martedì 29 settembre 2020

Ciao Anoressia.

La guardo. Da lontano. L’ascolto. E mi fa ancora paura. Sento che ha ancora potere. Che è ancora forte. Ma la tengo a bada. So riconoscerla. Bussa forte quando sono fragile. Quando ho più bisogno di lei. Lo sa. Lo avverte. Lei lo avverte, sempre. Eppure non mi lascio ingannare. Ho raggiunto il mio equilibrio.
Quella voce è seducente. Mi affascina ancora. In lei posso ripararmi e sentirmi piccola. Ma io non sono più piccola. È ora di accettarlo. Devo andarmene. Scappare da lei. Allontanarmene. Lasciarla scivolare, urlare, se vuole, ma non ascoltarla. Io, questa volta, devo crescere.
Ma lei è lì. Mi scruta. Mi osserva. Ne sento i suoi occhi. Riconosco il suo calore. Quello che sa proteggere. Stringere. Soffocare.
Sei tu che mi parli ancora? Perché vuoi ancora me? Perché non te ne vai del tutto?
Ti ritrovo in quella foto. La mia. La tua. La nostra. Porto il tuo volto. Tu porti il mio dolore. E mi viene da piangere. Mi fa ribrezzo quell’immagine. Negli occhi spenti riconosco la tua voce, lo strazio, l’esasperazione.
Il tuo pensiero mi fa tremare. Ma sono qui. E sono viva adesso. Ora che so dirti di no. Ora che so farti tacere. Ora che voglio crescere, nonostante la paura.
Non te ne vai eh. Resti lì. Immobile. Ti vedo. Ti sento. Aspetti. Vuoi colpirmi ancora. Non accetti la sconfitta tu. Non sai perdere la battaglia. Ma io, adesso, non mi vergogno più. Ti porto dentro. Conservo le tue parole. Le riascolto, quando ho voglia. Perché mi fa ancora bene farmi cullare da te. Sei ancora protezione. Porto sicuro delle mie insicurezze.
Ma non mi vergogno più di te. Lo grido al mondo che ci sei stata. Che ci sei. Che ci sarai. Perché lo sappiamo entrambe che non te ne andrai mai. Sarai il marchio di una vita che sta imparando a cavarsela senza te. Adesso ho capito che posso salutarti, tenendoti con me. Allontanarti pur avendoti. Sei mia ma non ti appartengo.
Ciao Anoressia.

Giovanna De Marco

martedì 15 settembre 2020

Ciao Malattia

Ciao Anoressia, Ciao Malattia,
è un po’ che ci siamo perse, ma non posso negarti che ancora oggi, a distanza di pochi anni, porto ancora dentro di me ogni attimo e sai perché lo faccio? Perché tengo tutto vivo? Perché voglio ricordar(mi) quella che ero insieme a te. Ci sono persone che si distaccano dal proprio passato, lasciandoselo alle spalle e basta, mentre io no, anzi ti dirò di più, io me lo porto sulle spalle, con tutto il suo peso e senza provare vergogna. Questo non vuol dire non voler andare avanti, no, ma è un mio modo per averlo sempre sotto agli occhi. Perché tu eri punizione, illusione, mi hai fatto perdere anni, oltre al peso e all’ appetito. Mi hai illusa facendomi credere che non avevo bisogno di nessuno, di niente, che mi dovevo bastare da sola. Mi hai fatta vergognare di com’ero e di come stavo diventando. Mi hai fatto credere che andava tutto bene, che stavo bene e se stare bene era non riuscire a guardarmi, a non avere le forze per andare a lavorare e non ridere, allora avevi ragione. Mi hai fatta concentrare solo su di noi, un mondo parallelo, Tu ed io. Tutto girava intorno al desiderio del nulla, un’anestesia totale.
Però sai cosa? Hai presente la mia famiglia? Quelli che cercavano di parlarmi e di farmi capire che c’era qualcosa che non andava? E i miei amici? Si, proprio loro, coi quali non uscivo perché mi vergognavo, loro uscivano per mangiare un semplice e banale gelato, ma Tu il gelato non me lo concedevi mica! Loro non se ne sono mai andati. Ed è grazie a loro e a tutti quelli che mi hanno aiutata che sono qui oggi a scriverti. Di chi guardava da lontano senza poter fare molto, di chi mi guardava negli occhi e vedeva un sguardo spento, affamato di cibo e di vita. La sofferenza di chi mi stringeva a se, ma con la paura di potermi fare male e di chi mi parlava pesando ogni singola parole perché aveva il timore di dire qualcosa di sbagliato. Eri al mio fianco costantemente, ma non facevi male solo a me.
So anche un’altra cosa, cara Anoressia, so cosa vuol dire quando niente può tirarti su, quando tutto è facile a parole. Ma come lo spieghi agli altri il dolore che provi, il vuoto e l’eco che si infila nei timpani? Oggi lo so.
Se ripenso a quei momenti vedo una me piena di angoscia e dolore. Oggi ti dico “Grazie”, si, ho un grazie anche per te. Grazie perché ho capito il valore della vita e che tutti noi siamo fatti per rifiorire.
Ma adesso parlo anche a tutti voi. Care Amiche, Amici, Genitori, Parenti, tutti Voi, lottate sempre e non
mollare mai, vi assicuro che la vita senza la “Cara Anoressia” è bellissima. Che io, voi, noi, tutti siamo fatti per cose grandi.
Grazie. Grazie alla mia famiglia, ai miei amici, a tutti coloro che c’erano, ci sono e ci saranno. Ma grazie anche a me stessa, per la forza e il coraggio, il sorriso e la solarità che avevo perso ma che ho ritrovato più viva che mai. Un grazie alla vita, alla mia vita di adesso e a tutti coloro che ne fanno parte.
Ci vuole coraggio a dire: “Ho bisogno di aiuto. Sto male.”

