti, ma tanta anima, cuore, testa, ora lo so, sono vulnerabile e posso munirmi di pazienza e volontà per domare il mio temperamento sofferente, ma non darò più il volante in mano a lei.
Non è ancora morta, anzi, è viva, si fa sentire, ma è più piccola e dentro di me la persona che sono diventata sta cercando di spaventarla e pian piano la sta cacciando, riconquistando terreno per arrivare in cima e piantare la bandierina "Annalisa".
Urlate contro la malattia, vivete, uccidetela. La malattia non è la tua persona, ho creduto anche io di essere zero senza lei, di essere stupida e brutta e di aver bisogno di lei per essere qualcuno, a volte ci credo ancora adesso, poi osservo la mia vita ora, vuota e scarna a causa delle possibilità che mi sono sfuggite dalle mani, allora mi autoconvinco che senza malattia non sono nessuno, per adesso, ma sono un foglio bianco su cui dovrò lentamente dipingere il quadro della mia personalità, cosa che avrei dovuto fare tanto tempo prima. Non voglio più colori rigidi e freddi come nero e grigio, voglio usare tempere rosse come il fuoco, verdi come gli alberi, gialle come il sole, arancioni come le albicocche, marroni come il cioccolato e  creare una miriade di tele profumate, vivaci e intense che possano contenere pensieri, idee, progetti, obiettivi da appuntare sopra giorno dopo giorno.

Annalisa

 

domenica 16 agosto 2020

Pensieri riflessi

 

 

Scatta l'interruttore della luce, il solito clic che mi avverte del suo arrivo.
La vedo comparire difronte a me.
Si posiziona per bene, quasi alla ricerca dell'equilibrio su di un trampolino olimpionico per eseguire dei tuffi impeccabili, tuffi che andranno nel passato e nel presente, incerti nel futuro, e che nemmeno stavolta le faranno ottenere il punteggio desiderato.

Mi guarda. La guardo.
Avvicina una mano al viso. Faccio lo stesso.
La seguo nei movimenti, in tutto ciò che fa, ma lei non sembra farci molto caso, le interessa piuttosto cogliere un minimo dettaglio e scoprirlo diverso dall'ultima volta, o quantomeno immaginarlo.

Mi guarda. Io la vedo, lei no.
Non vede se stessa come io riesco a fare.
Io sono lo specchio della sua anima, lei un riflesso di ciò che crede di essere.

Stessi occhi, stesso naso, stessa bocca, persino stesse lentiggini che timide escono al primo sole d'estate.
Ma opposta capacità di osservazione.

Si gira di lato, ci osserva, si mette con la schiena dritta e la pancia in dentro, appoggia con delicatezza le mani sulle cosce, un tocco che cerca di nascondere la durezza di un pugno serrato al limite del sanguinamento.

Vorrei tanto uscire da questa fredda parete e stringere le sue mani nelle mie, prenderla per mano e portarla dalla mia parte dove non esiste alcun riflesso ma solo la verità.

Com'è riuscita per tutto questo tempo a guardarsi senza vedersi?
Come ha fatto ad incrociare così tante volte i suoi occhi senza leggerci dentro ciò che con la bocca non riusciva a pronunciare, che con la mente non riusciva neanche a pensare?
Come si fa a non vedere il proprio vero sé nemmeno standoci ad un palmo dal naso?

Quasi avesse sentito i miei pensieri si avvicina.
Ci guarda.
Sono pochi secondi che durano un'eternità, ma un'eternità non è nulla in confronto a pochi attimi di consapevolezza. Quelli sì che sembrano infiniti, si dilatano proprio come hanno fatto le sue pupille subito dopo aver sfiorato l'interruttore.

Dai suoi occhi cominciano a nascere lacrime che credeva di aver ormai terminato e che invece riescono sempre a trovare una via d'uscita dal caos che regna dentro lei.
Sono lacrime che fuggono dalla ricerca di amore, comprensione, speranza, che vorrebbero solo poter attraversare il mio specchio per trasformarsi in gocce di pura verità.
Ma dalla parte in cui si trova lei sono unicamente scie di dolore che le rigano il viso, dolore per essere com'è, dolore per non sentirsi com'è.

Ci sta guardando.
Credo che ora ci abbia viste.

