domenica 31 marzo 2019

Una Margherita d'Inverno




Cara Marghe,

sei stata un fiore bisognoso, talmente fragile da spezzarsi semplicemente con una folata di vento. Nessuno ti ha annaffiata, accudita, nessun raggio di sole ti ha sfiorata. Ma anzi ti hanno calpestata senza riguardo e senza pietà.

Sei nata come un bocciolo colorato, pieno di sfumature pronte a sfoggiare la loro bellezza. Purtroppo qualcosa è andato storto, non sei mai sbocciata.

Crescendo, sei diventata sempre più sensibile e fragile… Fino ad ammalarti. Forse per la poca sicurezza in te stessa, forse per il poco amore ricevuto, forse per attirare l’attenzione, per essere finalmente accudita da qualcuno.

Ricordo quanto eri esile, ammaccata, sola. Eri completamente soggiogata da colei che ritenevi tua amica, l’anoressia. Sei stata catapultata nel mondo delle ossessioni, delle paure e del masochismo.

Numerosi ricoveri, pianti isterici, disperazione, urla, tagli, sangue…

Ricordo quanta ansia avevi durante la giornata. Iniziando dal mattino, su cosa metterti perché dovevi indossare qualcosa che potesse contenere grandi quantità di cibo; l’ansia su dove ti avrebbero messa in “sala terapia”, perché se eri di spalle alle OSS non avresti potuto nascondere; le camminate in giardino a temperature disumane; le comparazioni su chi era più magro, su chi mangiava cosa. Ma il panico maggiore arrivava al momento dei pasti, in particolare pranzo e cena. Oh, quanto olio su quelle vaschette di plastica bianche… quanto cibo, rispetto alle altre. Eppure in quella maledetta vaschetta c’era il tuo nome stampato. Non potevi scappare.

I pranzi più disperati, quelli domenicali. Ritenevano che la domenica doveste mangiare cose più “elaborate”, perché così funzionava in una famiglia tradizionale. Così, spesso avevate Pollo arrosto con Patate al forno; o pomodori ripieni di tonno e verdure grigliate… un incubo. Quante volte, hai desiderato morire.

Troppa sofferenza per un fiore piccolo come te. Tanti ricoveri salva vita, ma nessuno che ti abbia aiutato veramente. Ciò che ti ha salvata, è stata proprio la vita. Perché un giorno hai detto basta, hai preso le redini e hai iniziato a lottare veramente. Ti sei resa conto che era importante capire il senso della tua esistenza, non annientarti. Perché tutti noi abbiamo un senso. E dobbiamo trovarlo, a costo di stravolgere la propria vita.

Tu ti sei messa in gioco, hai lasciato da parte tutto il resto e ti sei data un senso. Ti sei posta mille domande che alla fine hanno avuto risposte. Tante cose ancora sono irrisolte, ma l’unico modo per risolverle è vivere. Giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, tutto si sistema e trova il suo equilibrio. Importante: saper aspettare.

 Paradossalmente il tuo senso è quello assicurarti che tutti stiano bene, ma senza uccidere ciò che sei. Il tuo lavoro come massaggiatrice, ti ha insegnato a schermarti abbastanza da non assorbire tutto il dolore degli altri ma allo stesso tempo sai alleviarlo.

Tutte le persone lasciate da parte in questi anni, erano ancora lì ad aspettarti. Capendo così che non sei mai stata sola. Che ti amano incondizionatamente. Compreso l’amore della tua vita, che hai allontanato bruscamente allora, ma che è sempre stato ad attenderti. E adesso siete finalmente insieme, stavolta per davvero.

Chi ti ama ti ammira, per la forza che hai avuto e per quella che hai ogni giorno. Alcune persone si sono confermate come ciò che credevi, ma non importa. Ne hai tante, tantissime altre.

Adesso hai chi si prende cura di te: TE STESSA. Hai capito che la persona più importante presente nella tua vita sei tu. E che, senza di te, niente funziona. L’equilibrio tra mente, anima e corpo… quel corpo tanto odiato, DEVE far parte di te. Senza ripudiarlo, senza devastarlo. E’ il tuo tempio e da tale devi trattarlo. Non ce ne sono altri, questo è e questo avrai.

Alla fine abbandoni tutte le tue paure e inizi a vivere, scoprendo che tutto ciò che un tempo ti terrorizzava, adesso sono semplici attimi che fanno parte della vita. Adesso ti emozioni per una giornata di sole dopo anni di pioggia, per un panorama mozzafiato o per un bacio inaspettato. Sei così piccola rispetto al mondo, eppure ti senti tanto forte da conquistarlo. Mentre prima eri un bocciolo difficile da sbocciare, ora sei un albero con solide radici. Ogni tanto si spezzano, ma ce ne sono altre mille a sorreggerti.



Questo va a tutte le anime fragili, che credono fermamente di essere schiacciate dall’universo. E’ vero, siamo un microcosmo rispetto al macrocosmo dell’universo, ma ciò non significa che siamo inutili. Dovete trovare il vostro senso e andare oltre all’apparenza delle cose. Perché dietro a quest’ultima c’è un vortice di emozioni e bellezze che, prima di darvi per vinte, dovete provare. Nel mio piccolo microcosmo, vi giuro che il bello c’è, dobbiamo solo imparare a vederlo. 

