venerdì 4 agosto 2017

Se mi guardi, mi condanno.


Avvolgermi su me stessa, rannicchiarmi stringendo al mio petto le ginocchia sembrava davvero l’unico gesto d’affetto, l’unico contatto che potessi volere da me. Mi proteggevo e contemporaneamente mi facevo ancora più piccola di quanto già non fossi, diventando un cumulo di vestiti dal quale davvero sembrava difficile distinguermi. Stanca, triste ma pur sempre al sicuro. Solo quando in solitudine diventavo un gomitolo di stoffa, mi potevo ritenere davvero fuori pericolo da quegli sguardi non solo indiscreti ma direi addirittura letali.

Avevo sempre l’impressione che il mio corpo fosse sotto esame, che gli altri lo scrutassero attentamente e che con il loro sguardo mi dicessero che cosa non andasse. E invece ero io a leggere a modo mio i loro sguardi e non loro il mio corpo come io credevo. Non appena avevo l’impressione che i loro occhi si spostavano dal mio viso alle mie gambe, diventavo un blocco di ghiaccio. Il giudizio sulla mia persona passava nella mia testa prima dalle mie gambe, una delle parti del mio corpo che difficilmente accettavo. Leggevo perplessità, dettata secondo le mie convinzioni da gambe brutte e grosse, da fianchi larghi e troppo sporgenti. Tutto strabordava, eccedeva. Come il mio corpo era sproporzionato e vittima del troppo, anche io mi sentivo fuori da ogni argine e di troppo. Preferivo rimanere defilata e non essere di disturbo, in certe circostanze amavo rimanere in secondo piano e inosservata, un modo efficace per far sì che i miei difetti, incongruenze, causa di vergogna e umiliazione, non venissero notati se non da me. Temevo tanto gli sguardi degli altri, quando in realtà il più pericoloso era il mio, che si faceva portavoce distorto e falso di quelli altrui. Esporre la mia figura apertamente per troppo tempo sarebbe stato decisamente compromettente, quindi quando mi trovavo in compagnia ogni sedia diventava la mia compagna fidata. Quando camminavo curvavo il mio corpo, quanto bastava per cercare di nascondermi e impiegavo qualche secondo dalla sedia al bagno, per timore di dare il tempo necessario agli altri di notarmi, di poter scorgere qualche mio difetto fisico. Quindi, la solitudine in tanti momenti era l’unico modo per evitarmi ogni volta l’estenuante confronto sempre con la stessa persona, quella che dalla sedia si alzava per andare in bagno. Reduce di tutti quei messaggi di ideale di forma fisica perfetta, che avevo ereditato dalla Rosy adolescente e che si erano ben amalgamati con il mondo dissonante che mi portavo dentro, quello che stava rendendo ogni sguardo una condanna. 

Gli occhi, meravigliosi e maledetti occhi. Avrei voluto riconoscere conforto, comprensione, consenso, piuttosto che un messaggio di mortificante inadeguatezza. Un messaggio che però mi auto indirizzavo, convinta di saper leggere perfettamente il linguaggio degli altri per poi scoprire di essere completamente analfabeta. Punteggiatura, lessico, tutto doveva essere ‘reinventato’ secondo il codice dell’amor proprio. Lasciare andare ciò che avevo ‘imparato’ anche da me su di me, era un passo necessario per fare posto a quel vero CONFORTO che un paio di occhi riescono a infondere.

Rosy

Nessun commento:

Posta un commento