Il 15 marzo sarà
una giornata importante, non solo per coloro per cui quel fiocchetto lilla è
diventato uno splendido simbolo che ha coperto delle grossi cicatrici, ma
perché chiunque deve essere consapevole della battaglia che tanti stanno
combattendo, hanno combattuto, ma soprattutto che tanti non se ne renderanno
ancora conto, ma hanno vinto.
Ho sofferto 7
anni di DCA, di cui uno di anoressia nervosa e 6 di bulimia nervosa. Mi sono
dilungata più e più volte parlando di anoressia, di quel paradossale ossimoro
di un corpo invisibile che nei peggiori dei modi chiedeva di essere visto, dei
siti Pro-ana, del perversissimo gioco sado-masochista che ti mangia
letteralmente la dignità, e ancor di più la vita.
Forse non ho mai
parlato di quanto la battaglia più meschina fosse stata la bulimia, quel mostro
che era diventato la più grande menzogna che ho raccontato a me stessa e agli
altri, quella che fisicamente mi ha lasciato i graffi minori ma che mentalmente
ha distrutto ogni mia certezza. Sapete, la bulimia è una grande maschera, e per
me è quella più beffarda, quella che finisce per prendere in giro non solo gli
altri, ma te stessa.
La bulimia è perversa, la bulimia è
socialmente invisibile. La bulimia per gli altri forse non ha nemmeno un nome,
anzi è una serie di paradossali “complimenti” del tipo “aaah ora sì che ti vedo
bella in carne, stai bene con queste COSCIOTTE adesso”. Nel frattempo una
anoressica non ancora sufficientemente pentita ti fa un sorrisetto bozzato, e
potesse entrerebbe da un macellaio e si farebbe tutta a pezzetti. La bulimia è
quella che ti porta a ingozzarti come un facocero, mischiando alimenti che
forse con un po’ di audacia in più mi avrebbero fatto vincere Masterchef. Ma
no, il tuo premio non sono 100mila euro in gettoni d’oro. La tua punizione si
trova forse a dieci metri da te, e si chiama gabinetto. O meglio, si chiama
“vomito autoindotto”.
I centomila euro
dicevamo? Ah si giusto... il bisogno che qualcuno ti dica che tu abbia fatto un
buon lavoro. Come? Dicendoti di ESSERE BELLA. A te non importava altro. Ed è lì
che ho fatto il più grande torto a me stessa, il desiderio che tutti potessero
condividere e soprattutto dare senso a questa mia battaglia. Ma gli altri cosa
ne potevano sapere? Forse era colpa mia che mi ero ridotta a questo piccolo
meschino quotidiano? Cosa ne potevo trarre? Beh poco o niente, se non una
collezione di incontri andati a male, una sfiducia e un investimento sempre
minore nelle relazioni e soprattutto una profonda rabbia, che non potevo più
esprimere a parole, ma si autoalimentava in questo maledetto circolo vizioso.
La rabbia ha una connotazione psicologica molto semplice: la rabbia significa
“mancato riconoscimento”. Mancato riconoscimento del mio corpo, o della
battaglia che Francesca stava affrontando? Di tutto ciò che lei non aveva mai
detto? Della storia che dalla nascita si portava alle spalle? Ma in fondo, io
che cazzo facevo capire di Francesca? Dovevo mettere una nota con annessa la
mia anamnesi a ogni cosa contorta che facevo? Mi piace credere che ogni storia
abbia a suo modo un lieto fine. Nel mio non è stato il principe azzurro a
salvarmi,ma una dannata volontà, quell’animale istinto di sopravvivenza che mi
ha portato lungo una strada un po’ meno tortuosa. Alle porte del sogno ho
trovato due mani pronte ad accogliermi, chissà se mi hanno trovato o mi sono
fatta trovare io. Io non ho più bisogno di perdonarmi, forse per una volta
parlerò con una tenera compassione a me stessa, forse ho solo bisogno che anche
tu Matteo, mi perdoni un po’ per questa fragilità che mi ha portata a
discostarmi dalla narrazione della mia vita che avrei sempre voluto.
Ragazze,
ragazzi: se solo state facendo qualcosa per voi stessi, state già combattendo
più di quanto voi crediate. Parlate, abbiate la forza di urlare al mondo il
vostro dolore: nessuno si salva da solo, chi combatte rischia di perdere. Chi
non combatte ha già perso.
Francesca
Nessun commento:
Posta un commento