Margherita

sabato 30 marzo 2019

Ritorno alla Vita



Ciao Giammy,
così è come ti piaceva esser chiamato e ancora oggi, quando penso a te e ti parlo sussurrando nella mia mente, faccio attenzione a nominarti come tu più volevi. Sono trascorsi ormai sei anni e mezzo da quel freddo e buio giorno d’estate in cui volasti via da noi. La freddezza e l’assenza di luce di quel giorno riecheggiano ogni volta che provo a ricordare quell’estate così intossicata di angoscia, tormento e morte. Ricordi il primo giorno in cui ci siamo conosciuti, eravamo due ragazzini incoscienti di quattordici anni che stavano per iniziare una nuova avventura liceale, ignari di cosa ci avrebbe riservato quel futuro troppo colmo di sogni davanti a noi. Ancora ricordo quella gita in Sicilia, che ci bloccò tutti su un battello per 12 ore ininterrotte e ci costrinse a diventar abili scopritori dei metodi più innovativi di trascorrere più velocemente il tempo. Quanto sarebbe bello, oggi, che quelle 12 ore si fossero trasformate in 24, 48, forse anni, per bloccare inevitabilmente quel momento li, fissarlo eternamente su quel battello, per non farti più andare via, per non costringerci più a doverti vivere solo per mezzo di un sogno. Quella gita rimarrà eternamente impressa in me, coinciderà sempre con un punto di non ritorno, perché è da lì che la bestia “affamata” iniziò pian piano sempre più a togliermi cibo, amore, tempo e respiro. Tutto iniziò con la privazione di cibo, per quella bestia doveva essere sempre meno, sempre il minimo, sempre insufficiente a soddisfare uno stomaco che rimpiccioliva giorno dopo giorno. Il mio corpo non richiedeva più nutrimento, si preoccupava solo di saziare quella bestia di odio e rassegnazione, e più la bestia mangiava e cresceva, e più diventava vigorosa, imponente ed importante nella mia vita. Esistevo solo io e lei, dal puntuale risveglio mattutino, al puntuale addormentamento notturno. In quel giorno di agosto ormai la vera me esisteva solo in una piccola parte nascosta del mio cuore, perché la bestia era diventata così gigante da sovrastare ormai il piccolo corpicino in cui ero racchiusa. Quella piccola me in quella piccola porzione di cuore urlava terribilmente, voleva poter uscire di lì ed impossessarsi nuovamente del suo corpo, ma la bestia teneva quella gabbia d’oro saldamente chiusa. Mentre io ogni sera mi addormentavo, la bestia stringeva leggermente di più quella corda intorno al mio collo. Un nodo in più ogni giorno mi stringeva, più avanzava il tempo e più respirare diventava complicato. Non immagini quanto è stato difficile e quanto tempo è passato prima che riuscissi a scriverti, a parlarti, troppo offuscata dal senso di colpa e dal disprezzo che provavo verso me stessa. In quel maledetto giorno di agosto, mentre io vivevo la mia annichilente quotidianità anoressica, tu morivi, accasciandoti a terra davanti ai tuoi amici e non rialzandoti più. Da un lato c’ero io che da anni mi lasciavo morire lentamente, rifiutando la fortuna di una vita che denigravo e rinunciando adun futuro luminoso che spegnevo. Dall’altro lato, invece, c’eri te, un ragazzo con una strabordante voglia di crescere e sognare, che perdevi ingiustamente e precocemente dal nulla la tua giovane vita. Quante volte mi sono sentita indegna di essere viva, non sopportavo la rintronante consapevolezza che al posto mio potevi esserci tu. Qualche mese dopo che te ne sei andato, rinchiusa in un terribile reparto psichiatrico, con un sondino che mi fuoriusciva dal naso, ho trasformato quella rabbia che provavo verso me stessa in consapevolezza. Ho capito che io dovevo rinascere per entrambi. Nel momento in cui io ho deciso di vivere ho deciso di ESSERE, sia per me, sia per te. Il mio corpo è diventato il tuo corpo, le mie vittorie sono diventate le tue vittorie, i miei occhi sono diventati i tuoi occhi. 

Tua A.

mercoledì 27 marzo 2019

Lettera di una bambina affamata


Ciao Vita, 
è un po’ che non ti sento. So che non sei tu a nasconderti, ma io a fuggirti. Mi trovo nel pieno della dittatura della mente sul corpo, degli schemi sugli istinti, mentre tu sei da tutt’altra parte: fuori dalla mia testa, lontana dai pensieri. Adesso m’illudo d’incontrarti nell’adrenalina che provo quando avverto fame e non la soddisfo e un’energia mi scorre nelle vene sottoforma di euforia. Allora sì che mi sento lieve, ogni cosa rallenta e tutto diventa possibile, perché lo sballo della fame è simile a quello del primo bicchiere di vino: il buco nello stomaco diviene un anestetico, affondo le unghie nel vuoto fisico per distogliermi da quello emotivo. Sto scomoda nella pienezza perché, una volta soddisfatto il corpo, ci si ritrova faccia a faccia con i bisogni dello spirito e quelli sono ardui. Le carenze nutritive zittiscono quelle affettive, inghiottite per nutrirsi della propria repressione emotiva. La si ingurgita fino a implodere, la propria repressione e, dopo, non vi è più posto per il cibo: si funziona a fame. Può essere persino eccitante, la fame. Ci si può masturbare per ore, pensando a lasagne al forno e tiramisù, pizzette a sfoglia e pasticcini alla crema. Spalanchi la bocca, immaginando che vi atterrino dense colate di cioccolata nera, un fiume di piacere che ti regala più orgasmi che se pensassi al tuo ex. Godi di quel sapore rievocato, godi di non doverla pesare, quella cioccolata, di non dover pensare a quante calorie abbia. Visualizzi orge di cibo e ci sguazzi, finalmente libera.
L’anoressia è un bavaglio. Una stretta sulla bocca che non si limita a non farvi entrare il cibo, ma a non lasciare uscire fuori le emozioni. Ed è anche un tappabuchi: tolta quella esplode tutto, saltano quei delicatissimi, fragili ingranaggi che hanno contribuito a metterla in moto. E’ stato quando questi hanno iniziato a girare che ti ho allontanata, Vita: quando ho trovato nella privazione la risposta a domande poste da tempo, questioni aperte che chiedevano d’essere risolte e trovavano via d’uscita nel conteggio delle calorie. Ho preso tutti i miei vuoti, le mie mancanze e i miei abbandoni e ci ho arredato il tunnel umido e nero in cui mi ero impantanata. Nel mio petto fremevano paure, insicurezze e bisogno di certezze; io ho rilanciato con il controllo del peso. Quel peso che ho tolto ai miei sogni, ai miei progetti e alle mie ambizioni - e intanto ho reso te pesante. La mia Vita. E’ stata la paura a bloccare il tuo fluire dentro me: non credevo di poterne provare tanta - men che meno per la pizza, un tempo il mio cibo preferito, una festa di gioia e spensieratezza miste al profumo del forno a legna. In realtà c’è ben altro, sepolto sotto l’ansia per la farina, l’olio e il sugo. E’ soprattutto il mondo là fuori a farmi paura, credo. La verità è che ho terrore di guardare in faccia i miei sogni che si sgretolano, così lascio che a dissolversi sia il mio corpo. Almeno, di questa disfatta sono io l’artefice. Il cibo non è che un tramite, un cavo da tagliare per interrompere gli scambi con l’esterno, mettersi in stand-by e far calare una cupola di vetro su sé stessi, un po’ come la rosa della Bestia: io sono la rosa e l’anoressia la Bestia incapace di colmare quel vuoto, lasciandomi appassire in attesa che cada anche l’ultimo petalo, isolata in un rifugio a cui sono cresciute le sbarre. E, a furia di non aprire la serratura, ho dimenticato dove ho gettato la chiave - e anche di averla gettata. Eppure, quella che trovo nella fame non è che la tua misera, scialba ombra. Perché tu, Vita autentica, Vita pura, non sei fatta di schemi, regole e limiti autoimposti, né tantomeno di numeri, liste e pianificazioni esasperate. Tu non sei nella paura. Non sei nelle occhiaie, nella faccia smunta e nell’amenorrea.  Tu sei in quel volto che vorrei tanto riavere: nell’espressione serena, nel sorriso rilassato e, soprattutto, negli occhi che brillano nuovamente. Colmi di te.
Sei nell’odore dei pini, nell’innocenza di quelle albe d’estate confortate dall’aroma del caffè e del pane tostato. Sei nella sabbia calda di sole e nell’aria inebriata di mare. Sei su quel palco dove ti ho sentita più forte che mai. E nelle risate senza fiato, nell’uscire dagli schemi, nei programmi che saltano, nel farsi cogliere impreparati. Nei sapori, nel cibo che davvero nutre e appaga. Quello che non controlliamo è proprio ciò che ci tiene in vita: il respiro, i battiti del cuore, le emozioni che proviamo, la natura che ci circonda, i sentimenti che ci legano ai nostri affetti, l’amore che nutriamo verso le nostre passioni. Tutto questo è Vita, tutto questo sei Tu. Voglio accogliere con gioia la liberazione dal controllo, sentirti nella pancia e non scappare. Lo devo alla bambina affamata che c’è dentro di me e che esige nutrimento, cure, esperienze che soddisfino la sua curiosità. Io rispondo con l’elemosina, lascio cadere mezzo centesimo sul piatto per poi tornare ad ignorarla. Lei, però, sta imparando ad alzare la voce. A pretendere ciò che le spetta di diritto. Ed io devo trovare il coraggio di aprire le orecchie.
Mi manchi, Vita. E mi manco anch’io. Mi manca la bambina sognatrice, la ragazza determinata. La voglio riabbracciare e scusarmi per averla spenta e messa da parte. E’ ora di cambiare arredamento a questo tunnel: smontare i quadri, buttare i mobili ricoperti di muffa. Dipingere scenari ricchi di colori e sfumature, piantare fiori e idratarli, nutrirli d’acqua, aria e luce. Perché io lo so che questo disturbo ha scelto la ragazza sbagliata. Se è vero che io non avevo programmato l’anoressia, anche lei non aveva messo in conto me. Deve capire con chi ha a che fare, che posso riaccompagnare gentilmente ma fermamente i miei mostri alla porta, rispedendoli al mittente. Aggrappandomi a te, stringendoti forte. Accettando la fame, i bisogni dell’anima e scegliendo di appagarli. Scegliendo quest’appetito per te.
Non voglio più accontentarmi dell’elemosina.