Francesca

lunedì 14 settembre 2020

Amore rivelato - Laboratorio 9 settembre 2020

Stasera sono emerse tante tematiche, e anche tante emozioni. Il laboratorio si è arricchito di nuovi genitori, i quali, essendo per loro la prima volta, hanno preferito stare in ascolto. Siccome non sono sorte domande specifiche, si è cominciato cercando di dare un quadro generale di tutti gli argomenti affrontati nei laboratori precedenti, iniziando con il trattare lo spinoso argomento riguardo la cura. Non è sempre detto che i professionisti con cui si viene in contatto siano sempre preparati sui disturbi alimentari. A volte può capitare che manchi una formazione specifica su queste malattie, che vengono classificate come disturbi psichiatrici da curare strettamente con l’uso di farmaci. Sia ben chiaro, nessuno è contrario all’uso farmacologico. Anzi. Ci sono situazioni in cui la persona che soffre di un disturbo alimentare non riesce da sola ad avere la forza necessaria per iniziare un percorso psicologico. Il farmaco in questi casi permette di approcciarsi ad un lavoro interiore personale, un rimedio per così dire temporaneo, o comunque diminuito gradualmente, per far sì che la persona sia in grado di avere gli strumenti e l’energia necessaria per continuare la terapia senza il supporto farmacologico. L’aspetto che non deve mancare in un percorso di cura è l’essere visti nella propria individualità, senza essere catalogati in una malattia che spesso è affiancata a comorbidita’ che inevitabilmente sorgono e fanno sentire la persona richiusa in un quadro di disturbi psichiatrici che l’allontanano dal riconoscere la propria identità al di là del disturbo. C’è bisogno del contatto, che non deve essere per forza fisico. Un
contatto che riporta all’ essere riconosciti nella propria sofferenza. Una sofferenza che usa il corpo er manifestarsi, ma che si nasconde nella parte più profonda e intima della persona.
Come è avvenuto in un laboratorio recente, si è cercato poi di rifocalizzare l’attenzione sull’importanza dello sguardo. C’è uno spazio in cui la malattia non può avere accesso. È quello spazio che la relazione ha creato ancora prima della comparsa del linguaggio della propria figlia o figlio. Si riferisce a tutti quei momenti in cui la comunicazione avveniva attraverso gesti, sorrisi, contatti visivi, in cui ognuno sentiva di appartenere all’ altro. Contro questo tipo di relazione la malattia non può avere presa, e non trovando nutrimento, non riesce ad attecchire. Ma come si fa ad arrivare a recuperare quello sguardo? Indebolendo la forza della malattia. Con quali mezzi?
Incominciando a imparare a differenziare la parte malata dalla parte sana che sono racchiuse entrambe all’interno della propria figlia o figlio. Riuscire a distinguere quando parla la malattia da quando parla la parte sana semplifica e fa capire al genitore come può rispondere a tali linguaggi.
Inoltre, è importante andare a tagliare lentamente il cordone ombelicale tra genitori e figli che nel frattempo il disturbo alimentare ha rafforzato. Chi soffre di queste malattie spesso ha paura di crescere, una paura che viene accompagnata da sentimenti di grande disistima. Si rifiuta di avere responsabilità proprio per non andare incontro alla sensazione di sentirsi incapaci. Così si cerca di rifugiarsi dentro a un corpo non cresciuto o al contrario, avvolto in un involucro ingombrante per proteggersi in qualche modo dal contatto con l’esterno. Ed è qui che il cordone ombelicale viene a rafforzarsi poiché si investe il genitore di ogni responsabilità, mettendosi così al riparo dal pericolo di dover scegliere per se stessi. Cercare di stimolare la propria figlia o figlio verso piccole azioni autonome ( es pagare le bollette, spazzolare il cane, comprare il giornale...) è un piccolo modo per cercare di dare loro un compito e incominciare a renderli indipendenti. Inoltre, è importante anche riuscire a far riemergere quelle passioni che la malattia ha soffocato, ad esempio la fotografia, il disegnare, il creare composizioni floreali....
Si è poi ritornati sul concetto dell’ imparare quotidianamente a distinguere le richieste che provengono dalla malattia dalle richieste che provengono dalla parte sana. Le prime ovviamente non vanno ascoltate, poiché non fanno altro che aggiungere potere al disturbo. Un esempio banale per spiegare questa dinamica può essere la situazione in cui la propria figlia o figlio fa esplicita richiesta che in casa vengano comprati solo determinati cibi perché questo li fa sentire più tranquilli. Che cosa succede di solito? Per quieto vivere, la famiglia accetta tale richiesta. Ma in realtà a chi si ha dato vittoria? Immaginiamo che i genitori invece di acconsentire, si rifiutino e placidamente rispondano che quei cibi non smetteranno di essere comperati poiché sono cibi che non hanno ragione di non esserci e siccome l’ansia è originata