Avvolgermi
su me stessa, rannicchiarmi stringendo al mio petto le ginocchia sembrava
davvero l’unico gesto d’affetto, l’unico contatto che potessi volere da me. Mi
proteggevo e contemporaneamente mi facevo ancora più piccola di quanto già non
fossi, diventando un cumulo di vestiti dal quale davvero sembrava difficile
distinguermi. Stanca, triste ma pur sempre al sicuro. Solo quando in solitudine
diventavo un gomitolo di stoffa, mi potevo ritenere davvero fuori pericolo da
quegli sguardi non solo indiscreti ma direi addirittura letali.
Avevo
sempre l’impressione che il mio corpo fosse sotto esame, che gli altri lo
scrutassero attentamente e che con il loro sguardo mi dicessero che cosa non
andasse. E invece ero io a leggere a modo mio i loro sguardi e non loro il mio
corpo come io credevo. Non appena avevo l’impressione che i loro occhi si
spostavano dal mio viso alle mie gambe, diventavo un blocco di ghiaccio. Il
giudizio sulla mia persona passava nella mia testa prima dalle mie gambe, una
delle parti del mio corpo che difficilmente accettavo. Leggevo perplessità,
dettata secondo le mie convinzioni da gambe brutte e grosse, da fianchi larghi
e troppo sporgenti. Tutto strabordava, eccedeva. Come il mio corpo era
sproporzionato e vittima del troppo, anche io mi sentivo fuori da ogni argine e
di troppo. Preferivo rimanere defilata e non essere di disturbo, in certe
circostanze amavo rimanere in secondo piano e inosservata, un modo efficace per
far sì che i miei difetti, incongruenze, causa di vergogna e umiliazione, non
venissero notati se non da me. Temevo tanto gli sguardi degli altri, quando in
realtà il più pericoloso era il mio, che si faceva portavoce distorto e falso
di quelli altrui. Esporre la mia figura apertamente per troppo tempo sarebbe
stato decisamente compromettente, quindi quando mi trovavo in compagnia ogni
sedia diventava la mia compagna fidata. Quando camminavo curvavo il mio corpo,
quanto bastava per cercare di nascondermi e impiegavo qualche secondo dalla
sedia al bagno, per timore di dare il tempo necessario agli altri di notarmi,
di poter scorgere qualche mio difetto fisico. Quindi, la solitudine in tanti momenti
era l’unico modo per evitarmi ogni volta l’estenuante confronto sempre con la
stessa persona, quella che dalla sedia si alzava per andare in bagno. Reduce di
tutti quei messaggi di ideale di forma fisica perfetta, che avevo ereditato
dalla Rosy adolescente e che si erano ben amalgamati con il mondo dissonante
che mi portavo dentro, quello che stava rendendo ogni sguardo una
condanna.
Gli
occhi, meravigliosi e maledetti occhi. Avrei voluto riconoscere conforto,
comprensione, consenso, piuttosto che un messaggio di mortificante
inadeguatezza. Un messaggio che però mi auto indirizzavo, convinta di saper
leggere perfettamente il linguaggio degli altri per poi scoprire di essere
completamente analfabeta. Punteggiatura, lessico, tutto doveva essere ‘reinventato’
secondo il codice dell’amor proprio. Lasciare andare ciò che avevo ‘imparato’
anche da me su di me, era un passo necessario per fare posto a quel vero
CONFORTO che un paio di occhi riescono a infondere.
Rosy
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