Roberta

lunedì 25 marzo 2019

Come un uragano



Ciao! 
Non so come iniziare e non so neanche bene cosa dire. È la prima volta che rompo il silenzio che mi ha da sempre accompagnato. Dico "da sempre" perché di anni ne sono passati un bel po’ da quel giorno, quello in cui non mi sembrava così sbagliato dimagrire un pochino, perché alla fine si tratta solo “di perdere qualche kg”.

Già, è così che ho iniziato io, avevo 15 anni e non so ancora spiegarmi bene che cosa non andasse in me, ma c’era qualcosa che proprio non mi piaceva. Era una sensazione forse, di qualcosa a metà tra insoddisfazione e inadeguatezza. Ogni tanto ci ripenso e mi chiedo se lo capirò mai. So solo che la sensazione di “potere” che ti travolge non appena ti rendi conto di avere il controllo del tuo corpo è diventata nei mesi l’unica voce che riuscivo a sentire. L’anoressia nasce da un piccolo sussurro, che piano piano ti attrae quando ti senti vulnerabile o sola, o quando ti senti inadatta, poco adeguata, insufficiente. L’unica cosa che devi fare è seguirla. Lei non ti tradirà mai, ha la soluzione apposta per te. Basta fare come dice. E poi “si può smettere quando si vuole”.

È talmente annebbiante che non ti rendi conto più di niente. I vestiti si allargano, le forze diminuiscono, ti manca il fiato anche solo per salire un piano di scale. Ma tu niente, continui, dritta, su quella strada. Dove ti porta non lo sai, ma non riesci a pensare ad altro che a percorrerla. Ti illudi che ci sarà una fine e che sarai veramente felice. Quindi continui, perseveri, controlli. Controlli il peso, le calorie, i movimenti, “se mi pettino i capelli così nessuno si accorge che me ne sono caduti così tanti”. La tua intera vita ruota intorno a questo. E nel mentre non riesci neanche a renderti conto di cosa stai perdendo. Di tua madre che vede sua figlia scomparire.

All’inizio sembra super: ti senti piena di possibilità, in grado di fare tutto. Ma poi dimagrisci e Anoressia non è ancora contenta. Devi fare di più. L’anoressia è diventata un lavoro a tempo pieno. Trascorri la giornata a contare le calorie, a pensare a cosa fare, a raccontare bugie su bugie alle persone che sono preoccupate. Non capisci neanche tanto bene il perché di quella preoccupazione, perché tu “hai tutto sotto controllo”. E poi, c’è una cosa che credo non dimenticherò mai: quella sensazione di freddo perenne che ti pervade in ogni momento.

Non riesci a smettere, sei esausta, mentalmente a pezzi. Intorno a te ti pregano di farti aiutare. Ma è questa la tua vita? A un certo punto qualcosa si rompe. Perdi il controllo. Come finisce questa storia? Non lo so ancora, è una battaglia di tutti i giorni. Mi sono resa conto che forse non è mai possibile debellare un disturbo alimentare, credo che se ti ammali questo diventi parte di te. Forse la porteremo sempre dentro di noi. E allora penso che da questo forse possiamo imparare. Imparare a guarire, imparare a credere in noi stesse, imparare a combattere con la forza di un urgano, imparare che dopo ogni discesa c’è una salita tanto dura quanto appagante quando si arriva in cima. 

Un giorno, uno di quei giorni in cui pensi di non farcela, un mio amico che non smetterò mai di ringraziare per quanto mi ha aiutato, mi ha detto “no man is an island entire of itself”. Per cui vi dico, fatevi aiutare, lottate, abbiate la forza di risollevarvi e cambiare le cose e non abbiate paura di farvi scaldare da quella famosa luce in fondo al tunnel.

Sara

venerdì 22 marzo 2019

Senza prova evidente


Li sentivo i brusii, le risatine e poi la prof, quella di matematica mentre eravamo tutti in fila aspettando suonasse la campanella “ma com’è che sei così grassa?”. I medici, i parenti, chiunque mi conoscesse, perché io ero quella grassa, quella enorme, quella del “ma non la fai la dieta?” racchiuso in un sorriso mesto di commiserazione.
Ma che ne sanno loro del buio che ti avvolge quando non ti guardi più allo specchio, della paura della luce che possa mostrarti così come sei, mentre affondi le mani e la bocca nella tua nascosta disperazione. Sono solo io e le mille carte chiuse nel cassetto di qualsiasi cosa che possa riempirti lo stomaco, sfondarti lo stomaco, avere quella sensazione di pieno che non riesco a darmi da sola.
Ancora una volta sono solo io e la mia vergogna. Sono solo io e la luce, quella confortante del frigorifero, quella degli scaffali dei supermercati, immensi e sempre accessibili.
Piangi? Cosa piangi? Non piangere, sono forte. Sono più forte anche di tutto questo, devo resistere a tutto il mondo fuori - voglio nascondermi, mangio. Voglio diventare invisibile, mangio -. Tutto si incrina, la vita è il rumore di uno specchio che va in mille frantumi ed è impossibile non guardarsi mille volte ora. Ma quello che si rompe può solo creare qualcosa di nuovo: sono bella, sono io. Sono la persona che desidero essere, mentre la luce riassume toni più naturali, riesco a vedere il sole. Esco a vedere il sole.
La mano tesa è solo la mia e la vedo con i miei stessi occhi che tanto mi hanno mortificato; la bocca serve a parlare, a chiedere aiuto non solo ad afferrare dalla credenza la mia sicurezza mangiabile.
Un passo, due e poi cado. Tre, quattro: i giorni hanno tutti una fine, ma tanti vorrei non iniziassero. Ho le mani che tremano, ho caldo, ho freddo, mangio, non ho fame, sono un drogato. Il primo morso è la mia dose di felicità, poi non li conto più, non li sento più. Mi chiudo, ma non chiudo la bocca e le mani continuano nervose ad afferrare: paura, vergogna, spavento, disgusto. Provo disgusto per tutto questo, ma non posso smettere. Provo disgusto per me stessa e vorrei smettere. Smettere me stessa. Finire. Finirla qui.
Cinque, sei, forse non cado; forse si, ma mi rialzo. Cadere non è l’ultima cosa che farò.
Sette, otto, trenta. Trenta giorni senza binge. Trenta giorni di vita: quella vera. Quella che ti fa arrabbiare, che ti fa gioire, che ti fa stancare, ma perché è vita e sono io ad averne il pieno possesso.
Esco e vedo il sole. Sono diversa, gli altri mi vedono diversa: sono io. Ora sono io, sono me stessa. Sono nel mondo, occupo spazio nel mondo: non ho paura di farlo. Sorrido, parlo, mi muovo e sono affamata, si, affamata di ore che corrono troppo veloci e di sapori, odori.
Oggi, duemilacentrotrentasei giorni di vita. 