dal controllo imperante della malattia, loro non vogliono più esserne succubi. Questo sicuramente scatenerà rabbia, conflitto, portando alla bocca parole offensive e accusatorie, seguite magari anche da porte sbattute. In realtà cosa è appena accaduto? È successo che non si è dato ascolto alla malattia e quest’ultima ha reagito mostrando tutta la sua violenza. Successivamente, una tale reazione porta a delle elaborazioni importanti in quanto si è data dimostrazione che la malattia può essere contrastata; oltre ad evidenziare quanto questa ponga limiti estremi alla propria e altrui libertà. Ovviamente, tali esempi sono generalizzati. Ognuno deve poi valutare la propria situazione personale, il livello emotivo di quel momento. Ma è importante comunque iniziare a fare esperienza nel differenziare le due parti che agiscono spesso in contrapposizione. Senza aver paura del conflitto che si può generare poiché è impossibile che si verifichino dei cambiamenti se tutto rimane uguale e ci si comporta sempre nella medesima maniera.
È stata affrontata anche la delicata questione in cui, durante un percorso terapeutico, si assiste al ritorno di certe dinamiche che si pensava si fossero superate: un aumento delle abbuffate, o della restrizione, o di attività motoria. Spesso quando capita questo è perché in terapia si sta andando ad attaccare qualcosa di importante che fa emergere nella persona un meccanismo di difesa che questa ultima cerca di risolvere riprendendo le dinamiche di controllo dettate dal disturbo alimentare. Ovviamente, questo suscita nel genitore ansia e apprensione che lo induce a mettere ancora più in luce il disturbo con parole del tipo “ ecco, sei ritornata/o a restringere. Non è servito nulla quello che hai fatto. È stato tutto inutile”. Queste parole, oltre a creare nell’altro la sensazione di non essere visto, vanno a bloccare l’elaborazione necessaria per comprendere che si sta mettendo in atto un modello del passato usato per risolvere i conflitti. Da questa importante elaborazione ne consegue la decisione autonoma di assumersi la propria responsabilità, cambiando il modo di gestire le avversità. Anche in questo caso, è fondamentale conoscere e capire il percorso che la propria figlia o figlio sta affrontando. Occorre prestare attenzione a tanti piccoli particolari che si rifanno alla propria storia ed è evidente che in tutto
questo il genitore non può essere lasciato solo. Ha bisogno di avere un sostegno, uno specchio esterno che possa fargli vedere e far comprendere tali dinamiche.
A questo punto si è ritornati all’importanza della relazione tra genitori e figli. Emozionante il racconto di una persona che ha raccolto in questi giorni la confidenza ricevuta da parte di una figlia la quale gli ha riportato la sua sofferenza nell’essere pienamente consapevole di tutto il dolore inferto ai propri genitori e della sua incapacità di mostrare loro il suo affetto. Lo ha confidato attraverso un pianto che si sentiva che proveniva dal cuore. Un pianto che rivelava tutto l’amore che nutriva per la sua mamma e il suo papà. Qui si è collegata l’esperienza da parte di un’altra persona che, avendo vissuto il disturbo alimentare, ha raccontato di quanto la malattia non le aveva permesso per molti anni di accorgersi di tutto l’amore che i suoi genitori cercavano di trasmetterle ma che lei, imbrigliata dentro la malattia, non riusciva a sentire e vedere. Oggi è orgogliosa di esserci riuscita e di constatare quanta bellezza e amore ci sia nella sua vita. Un’altra persona ancora ha voluto portare la sua esperienza parlando del rapporto molto conflittuale con il proprio padre che lei aveva accusato per anni per non essere riuscito a darle la protezione che voleva. Il rapporto con la madre, al contrario, era basato su un senso di colpa per la situazione che si era venuta a creare a causa del disturbo alimentare. Dopo anni di terapia è riuscita a guarire dalla malattia, e anche a sanare i conflitti con le figure genitoriali. Molti anni dopo la guarigione, questa persona si è trovata ad accompagnare suo padre nell’ultimo giorno della sua vita. Lei gli teneva la mano. Lui, con una grave patologia polmonare, non era in grado di parlare, ma non ha
mai distolto lo sguardo da lei, e lì, in quel momento, entrambi sono riusciti a comunicarsi tutto quello che non erano riusciti a dirsi in tutti gli anni vissuti insieme. Hanno comunicato attraverso quel linguaggio che non era fatto di parole, ma che sapeva mettere in contatto due anime che si erano cercate da molto tempo. Quello era stato il loro ultimo e profondo saluto. Poco dopo, il padre chiuse gli occhi per sempre. Prima di andare via, lei gli si avvicinò e vide una lacrima sul viso di lui. Raccolse questa lacrima, se la strinse al petto, sentendo che quello era stato l’ultimo grande gesto e dono di amore di suo padre.
La frase di questa settimana è : L’AMORE RIVELATO.

