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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

venerdì 28 febbraio 2020

IX Giornata del Fiocchetto Lilla | 15 marzo 2020



L’articolo che segue non vuole risultare l’ennesimo trafiletto che propone  numeri e statistiche sterili su quanto concerne l’ambito dei disturbi del comportamento alimentare. Non che questi dati non siano rilevanti ai fini di una presa di coscienza del problema che dilaga nella società contemporanea in maniera sempre più preoccupante, ma vi sono altre componenti che andrebbero sottoposte all’attenzione dei lettori. Ciononostante, per amor di chiarezza, ritengo sia opportuno fare alcune precisazioni di sorta per fugare eventuali dubbi e domande in merito al tema proposto.

Negli ultimi tempi si sente sempre più di frequente parlare di DCA, ossia i disturbi del comportamento alimentare, ma quanti sanno realmente di cosa si tratta?
I DCA sono patologie che si manifestano attraverso un’alterazione delle abitudini alimentari e da una spasmodica ossessione per il corpo e la propria immagine. I principali disturbi del comportamento alimentare sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo dell’alimentazione incontrollata, noto anche come bingeeatingdesorder.
Negli studi condotti in merito ai disordini alimentari si tiene conto non solo dei fattori genetici, biologici e psicologici ma anche della compresenza di fattori culturali e sociali, tra i quali assumono grande rilevanza i messaggi veicolati dai mass media. Tuttavia, è improprio attribuire all’idea di perfezione fisica e di magrezza, spesso legate all’idea del successo, la colpa in toto dell’insorgere di un disturbo alimentare, anche se sarebbe molto più semplice circoscrivere l’unica causa all’ambito della percezione corporea e della spasmodica ricerca della perfezione. Le cause di un DCA, infatti, sono molteplici e spesso variano da persona a persona, pertanto il modello multifattoriale appare il più adatto a fornire una spiegazione.
Parlando con persone affette da DCA, sovente, è emersa l’importanza del “non detto”, in cui, data l’incapacità di esprimere il dolore a parole, il corpo diventa veicolo di informazione per “dar voce” ad una sofferenza interiore. La mancanza di comunicazione entra a far parte del novero dei possibili fattori predisponenti. A tal proposito vorrei riportare brevemente le parole di una ragazza affetta da anoressia nervosa: “Non mi sento un numero di quelle statistiche. Non sono stati i modelli proposti dai mass media a farmi cadere nel circolo vizioso dell’anoressia. Certo non sono qui a negare che sia una delle possibili cause, ma ricondurre tutto e circoscriverlo al mero aspetto fisico lo trovo riduttivo, se non addirittura offensivo. Una soluzione facile e populista, rafforzata da preconcetti e basata su pregiudizi. Vuoi sapere la verità? Io mi piacevo prima di ammalarmi. Sono diventata uno scheletro non per ricercare la perfezione o emulare le modelle che sfilano in passerella, ma per suscitare repulsione. Volevo rabbrividire ogni qualvolta incrociassi il mio riflesso nello specchio. Incredibile, non è vero?”.
Questa confessione mi colpì. Quella ragazza non aveva mai desiderato diventare magrissima per imitare un modello, tutt’altro. Cadere nello stereotipo e finire per generalizzare è un errore, ma non per questo è ineliminabile. Bisogna, tuttavia, essere disposti ad affrontare una realtà con più di una sfaccettatura, non lasciarsi ingannare da falsi preconcetti o accettare semplicistiche soluzioni, e non arrendersi qualora le risposte non siano capaci di soddisfarci in toto.
Vorrei mostrare ai lettori cosa possa significare tenere un segreto nascosto, o avere una ferita ancora aperta sepolta nel profondo e quali contorti meccanismi si possano progressivamente innescare nell’individuo che li custodisce.Quando le parole non sono sufficienti e se ne prova timore e vergogna, molteplici ed ingegnosi sono i modi che le persone trovano per esprimersi, alcuni dei quali si rivelano potenzialmente devastati.