D.

giovedì 21 marzo 2019

Ti sei mai chiesto cosa vuol dire amare?


Entrare in un vortice che ti porta alla morte, provare a recuperare la vita che ti sei sottratta iniziando ad amare te stessa.
Amore non è solo innamorarsi di qualcuno ma è soprattutto amare se stessi. Perché se non stai bene con te stesso non potrai mai essere felice con qualcun altro. Per far si che questo accada dobbiamo in primis dedicarci a noi stessi, pensare a cosa ci piace fare, perché non esiste solo il dovere ma anche il saper trovare del tempo per i nostri piaceri, imparare a chiedere aiuto quando c’è qualcosa che ci fa stare male, parlare, chiedere consiglio, confrontarsi con altre persone. Questo è amarsi! E il non amarsi abbastanza può portare anche alla morte.
A volte, quando una persona è un po' più fragile, anche se agli occhi degli altri sembra “invincibile”, si fa influenzare facilmente dal giudizio esterno, stando male, soffrendo, ma per non mostrare le sue fragilità non parla, si tiene tutte le sofferenze dentro e un po' alla volta questo dolore l’annienta.
Tutto questo può essere amplificato da altri fattori o eventi e arrivare al punto che la persona si consideri insignificante, si pensa di non valere niente, non ci si ama più e si pensa di non essere amati da nessuno, nemmeno dalla propria famiglia o dagli affetti più cari; ti senti inutile, tanto da voler diventare invisibile, sparire… Forse ti senti un peso per tutti, ti senti un fallimento e inconsapevolmente ti spingi verso la morte. Un po' alla volta ti sottrai tutto, partendo dalle cose più superflue arrivando fino a quelle vitali. Non riesci ad amarti e ti sembra impossibile che gli altri riescano a farlo. Ti domandi: "Come fanno ad amarmi se fallisco? Se non sono all’altezza? Se gli altri sono meglio di me?"
Tutti pensieri che spesso fa una mente malata, pensieri di una persona fragile, insicura, che non ha ancora trovato il suo posto nel mondo. Non ti rendi però conto che facendo così rischi di distruggere te stessa e dai inizio al meccanismo contrario. Cioè fai sì che le persone che ti amano, per aiutarti a ricominciare a credere in te stessa, ti dedichino più tempo, ti mettano al centro delle attenzioni e tu, da invisibile che volevi essere, tuo malgrado, diventi la protagonista.
Ma quanto soffri prima di arrivare fino a questo punto? È brutto sentirsi dire dagli altri: "Non avrei mai immaginato una cosa del genere da te, eri sempre così solare, felice, e poi sembravi così forte!"
Come fai a stare bene, ad essere amato e sentirti amato, se prima non ami te stesso? È difficile, molto, ma se tocchi il fondo più di una volta, ti rendi conto che ne vale la pena. Che iniziando ad amarti puoi stare bene, credendo in te stesso e convincendoti che gli altri non sono meglio di te ma hanno semplicemente qualità e pregi differenti. Se ti ami per come sei riuscirai a inseguire i tuoi sogni senza abbatterti al primo ostacolo, senza mollare per colpa dei giudizi degli altri.
Amarsi, sta tutto in questa parola, in queste sei lettere. AMATI, AMA QUELLO CHE FAI, AMA LA TUA VITA!
La morte arriva per tutti, ma che senso ha andare a cercarla? Perché? Se si può vivere ancora! La morte arriva per chi non rischia, per chi non chiede aiuto, per chi evita di coltivare le proprie passioni per paura del giudizio o semplicemente per la paura di poter provare delle emozioni. Quelle emozioni che, se ci pensiamo bene, in realtà ci fanno brillare gli occhi e battere il cuore.
La morte colpisce chi teme di inseguire i propri sogni perché gli manca la certezza nelle cose, e, piuttosto di rischiare, molla tutto!
Ma l’anticipare la morte si può evitare, ricordando di amarsi, ricordandosi di quanto bello è vivere, soprattutto dopo aver provato quanto brutta e paurosa è la morte!
Amati e sarai felice!


Alessia

mercoledì 20 marzo 2019

Tu ce la farai.


Lettera per S.

Ci vuole coraggio a dire: “Sto male. Ho bisogno di aiuto”. Ma tu lo hai fatto. Ci hai chiamato da Parigi perché dovevi dirci un segreto, un peso che ti portavi dentro, ed è stato in quel momento che ho sentito per la prima volta la parola “anoressia” pronunciata da te.
Ti ho raggiunto subito. Mi hai parlato, ti ho parlato, mentre i miei occhi scivolavano sul tuo corpo. Ho cominciato a guardarti in modo minuzioso, senza farmi accorgere, e a ogni occhiata una pugnalata, scoprendo lo scheletro  che  veniva  in  superficie  attraverso  la  tua  pelle  trasparente,  le gambe magrissime e le scapole come piccole  ali.  40  chili  di  ossa e di angoscia.
Sono stata con te finché ho potuto, dormendo nella tua stanza. Ricordo la fatica che facevi ad addormentarti. Ti sentivo sospirare e girarti e rigirarti. E io, finché non ti assopivi, rimanevo vigile, quasi che ti dovessi proteggere dai tuoi fantasmi.
Hai  iniziato  la  tua  battaglia,  mio  piccolo  soldatino  coraggioso,  ma  hai versato ancora tante lacrime perché il male che hai dentro non ti lascia stare, mai. Neanche un attimo di tregua.
Sono tornata da te più volte nell’arco di un anno. Cambiavano le stagioni, la tua malattia era sempre lì ma tu, con la forza di un tornado, hai terminato gli studi e poi sei tornata a Roma.
Sei stata una grande lezione per me, sai? Mi hai insegnato cosa vuol dire lottare. Tu, che sembravi un uccellino caduto dal nido, con un mostro che ti divorava da dentro, hai continuato la tua corsa e sei arrivata al traguardo che volevi raggiungere.
Ancora non sei guarita, bambina mia, è vero, ma le psicologhe ti aiuteranno, noi genitori ti daremo tutto l’ausilio possibile e tu ce la farai, ne sono certa. Non so quando ma un giorno la bilancia che abbiamo in cucina la butteremo e quella al bagno non la useremo più.
Lo so, tesoro mio, che non mi hai chiesto tu di nascere e mi hai odiato per questo,  perché  senti  tutta  la  gravità  dei  vuoti  esistenziali  che  abbiamo dentro. È vero, la vita assomiglia a un castello di sabbia costruito un po’ troppo vicino alla riva, ma prima che arrivi l’ultima onda abbiamo tutta un’esistenza che è per noi, soltanto per noi. E tu non ci crederai ma è veramente un grande, immenso tesoro.
E un giorno ci verrà da ridere ripensando a quella volta quando siamo andate a mangiare ai Giardini del Lussemburgo, e c’era molto vento, un vento dispettoso che faceva volare le foglie della tua insalata. Ed era una scena buffa e divertente ma per un attimo ho avuto paura che saresti volata via anche tu. Ti ho stretto la mano, forte. E poi abbiamo guardato il cielo.