 

martedì 1 settembre 2020

La forza dell'essere fragili - Laboratorio 26 agosto 2020

 


Questa volta iniziamo con una piccola premessa riguardo il laboratorio di questa sera: è stato di una intensità unica, che spero di non rovinare troppo cercando di tradurlo in parole. Abbiamo iniziato descrivendo sommariamente come il disturbo alimentare si muova sapendosi infiltrare all’interno della vita di una intera famiglia. Il disturbo alimentare è così abile da cucire nel tempo uno specifico abito confezionato su misura per ogni individuo con cui si trova in contatto, un abito che ben presto si trasforma in una sorta di camicia di forza da cui poi ci si trova impossibilitati a liberarsene. È stata affrontata questa tematica perché è sorta la richiesta di poter in qualche modo delineare quelle che sono le dinamiche della malattia per poter capire come questa agisca e quindi cercare in qualche modo di non trovarsi completamente impreparati nel doverla affrontare.
Ovviamente, nel descrivere queste dinamiche non possiamo credere di riuscire a imbrigliare il disturbo alimentare in una sorta di classificazione standard poiché la sua complessità risiede proprio nel fatto che si sviluppa ed evolve attraverso la storia di ogni singola persona coinvolta.
Questo però non vuol dire che non si possa fare nulla. Anzi. Il ruolo dei genitori è molto importante poiché è attraverso le relazioni familiari che il disturbo alimentare si diverte a intessere la trama del suo gioco. Essere consapevoli di questo permette di poter sorprendere la malattia non facendosi soggiogare dai suoi meccanismi perversi. Come? Partendo da se stessi. I genitori, allo stesso modo dei figli, non riescono più ad avere una vita propria. Tutto ruota intorno alla malattia. Come il disturbo riesce ad appropriarsi dell’identità della persona che ne soffre così si appropria dell’identità dei rispettivi genitori. E ogni cosa smette di avere una valenza reale conformandosi a quelle che sono le lenti distorte della malattia. Quindi da cosa si può partire? Sembra banale dirlo ma si può agire cominciando a prestare attenzione alle parole che usiamo. Le parole sono il mezzo attraverso le quali noi costruiamo i nostri pensieri, pensieri che poi coinvolgono le nostre emozioni e da qui i relativi comportamenti. Quante volte capita nella giornata che i genitori parlino del cibo, dell’ attività fisica, della passività che incombe in tutto quello che è inerente alla propria figlia o figlio? Innumerevoli volte. Ci rendiamo conto che questo non aiuta perché fa si che la malattia sia sempre presente in ogni momento e soprattutto si stabilizzi indisturbata tra le pareti domestiche. Cominciare a fare attenzione alle parole che si usano, permette di darsi la possibilità di modificarle andando così ad agire direttamente sui pensieri. Sembra un passaggio scontato, ma non è così. È essenziale spostare l’attenzione dalla malattia al linguaggio che compare durante la giornata; questo serve anche per allontanare la tensione e l’energia che la malattia mette in circolo all’interno della propria casa. Un papà ha portato la sua testimonianza raccontando quanto il suo rapporto con la figlia sia cambiato dal momento in cui ha smesso di imporre il controllo e la sua costante insistenza nel dover iniziare un percorso psicoterapeutico.
