lunedì 12 marzo 2018

Chi non combatte, ha già perso.



Il 15 marzo sarà una giornata importante, non solo per coloro per cui quel fiocchetto lilla è diventato uno splendido simbolo che ha coperto delle grossi cicatrici, ma perché chiunque deve essere consapevole della battaglia che tanti stanno combattendo, hanno combattuto, ma soprattutto che tanti non se ne renderanno ancora conto, ma hanno vinto.
Ho sofferto 7 anni di DCA, di cui uno di anoressia nervosa e 6 di bulimia nervosa. Mi sono dilungata più e più volte parlando di anoressia, di quel paradossale ossimoro di un corpo invisibile che nei peggiori dei modi chiedeva di essere visto, dei siti Pro-ana, del perversissimo gioco sado-masochista che ti mangia letteralmente la dignità, e ancor di più la vita.
Forse non ho mai parlato di quanto la battaglia più meschina fosse stata la bulimia, quel mostro che era diventato la più grande menzogna che ho raccontato a me stessa e agli altri, quella che fisicamente mi ha lasciato i graffi minori ma che mentalmente ha distrutto ogni mia certezza. Sapete, la bulimia è una grande maschera, e per me è quella più beffarda, quella che finisce per prendere in giro non solo gli altri, ma te stessa.
 La bulimia è perversa, la bulimia è socialmente invisibile. La bulimia per gli altri forse non ha nemmeno un nome, anzi è una serie di paradossali “complimenti” del tipo “aaah ora sì che ti vedo bella in carne, stai bene con queste COSCIOTTE adesso”. Nel frattempo una anoressica non ancora sufficientemente pentita ti fa un sorrisetto bozzato, e potesse entrerebbe da un macellaio e si farebbe tutta a pezzetti. La bulimia è quella che ti porta a ingozzarti come un facocero, mischiando alimenti che forse con un po’ di audacia in più mi avrebbero fatto vincere Masterchef. Ma no, il tuo premio non sono 100mila euro in gettoni d’oro. La tua punizione si trova forse a dieci metri da te, e si chiama gabinetto. O meglio, si chiama “vomito autoindotto”.
I centomila euro dicevamo? Ah si giusto... il bisogno che qualcuno ti dica che tu abbia fatto un buon lavoro. Come? Dicendoti di ESSERE BELLA. A te non importava altro. Ed è lì che ho fatto il più grande torto a me stessa, il desiderio che tutti potessero condividere e soprattutto dare senso a questa mia battaglia. Ma gli altri cosa ne potevano sapere? Forse era colpa mia che mi ero ridotta a questo piccolo meschino quotidiano? Cosa ne potevo trarre? Beh poco o niente, se non una collezione di incontri andati a male, una sfiducia e un investimento sempre minore nelle relazioni e soprattutto una profonda rabbia, che non potevo più esprimere a parole, ma si autoalimentava in questo maledetto circolo vizioso. La rabbia ha una connotazione psicologica molto semplice: la rabbia significa “mancato riconoscimento”. Mancato riconoscimento del mio corpo, o della battaglia che Francesca stava affrontando? Di tutto ciò che lei non aveva mai detto? Della storia che dalla nascita si portava alle spalle? Ma in fondo, io che cazzo facevo capire di Francesca? Dovevo mettere una nota con annessa la mia anamnesi a ogni cosa contorta che facevo? Mi piace credere che ogni storia abbia a suo modo un lieto fine. Nel mio non è stato il principe azzurro a salvarmi,ma una dannata volontà, quell’animale istinto di sopravvivenza che mi ha portato lungo una strada un po’ meno tortuosa. Alle porte del sogno ho trovato due mani pronte ad accogliermi, chissà se mi hanno trovato o mi sono fatta trovare io. Io non ho più bisogno di perdonarmi, forse per una volta parlerò con una tenera compassione a me stessa, forse ho solo bisogno che anche tu Matteo, mi perdoni un po’ per questa fragilità che mi ha portata a discostarmi dalla narrazione della mia vita che avrei sempre voluto.
Ragazze, ragazzi: se solo state facendo qualcosa per voi stessi, state già combattendo più di quanto voi crediate. Parlate, abbiate la forza di urlare al mondo il vostro dolore: nessuno si salva da solo, chi combatte rischia di perdere. Chi non combatte ha già perso.

Francesca

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