Anna

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Testo di Anna Scipioni, terzo classificato al concorso "Racconti affAMATI" indetto dall'Associazione Mi Nutro di Vita in occasione dell'VIII Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla (15 marzo 2019).
 
 

martedì 19 marzo 2019

Lettera a te, Malattia.


E’ arrivato il momento di parlarti, Malattia. Hai bisogno di sapere cosa penso di te, cosa ho provato in tua presenza. E io ho bisogno di raccontare, di usare il potere terapeutico della parola, della narrazione per depotenziare le emozioni legate a tutti quei ricordi.
Alla fine hai ottenuto quasi tutto ciò che desideravi. Sei stata molto abile a prosciugare ogni mia energia; sei stata astuta perché hai colto i momenti di maggior dolore e fragilità per contaminare ogni mio pensiero.
Sei riuscita a conquistarmi senza troppa fatica, mi hai illusa di essere quel conforto di cui tanto necessitavo: proprio per questo abbiamo vissuto molto tempo in simbiosi, talmente unite da sembrare gemelle, talmente legate da farmi dimenticare che io una sorella gemella ce l’avevo già.
Mi hai portata via dal suo amore, dai suoi tentativi di aiutarmi, tanto che le sue dolci parole erano diventate monologhi perché io ero sorda di fronte ad ogni richiamo alla Vita.
Sei stata capace di trasportarmi in una spirale che andava sempre più giù, che dava sicurezza nonostante la sua veloce discesa, nonostante il buio sempre più avvolgente.
Sì perché tu eri più forte di tutti noi messi assieme, eri nata in una mente talmente determinata, perfezionista e sensibile che era impossibile fermarti. Eri capace di tutto. O almeno così si pensava.
Sei stata in grado di mettere a terra un’intera famiglia, di manipolarmi così bene da farmi credere che il tuo era il modo giusto di vivere. Che rimanere dipendente da te e sottostare alle tue regole sarebbe stata la mia condanna a vita.
O la mia salvezza (a quel tempo ancora non riuscivo a decidere).

Mi sono accartocciata come foglia d’autunno e, come neve, ho desiderato appoggiarmi al suolo in una notte d’inverno per poi evaporare all’alba con i primi raggi del sole.
Ti ho seguita fino a sfiorare l’estremo limite. Tu gioivi, ti sentivo, sai!
Ma lo facevi ignara del tuo destino, all’oscuro di quel coraggio che stava per nascere.
Non lo sapevi ma le persone a me più strette stavano architettando da tempo un modo per distruggerti, tanto potente quanto quello che stavi utilizzando tu su di me.
Non lo sapevi ma io alla fine mi sarei alleata con loro per compiere quello slancio vitale.
Aver toccato il fondo ha permesso ai medici, alla mia famiglia, a mia sorella gemella di ancorare al terreno quel filo lilla che mi avrebbe accompagnato lungo il percorso di rinascita.
Aver toccato il fondo ha acceso in me il desiderio di ricominciare, la forza di lottare.

Ho tentato allora il Cambiamento: se all’inizio provavo solo rabbia per il fatto di dover andare avanti senza il tuo potere anestetico, poi ho capito che dovevo aggrapparmi a quel filo lilla, all’Aiuto delle persone che mi volevano salvare. Solo così una speranza di vedere la vita in modo diverso ci sarebbe stata.
Solo così ne sarebbe valsa la pena.
Ho incominciato allora a lasciar fluire la rabbia, la delusione, la tristezza sciolta in pianto, il dolore di tutti gli anni passati con te. La svolta è arrivata il giorno in cui ho preso la decisione più importante di sempre, quella di voler vivere. E’ stato in quell’istante che ho sentito poggiarsi nel cuore un fiocchetto lilla pieno d’affetto, di rinascita, di Vita! Dopo anni di battaglie posso dire di avercela fatta!
Mai potrò dimenticare le lacrime di commozione di una madre, il respiro di sollievo di un padre che ora è certo di poter abbracciare la sua “piccola”, l’intensità dello sguardo di un’amica che ti dice “Ora tu sei Luce”, il sorriso tra fratelli per dire “Hai visto, ce l’abbiamo fatta!”, e il bacio in fronte di quella sorella gemella che è per me la ragazza più preziosa che esista.
E tu, malattia, chi ti credi di essere, ora, di fronte all’immensità di questo Amore?

Oggi a testa alta e con il sorriso ti voglio lasciar andare definitivamente. E’ arrivato il momento di salutarci.

Ma prima di farlo, un’ultima cosa.
Ti voglio ringraziare. Sì, ti sembrerà molto strano ma è proprio così.
Ti ringrazio perché attraversando tutta questa sofferenza ho riscoperto la gioia di vivere, ho conosciuto tante persone preziose che si sono prese cura di me e mai dimenticherò.
Perché proprio dall’odio che mi facevi provare ho imparato ad amarmi senza pretese, senza limiti, con delicatezza.
Ti sussurro un grazie sincero perché se non avessi convissuto con te, se non avessi lottato contro te, non sarei di certo la persona che sono oggi: una ragazza piena di sogni, capace di amare nonostante la fragilità! Una stella che brilla nell’immensità!

Sinceramente Tua,
Alessandra

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Testo di Alessandra Pollazzon, secondo classificato ex aequo al concorso "Racconti affAMATI" indetto dall'Associazione Mi Nutro di Vita in occasione dell'VIII Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla (15 marzo 2019).
 

lunedì 18 marzo 2019

Bottone



Cara anoressia,
non avrei mai pensato di scriverti.
Scrivere una lettera significa presupporre un destinatario diverso da chi scrive, dunque il mio atto significa stabilire, una volta per tutte, che io e te non siamo la stessa cosa.
Certo devo ammettere che sei stata parte di me, per un tempo forse maggiore di quello che sono disposta ad accettare, tuttavia, cara anoressia, tu non sei me e io non sono te.
Ai miei occhi hai sempre avuto l’aspetto freddo, rigido e categorico dei numeri: quando pensavo di essere te credevo di essere il mio peso, i centimetri delle mie cosce, la mia altezza, il mio numero di matricola, i miei voti universitari, il numero di amici su Facebook; su tutto questo ero convinta di poter avere il controllo, come un matematico controlla i calcoli attraverso un’equazione, credevo di avere abbastanza forze ed energie per orientare i parametri della mia vita.
Orientarli all’eccellenza.