Comprendendo certi meccanismi del disturbo alimentare, questo papà ha cominciato a modificare il suo approccio autoritario riscoprendo un dialogo che lo ha riavvicinato a riconquistare la fiducia e a non essere più visto come un nemico. Se questo ha effettivamente da una parte migliorato la relazione, dall’altra parte non ha risolto il voler intraprendere una psicoterapia, poiché sappiamo benissimo che da queste malattie non si può guarire da soli. E allora che cosa si può fare? Si deve rinunciare? Assolutamente no. Occorre continuare a sviluppare sempre di più la relazione andando a creare un dialogo improntato sul rispetto e la stima reciproca. Si può cominciare descrivendo che cosa è per noi una psicoterapia per poi chiedere che cosa rappresenti per lei o lui, quali sono i suoi pensieri, le sue credenze, le sue paure che cosa prova verso la figura dello psicologo, come gestisce i suoi momenti di sconforto, se c’è qualcuno con cui parlare quando sente il bisogno di farlo... senza dimenticare di introdurre e condividere insieme anche le proprie esperienze e idee. Ovviamente non esistono soluzioni, si fanno tentativi, si impara a conoscere la propria figlia o figlio mettendosi in discussione per primi, non trasformandosi in pseudo terapeuti ma ritrovando e mantenendo il proprio ruolo di genitore.
Ad un certo punto c’è stata la condivisione di una mamma che ha saputo con una dignità piena di rispetto esprimere il suo grido di aiuto. Mamma di cinque figli, dopo il ricovero della figlia avvenuto dopo un anno molto travagliato non è più riuscita a reggere lo sforzo immenso del peso sopportato ed ha avuto un crollo psicofisico tanto che le hanno consigliato di seguire a sua volta un piano terapeutico per riprendere le forze. Questa condivisone è stata accompagnata da un pianto e da un riguardoso silenzio, in cui ognuno di noi è stato testimone della sorprendente contrapposizione tra fragilità e forza. È stato un intervento segnato da così tanta delicatezza che ci ha portati tutti verso un sentire comune. Anche se il laboratorio si stava svolgendo in piattaforma è arrivato nitidamente l’emozione che si è sprigionata. E le lacrime, che dire? Le lacrime sono la rivelazione della parte di noi più profonda che ci conferma che ancora siamo in grado di provare emozioni. Infatti, quando una persona è bloccata dentro non riesce più in alcun modo a piangere. Le lacrime, al contrario, ci rivelano la piena espressione della nostra interiorità.
Spesso quando crolliamo non riusciamo più a credere in nulla. È come se cadessimo in un baratro. Ma in realtà è quando tutto crolla che si può ricominciare a costruire e poter così apportare quel cambiamento che necessita di essere attuato. E chiedere aiuto per gettare le fondamenta di questa nuova costruzione è sinonimo di grande coraggio e saggezza. È importante che quando accadono questi momenti non ci si chiuda in se stessi, poiché farlo aumenta ancora di più il peso che si è costretti a sostenere. Il prezioso intervento di questa mamma ha saputo tradurre nella pratica quello che è il senso del laboratorio. Esserci, ognuno insieme all’ altro. Per permettersi finalmente di mostrarsi così come si è... e il dono più grande di questa intensa serata è stato il sorriso di questa mamma... un sorriso che ha trasmesso tutta la forza, il dolore e l’amore che coesistono dentro ad ogni genitore.

La parola che ci accompagna durante la settimana è: LA FORZA DELL’ESSERE FRAGILI.

 

---

 Foto scattata dalla compagnia FZU35 durante le prove dello spettacolo "La voce".