Elisa


giovedì 6 agosto 2020

Ritrovare il linguaggio del cuore - Laboratorio 30 luglio 2020


Ogni volta il laboratorio si presenta ricco di nuovi spunti e riflessioni che iniziano dalla base di un racconto singolo per poi intrecciarsi e divenire parte comune di tante altre storie riscoprendosi infine uniti da un filo unico che sostiene e ridona forza.
Abbiamo incominciato parlando della difficoltà di affrontare gli innumerevoli cambi di opinioni, scelte e azioni della propria figlia o figlio. Questo pone il genitore in una posizione di affanno nello stare dietro alle tante incongruenze e ambivalenze che la malattia mette in campo. Proprio su questo punto ci siamo soffermati per un po’ di tempo per guardare da vicino di cosa è fatto questo affanno, da dove nasce, dove va a colpire e soprattutto il peso che acquista nella propria quotidianità. Sono state tante le domande poste, tanti i punti di vista osservati. È un affanno che fa parte dell’essere genitori? È un affanno che ha a che fare con la stanchezza? È un affanno che ha origine dall’ agire della propria figlia o figlio? Le risposte possono essere varie. Spesso l’affanno emerge laddove si è troppo coinvolti in ciò che sta accadendo. Allora i confini tra ciò che fa parte di se’ e ciò che fa parte dell’altro si confondono e fanno perdere quel distacco necessario a creare una protezione per entrambi. Nelle occasioni in cui si riesce a definire la debita distanza, al contrario, viene a decadere ogni tentativo di cercare un colpevole. A volte può succedere che si vada a pensare troppo al perché l’altro agisca in quella maniera... e allora forse...non sarà proprio il voler cercare la causa del comportamento della propria figlia o figlio a generare quell’affanno?
Abbiamo poi parlato di quanto sia importante avere vicino a se’ il sostegno del proprio partner. Un papà ha raccontato di aver trascorso momenti molto difficili con la propria moglie, arrivando quasi a rischiare la separazione. Entrambi però hanno avuto il coraggio di rimettersi in discussione come coppia poiché l’amore tra loro è ancora un legame forte. Sono andati così a ricrearsi degli spazi dedicati esclusivamente a loro due: una serata in pizzeria, una passeggiata, una gita fuori porta, oltre al dedicarsi quotidianamente a quei piccoli grandi gesti di cura e attenzioni reciproche come ad esempio il preparare la cena la sera che la propria compagna/compagno è particolarmente stanco/a, oppure compiere quelle azioni che si sa fanno piacere all’altro. Tale esperienza ha fatto emergere quanto spesso si senta la mancanza del proprio partner in queste circostanze rendendo ancora più pesante e doloroso l’affrontare la malattia. Ma proprio su queste considerazioni si è voluto fare attenzione sul fatto che il disturbo in realtà si viene a manifestare proprio laddove è venuta a mancare la comunicazione. Spesso durante i laboratori si è discusso di quanto la malattia comunichi attraverso un suo linguaggio annullando completamente la comunicazione e divenendo lei stessa l’unico mezzo di unione-scontro all’interno della famiglia.
Inevitabilmente a pagarne le conseguenze sono i rapporti, sia di coppia sia di genitore-figlio/a. È come se ognuno parlasse un linguaggio diverso dall’altro e rendesse così impossibile ogni forma di interazione. E allora che cosa bisogna fare? Una mamma ha sollevato la questione in cui il proprio marito sta cercando di riprendere il rapporto con la loro figlia ma in cambio lui riceve un netto rifiuto da lei in quanto tra loro c’è come un muro che li tiene distanziati entrambi. La figura paterna spesso è stata messa ai margini, come se la malattia fosse una questione da risolvere solo tra madre e figlia/o. In realtà in ogni storia i padri hanno un ruolo principale detenendo sempre un posto particolare nel cuore delle proprie figlie o figli. Ci siamo soffermati a riflettere su come questo padre possa sentire e vivere tale situazione. Probabilmente per tale rifiuto si sentirà impotente, solo, incapace venendosi a creare in lui tutta una serie di emozioni difficili da gestire. In una condizione del genere è fondamentale avere il sostegno e la vicinanza del proprio compagno/compagna. Se la malattia ha cercato di danneggiare anche il rapporto di coppia, è importante andare a ricercare quel legame dentro di se’ che tempo addietro ci ha unito a quella persona.
Riscoprire quelle emozioni, quei sentimenti, quel volere condividere la vita insieme. È necessario recuperare questi ricordi perché non è possibile riavviare una comunicazione efficace se non si riconosce l’altra persona nella propria storia e la si continua a vedere come un’estraneo. Il linguaggio da ritrovare è il linguaggio che parte da se stessi e che nasce dal proprio cuore.
Un altro papà ha voluto condividere il suo sentirsi in errore per essere stato troppo presente con la propria figlia e ora lei non fa che ricercare la madre dandogli la sensazione di aver sbagliato in qualcosa. In realtà non ci sono errori in tali situazioni. Anzi. Il saper fare un passo indietro per dare spazio al riavvicinamento tra madre-figlia è un gesto del grande amore paterno del quale un giorno se ne riceverà in cambio una profonda gratitudine.
Bellissima è stata l’immagine poi data da un papà: il rapporto che nasce con la propria figlia o figlio è come un piccolo sassolino che si trova travolto dall’acqua che scorre impetuosamente.
Questo sassolino viene spostato un po’ di qua e un po’ di là per poi rendersi conto che in realtà quell’acqua che lo scuote così tanto è parte di un unico fiume che rappresenta la famiglia.
La frase che ci accompagnerà in questa settimana è: RITROVARE IL LINGUAGGIO DEL CUORE.