Volevo essere speciale e tu, anoressia, mi aiutavi in questa illusione d’onnipotenza, eri una malattia che mi faceva credere di essere più vicina alla perfezione; sfoggiavo fiera i tuoi segni su di me, i polsi affusolati, le taglie xs ed i “no io non ho fame ora, non ho bisogno di mangiare” erano stendardi che sventolavo per rendere manifesta la mia vittoria, il mio controllo assoluto, il mio essere migliore di chi un controllo non riusciva a imporselo.
Poi gli stendardi sono diventati lacci troppo stretti e l’onnipotenza è diventata una corsa estenuante che non avevo, tuttavia, il coraggio di interrompere.

Un giorno, in ospedale, mi sono chiesta se essere perfetti fosse davvero così importante.
Ho guardato il cielo e mi sono chiesta se nel desiderio di essere perfetti non fosse invece abbastanza esser-ci, qui ed ora.
Ci è voluto tanto tempo, forse il lavoro non è ancora finito, ma ho preso quegli stracci, vecchi stendardi di vana gloria, e ne sto cucendo degli abiti: non hanno taglia né misure, non stringono e non sono perfetti, ma sono le mie insicurezze e quindi voglio loro bene, le indosso senza vergogna e senza vanto, cercando solo di armonizzarle alla mia persona.
Tu eri il bottone troppo stretto che faceva sì che loro mi soffocassero, ma adesso ti ho scucita via, non fai parte del mio abito.
E dunque, cara anoressia, posso scriverti questa lettera con serenità, perché la mia firma in basso è diversa dal tuo nome lassù, nel posto dell’intestatario.
Il mio nome simboleggia il mio essere speciale, non tu.

Eleonora

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Testo di Eleonora Arcolin, secondo classificato ex aequo al concorso "Racconti affAMATI" indetto dall'Associazione Mi Nutro di Vita in occasione dell'VIII Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla (15 marzo 2019).

domenica 17 marzo 2019

Mignon


Sono  quasi  le  cinque  del  mattino,  e  tu  hai  preso  sonno  da  poco. Mi  son  girato  nel  letto  per  ore,  la  mente  ha  lavorato  come impazzita,  proiettando  sulla  parete  della  stanza  numeri  e figure,  mentre  l’alba  ha  accolto  i  miei  metodici  gesti.
Una  tisana  con  poco  zucchero,  ecco  il  tuo  pasto  giornaliero.
Io  ieri  ne  ho  bevute  sei;  venivo  in  camera  e  bussavo  piano,  ti domandavo  se  ne  volessi,  preparandomene  una  per  invogliarti.
Tu  sembravi  così  assente,  fissavi  il  vuoto  che  t’era  diventato amico  e  che  sembrava  volesse  fagocitarti,  scuotevi  la  testa  e mi  dicevi  che  no,  non  volevi  nulla,  non  avevi  fame.
Quando  eri  appena  una  bambina  e  passeggiavamo  insieme,  ti compravo  sempre  una  dolce  sorpresa.  I  mignon  erano  i  tuoi preferiti,  e  Dio  solo  sa,  figlia  mia,  quanto  rimpiango  quei giorni.  Quando  ridevi  così  spensierata  ed  i  tuoi  occhi coloravano  l’aria  d’aprile,la  tua  bocca  così  impiastricciata  di cioccolato  e  zucchero  a  velo,  e  tu  dicevi  che  erano  così  buoni e  che  ne  volevi  altri.  Ed  ancora,  ed  ancora...
Oggi  ti  sento  piangere  in  segreto,  chiusa  nel  bagno,  seduta  per terra,  mentre  guardi  le  tue  cosce  smagrite,  conficchi  le  tue unghie  nella  carne,  ti  maledici.  A  volte  gridi,  dici  che  c’è ancora  tanto  lavoro  da  fare.  Che  si  può  sempre migliorare. Che  in  fondo  saltare  qualche  pasto  non  fa  nulla.  Mi  guardi  con quell’espressione  stralunata, troppo  lucida.
Io  ti  accarezzo  la  schiena  contando  una  ad  una  le  vertebre, giro  come  un  folle  per  ogni  via  di  questa  maledetta  città, mentre  tu  sei  a  scuola,  e  non  sai.  In  ogni  farmacia  domando  se hanno  scorte  di  quegli  integratori  che  la  nutrizionista  ti  ha
obbligato  a  bere.  Supplico  tutti  e  tutti  sembrano  compatirmi. Come  se  sapessero,  o  sospettassero  l’orrore  che  ho  dentro  ogni qual  volta  mi  sveglio,  in  piena  notte,  e  calcolo  di  nuovo quanti  grammi  di  cibo  hai  assunto,  quante  calorie  son  riuscito
a  farti  prendere.  Calcolo  e  mi  mordo  il  labbro  pensando  al  tuo esile  corpo  sulla  bilancia  che  trema  perché  quelle  gambe  enormi sono  un  abominio  per  te,  che  si  può  sempre  migliorare.
Tu  ingurgiti  il  tuo  intruglio  dolciastro  in  silenzio,  breve liquido  d’una  vana  salvezza,  ed  io  tiro  un  sospiro  di  sollievo, dicendomi  che  non  perderai  i  sensi,  non  oggi  almeno.
Sono  qui  sul  bordo  del  letto;  ho  smesso  di  contare. Scrivo  brevi  righe  che  forse  non  leggerai  mai. Vorrei  proteggerti  dal  freddo  del  mondo,  amore.
Da  questi  spettri  di  vetro  che  ti  tormentano,  che  ti  modellano restituendoti  immagini  che  non  corrispondono  al  vero.
 Che,  con  i  loro  ghigni,  ti  riempiono  la  mente  di  bugie,  ti avvelenano  il  cervello.  Vorrei  donarti  i  miei  occhi,  anche  solo
per  un  istante,  affinché  tu  comprenda.
Vorrei  riportarti  all’aprile  di  tanti  anni  fa,  quando  il  sole si  riversava  caldo  sulle  tue  guance  rosse  e  tu  avevi  i  tuoi  bei mignon  in  mano.
Oggi  ti  aggiri  in  casa  e  la  tua  figura  sembra  quasi  levitare. Scansi  un  piatto  dopo  l’altro,  rifiuti  timidamente  pranzi  i compagnia;  bevi  senza  protestare  gli  integratori  ed  aspetti impaziente  il  giorno  successivo  per  risalire  sulla  bilancia  e constatare  gioiosa  il  tuo  piccolo  successo.
Ti  chiedo  perdono.
Ti  chiedo  perdono  per  la  mia  ira,  per  aver  minacciato  di portarti  via,  in  una  clinica.  Ho  alla  prima  pagina  dell’agenda un  numero  d’emergenza  da  chiamare,  che  non  ho  ancora  digitato, non  so  nemmeno  perché.  Ti  chiedo  perdono  perché  le  tue  lacrime sono  anche  mie,  perché  quell’atroce  verità  rimbomba  ogni  giorno nella  mia  testa.

Stai  morendo,  Mignon.

Anche  se  mi  dico  di  no.  Anche  se  tutt’ora,  proprio  adesso  che scrivo  e  che  ho  smesso  di  contare,  spero  di  prendere  nuovamente sonno  per  un  paio  d’ore,  di  svegliarmi  come  da  un  brutto  sogno. Spero  che  quella  verità  non  ci  sia.  Non  più  ormai.

Spero.

Papà

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Testo di Sahara Rossi, primo classificato al concorso "Racconti affAMATI" indetto dall'Associazione Mi Nutro di Vita in occasione dell'VIII Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla (15 marzo 2019).

giovedì 14 marzo 2019

Beyond the illness.



Quindici marzo.
Uno, due, tre, quattro.
Dopo quattro anni, anche io parlo. Di come si vive, si affronta e si cerca di superare un disturbo del comportamento alimentare.
Le ricerche e gli studi dicono che sono gli adolescenti quelli maggiormente colpiti dai DCA.
Nella mia esperienza, l'incubo è arrivato dopo i vent'anni. Con una carriera lavorativa avviata, due lauree ottenute con enormi soddisfazioni e massimo impegno. Un concetto, quello della perfezione, che ha sempre inciso sulla mia persona. La ricerca costante dell'essere perfetta in tutto. Nello studio, nel lavoro, nella vita personale. Non sbagliare mai un colpo, vedere qualsiasi sconfitta come un qualcosa che intacchi la perfezione, macchiandola di nero.

L'ossessione della perfezione, che diventa il proprio fardello quando il meccanismo si inceppa. Inizio a stare male, a perdere peso. Sono le allergie, mi dicono i medici. Va adeguato il regime alimentare. Perdo peso, mi sento più agile e perfetta. Anche se i segni sul corpo, le smagliature che appaiono, le proporzioni che cambiano, mi trasformano. Non sono perfetta. Ho dei difetti. I fianchi troppo larghi, le gambe troppo grosse, il bacino troppo femminile. La voglia di essere sottile, minuta.

Davanti allo specchio, inizio a cercare di diventare perfetta. Il tunnel è quello del peso, la mente ragiona così. Meno mangio, meno peso. Più divento agile, più cerco di tonificare il mio corpo, meno difetti avrò. Inizio a coprire ogni singolo centimetro del mio corpo di bugie. "No, non sto dimagrendo". "No, sto benissimo". "Si, ho mangiato tutto", quando in realtà vivevo a mandarini e litri d'acqua.

"No, non ho bisogno di aiuto".

Chi mi stava accanto non si è accorto di nulla. Ci è voluta la pazienza di una persona, la sua persuasione, nel convincermi dopo diversi mesi ad accettare quanto meno di parlarne.

Da lì è iniziato tutto. Visite, controlli, colloqui. Il guscio che piano piano si incrina, si sgretola, crolla. Il castello di perfezione che non esiste più. Rimane un corpo riflesso nello specchio che non è più il mio. E, soprattutto, non è perfetto.

Passano i mesi, cambiano i medici, cambia la situazione. Mi allontano da un porto sicuro per entrare in un altro che chiude le porte dopo poco.
Non ho più alcun aiuto, alcun sostegno.

Qualcosa, in quel momento, scatta.
Non posso permettere all'incubo di riprendersi in mano la mia vita. Sono io che vivo, non lui per me. Devo cavarmela da sola, imparare ad allontanare l'incubo prima che sia troppo tardi. Trovare una chiave, una via d'uscita. Un modo per rialzarmi e andare oltre.
La strada da percorrere è lunga, in salita, tortuosa. Non ci sono barriere che mi proteggono dagli strapiombi. Non c'è alcun sostegno, alcun supporto.

Passano i mesi, gli anni. Cambiano le relazioni, cambiano i contesti, cambia tutto. L'incubo si allontana, ma una cosa resta uguale.

Io continuo a nascondere ogni singolo centimetro del mio corpo, e a provare vergogna nel mostrarmi. Non voglio che qualcuno mi possa vedere. Non voglio che qualcuno possa vedere che quel corpo riflesso nello specchio non è perfetto. Non voglio che il mio corpo sia fonte di rifiuto. Non voglio dare fiducia.

Poi una luce. Che mi insegna a rialzarmi e a risplendere, sempre.
A non provare vergogna, ad accettare ogni singolo centimetro del mio corpo come un bene assoluto. Finalmente la salita è finita, e dall'alto si vede un panorama stupendo. La luce.
 
Sara

 

mercoledì 13 marzo 2019

Il dolore che diventa forza



Ci sono tante verità nascoste dietro un disturbo alimentare, tante storie ma sopratutto tante sconfinate sensibilità.
Il disturbo costruisce muri sopra quell'immensa luce colorata che è la nostra indole, il nostro sentire.
Lo fa perché ci convince che è inadatto e sbagliato!
Eppure quello che tentiamo di seppellire è la nostra forza! Senza dover costruire mura, ci rende uniche e si ribella ad una malattia che si illude di cancellarla.
Quando abbiamo iniziato a erigere quei muri? Perché?
L'abbiamo fatto perché eravamo infelici.
E quando le cose intorno a noi non ci rendono felici e iniziamo ad avere paura di non essere capaci di cambiarle, inevitabilmente ci troviamo a farci del male, a reprimere i nostri bisogni e a punirci  per le nostre debolezze.
Ci costringiamo a vivere in una quotidiana agonia  che ci logora, forse nell'illusione di riuscire in qualche modo a gestirla con i giorni buoni, rialzandoci dai giorni meno buoni, motivandoci con parole, schemi e regole o forse per convincerci che tutta quell' infelicità è solo colpa nostra.
È più facile punire noi stessi che guardare chi hai di fronte e urlargli che è causa della tua infelicità, perché infondo di quelle persone tu hai bisogno!
Pensiamo che farlo porti ad una rottura ma a volte è solo dare a ciascuno la possibilità di cambiare. Ci permette di non restare appoggiati al loro carrozzone tentando di essere un peso leggero durante il cammino, ma di accompagnarci ognuno con le proprie forze, sostenendoci quando all'altro vengono a mancare.
Nessuno è detentore di una verità assoluta, siamo piccoli frammenti di verità e quando ci uniamo ci permettiamo di vederla da più angolature!
Il tuo sentire, quello che  non ascolti, è l'unica vera forza che hai!
È quella che ti tira fuori dalla malattia, dalle situazioni, è quella che grida "Guardami! Ascoltami!" senza dover mostrare un corpo scarno o un corpo troppo ingombrante!
È quell'onda che sommerge e porta via i muri che hai eretto, le voci,...
Vivendoti ti aiuterà a costruire la tua identità, che non ti definisce ma che sarà in continua evoluzione!
La malattia si è costruita attorno a quel sentire e lo ha fatto nell'illusione di difenderci dall'infelicità!
È probabile che la porteremo dentro di noi per sempre, come un colore scuro sull'anima, ma da guarita credetemi non è venuta per distruggerci è nata per insegnarci!
Mi ha insegnato che non c'è peggior nemico di noi stessi, ma mi ha anche insegnato che io sono la mia forza.
Mi ha insegnato a guardare le cose in 3D e cioè da più angolazioni per vedere e capire al meglio il senso delle cose.
Mi ha insegnato che il definirmi o provare ad essere perfetta, mi obbligava a vestire un abito troppo stretto.
Mi ha insegnato a non appoggiarmi agli altri ma ad abbracciarli.
Che il silenzio non è vuoto e che il dolore può diventare forza!

Clara

martedì 12 marzo 2019

Ricostruirsi.


Ciao, 
non so bene come salutarvi, non so come vi chiamate, da dove venite e cosa vi piace fare quando siete da sole in camera vostra. L’unica cosa che so di voi è che condividete il tempo, un posto in cui probabilmente non volete stare (ma fidatevi, vi salverà la vita) e che state provando dolore. E so che è proprio quel dolore che ho sentito (e a volte ancora sento)quando l’unica cosa che volevo fare era “scomparire da tutto e tutti cosicché nessuno possa più considerarmi un peso".
Lo so, è un pessimo inizio e una pessima presentazione, ma non mi aspetto applausi, lacrime, stima o approvazione. Non voglio neanche raccontarvi la mia storia, non oggi, è troppo lunga (so le cose che vi stanno passando per la testa: si, probabilmente le ho fatte quasi tutte) e a mio parere contorta per essere condensata in una sola lettera. A volte non la capisco neanche io, ed è la mia storia, per cui non preoccupatevi se non capite la vostra, non è necessario. Tante cose le capirete più avanti, altre probabilmente non le capiremo mai.
Vorrei solo raccontarvi perché io ho scelto di mollare la presa, di lasciare andare almeno un po’ di tutto quel dolore che mi portavo dentro, perché ho scelto di guarire, perché mi sono affidata . Ho sempre pensato che il ricovero fosse solo un altro modo per sentirsi malate di anoressia e tutte noi sappiamo quanto ci piaccia o ci sia piaciuto. Però ditemi, dove sta esattamente il bello? Lo so che la malinconia attrae, vi sento quando pensate “chissà che succede se da 45 scendo a 44”, “ma già che sono a 44 scendiamo a 42 così se dovessi prendere peso non sarebbe un problema”. Vi prego, lasciatevi guidare. Io avevo una frase, dalla quale staccarmi è stato un trauma. “Se hai il controllo va tutto bene”. Vi suona familiare, lo posso immaginare.
Il “controllo”. Ci sarebbe un libro da scrivere solo su questo. Ognuna di voi mi potrebbe scrivere otto capitoli e formeremmo un’enciclopedia dell’autodistruzione. Purtroppo però il controllo è un coltello di cristallo impugnato bene e con grande abilità, ma girato dalla parte del manico. Hai il controllo su tutto, sai perfettamente quanti passi hai fatto oggi, quanti chicchi di riso hai mangiato e quale sarà la tua media scolastica a fine anno. Però senti freddo, hai gli occhi spenti, il viso scavato, non riesci a credere a tua mamma se piange per te, non riesci a capire tuo padre se ti urla in faccia che ti stai rovinando. Non sai perché ma hai allontanato la tua migliore amica e il tuo migliore amico non ti ha chiamata più. Tutti sembrano dimenticarsi di te, nessuno sembra accorgersi del problema. In realtà tutti sono preoccupati ma tu non lo vedi, hai solo paura, freddo, ansia, sonno e tanta fame. Ma hai tutto sotto controllo.
Sei sola, ti chiedi come sia potuto accadere.
Ricordo una sera, sarà stato agosto forse, una cosa come un anno e mezzo fa, ero in bagno ed ero scoppiata a piangere perché ero esausta, stanca, non ne potevo più. Mi sono guardata allo specchio e vi giuro che non dimenticherò mai quegli occhi: non erano vuoti ma pieni di dolore, avevo le labbra gonfie, le guance rigate e due occhi che avrebbero spezzato chiunque li avesse guardati a metà: e lo fecero. Davanti a uno specchio, spezzarono me. Ero distrutta, me lo ricordo benissimo. Appoggiai le mani al lavandino, mi avvicinai a quegli occhi e le parole che dissi furono quasi una supplica: “ridammi Maria”.
Arriverà quel momento anche per voi, vi auguro sia meno doloroso, ma vi devo mettere in guardia sul fatto che probabilmente non sarà così.
Quella sera è stata la sera in cui ha avuto inizio la mia lotta, quella in cui ho smesso di fregarmene del mio dolore, del mio freddo, delle mie unghie blu e della spina dorsale che si snocciolava lungo la schiena e faceva male anche contro il materasso.
Vi diranno che dovete trovare delle ragioni per vivere, per lottare, per guarire. Ma la verità è che tante sono necessarie, ma solo una è imprescindibile e indispensabile: voi stesse.
Starete bene, ve lo prometto. Starete bene quando capirete che non c’è battaglia più giusta di quella che si combatte ogni giorno per noi stesse, non contro. Diventerete le vostre migliori amiche e le vostre più potenti rivali, ma senza essere avversarie.
La vita “dopo l’anoressia” non è come ve la descrivono i medici (e mi scuso con lo staff). Non è solo gioia, amore, gelati e serate in discoteca: è molto meglio.
Vi incazzerete, e lo farete di brutto. Lotterete, sbaglierete, troverete la vostra strada e il vero amore per poi scoprire che a volte è possibile scegliere una strada alternativa e amare per la seconda volta.
Se potessi tornare indietro forse uno schiaffone me lo tirerei, ma più che altro mi stringerei forte. Perché si, magari avevo bisogno di una strigliata, perché stavo sbagliando e avrei commesso una stronzata (passatemi il termine) pazzesca, ma più di tutto avevo bisogno di stringermi forte, di avere la certezza che andavo bene, che non c'era nulla di sbagliato nell'essere me, che non dovevo diventare nessun altro. Che ce la potevo fare.
Ma indietro non ci potevo tornare, e allora sono andata avanti. Come quando apri gli occhi dopo un incubo e pensi "oddio per fortuna era solo un brutto sogno", solo che del sogno io ne portavo le tracce addosso, e mi sono ritrovata a pensare "ma che sto facendo?".
E mi ringrazio, per essermi data fiducia. Ho raccolto tutti i miei pezzi e piano piano ho iniziato a ricostruirmi.
L'ho fatto per me, perché ho promesso a me stessa che tutti i sogni che avevo accantonato li avrei ripresi e coltivati uno per uno, che non mi sarei più buttata via, che non avrei più sprecato un solo attimo della mia vita ad ascoltare i mostri che mi avevano logorata fino ad allora.
Posso solo augurarvi di amare voi stesse nel bene e nel male, non lasciatevi mai.
Mi padre qualche mese fa mi scrisse "la vinceremo noi questa guerra".
Papà, avevamo già vinto.

M. J.