Pensieri ingannevoli condizionano una persona affetta da anoressia. Non è pienamente se stessa, all’interno della sua mente si innescano meccanismi perversi che la inducono a credere solamente alla “voce” della malattia, che la tiene per mano come una compagna fedele e la persuade a diffidare da tutto quello che le altre persone possano dire o fare. Nella maggior parte dei casi, un’insistenza eccessiva nell’offrire un aiuto induce chi è afflitto dalla malattia a rifugiarsi ancora di più dentro di essa, perché nel suo abbraccio si sente forte e al sicuro.
Il messaggio che vorrei trapelasse è che gli iniqui giudizi pronunciati da chi convive con tale patologia, spesso non sono altro che parole dettate da convinzioni alterate e percezioni sfalsate. Vorrei chiedere a tutti quei genitori che devono affrontare questa lotta accanto al proprio figlio di non smettere mai di sostenerlo, talvolta anche quando l’unica scelta da fare è quella di sopportare docilmente parole taglienti  e avvelenate o di farsi momentaneamente da parte. E per quanto ci si possa sentire impotenti e per quanto possa essere struggente e angosciante assistere all’autodistruzione del proprio figlio, che lenta e inesorabile lo trascina verso l’abisso, non bisogna mai smettere di lottare e perseverare, vegliando su di loro.
E tante saranno le volte che si avrà la percezione di sbagliare e che qualunque decisione  risulti inutile, ma quando la persona che soffre riuscirà finalmente a liberarsi dal demone si renderà conto di tutti sforzi fatti, delle altrui battaglie, di quanto dolore ha arrecato e sarà grata per aver avuto qualcuno al proprio fianco che non si è mai arreso. E ci vuole una forza sovrumana nel rimanere a guardare il proprio figlio, giorno dopo giorno, avvicinarsi sempre di più all’orlo dell’abisso e vederlo danzare su quel filo sottile che si interpone tra la vita e la morte con tanta disarmantefacilità. Le parole che spesso ho sentito ripetere sono state “qualunque cosa io faccia, è sempre sbagliata”, perché offrire un aiuto induce a chiudersi ancor di più in se stessi e peggiorarne le condizioni fisiche; viceversa, non fare nulla viene percepito come menefreghismo, il quale ha un  effetto altrettanto annichilente sulla psiche, in quanto induce un particolare tipo di pensiero: “tanto a nessuno importa se vivo o muoio”. Quelle madri avevano tutte l’impressione di trovarsi in un circolo vizioso dal quale era pressoché impossibile uscire. In aggiunta, ascoltando le parole di una di loro, la cui figlia, affetta da anoressia nervosa, era quasi giunta al punto di non ritorno, capii la devastante sensazione di inettitudine alla quale era costretta a sottostare: “la cosa più straziante è sentirsi del tutto impotenti di fronte al deperimento costante della persona a cui si vuole più bene al mondo. Hai la persona che ami più della tua stessa vita davanti agli occhi e non riesci a fare nulla per aiutarla”.
Le persone che vivono indirettamente queste patologie devono armarsi di una grande forza d’animo e non lasciarsi abbattere, sopportare le critiche e i commenti sprezzanti pronunciati con cattiveria da coloro che amano, ma la cui voce è stata rubata dalla malattia. Non bisogna arrendersi ma perseverate nella lotta, perché quando coloro che sono affetti da un DCA cesseranno di essere succubi del canto seducente della malattia, si renderanno conto di non essere stati lasciati soli. Ci vorrà del tempo, forse più di quanto ciascuno sarebbe disposto a sopportare, ma bisogna aver fede che arriverà quel momento.

Non bisogna giudicare senza conoscere, né emettere sentenze sulla base di stereotipi e pregiudizi o cedere all’inganno dei luoghi comuni per trovare facilmente una spiegazione. Ma soprattutto vorrei fare un appello a non arrendersi mai nel supportare coloro che si amano anche quando sembra che non vogliano il nostro aiuto. Colmate i silenzi e non rifugiatevi in un ostinato mutismo: non ho chiesto aiuto a parole, ma l’urlo di dolore espresso dal mio esile corpo mi ha quasi condotto là dove le parole non sarebbero più servite.
Lottate e non arrendetevi, e forse, un giorno o l’altro, sarete di nuovo capaci di apprezzare quel vecchio dono che vi fu dato nell’esatto istante in cui veniste al mondo: la vita. Riscopritela e riempitela di nuovo di colori, potreste anche correre il rischio di rimanere sorpresi.

Camilla Accornero


giovedì 27 febbraio 2020

Primavera a febbraio


Ci incontrammo per caso io e te, una mattina di fine inverno ormai qualche anno fa. Un lavoro, un ragazzo, una bella famiglia, qualche amico, quelli con la A maiuscola si intendono, forse solo alcuni chili di troppo. Non potevo desiderare altro insomma. Eppure.
Sei arrivata tu, un fulmine a ciel sereno. All’inizio non ti avevo mica riconosciuto, ti sei insidiata pian piano. Nei momenti di solitudine tu eri li, mi scrutavi, studiavi la mia vita. Non ti ho mai chiamato o cercato, eppure c’eri sempre, non mi lasciavi mai sola.
 
Così durante l’estate siamo diventate inseparabili. A me non importava niente del resto, tu eri diventata la mia certezza. Stavo bene. Al mattino presto, al lavoro, la sera seduta tra il letto e il termosifone della mia cameretta, persino di notte quanto per farti sentire mi tiravi le gambe. Ci facevamo un sacco di conti, tu eri la mia motivatrice e io mi credevo invincibile. Ogni giorno sentivo che potevo fare di più, come se fosse una sfida e io sapevo che ce la potevo e dovevo fare. Sempre più su, un gradino alla volta. Gli altri erano solo invidiosi, tutti a puntare il dito. Ma cosa ne volevano sapere?! Tu eri li pronta a consolarmi e a farmi forza. Il tuo abbraccio glaciale era cosi morbido e risonante. Fluttuavo leggera pensando a te, nessun dolore, nessuna preoccupazione. Eravamo diventate una cosa sola. Stavo bene.
 
Finché un giorno di dicembre un tiepido raggio di sole iniziò a sciogliere questa bolla di brina muta e io precipitavo sempre più giù, il respiro azzerato, bagnata da miliardi di piccole gocce di acqua salata. Capii che ero diventata un’ombra grigia, nessuna emozione. Tu sparisti e non ti feci più vedere per un po’. Inizialmente faticavo a capire, ma ben presto il tuo velluto gelato che mi aveva sempre coccolato lasciò spazio ad un timido tepore che iniziò a scaldarmi il cuore e mi ridonò nuovo colore. Furono giorni di
alti e bassi. In alcuni momenti mi mancavi, perché mi avevi abbandonato?! In fondo forse era giusto così.
 
Poco tempo dopo però tornasti improvvisamente, con violenza mi scaraventasti a terra. Eri cattiva, come se volessi riprenderti qualcosa che ti apparteneva. Iniziasti di nuovo a chiedere sempre di più. Mi facevi paura e mi sentivo davvero in colpa, una merda per aver fallito nell’unica cosa che mi riusciva bene. Perdere peso. Perciò decisi di impegnarmi per non perdere altro tempo. L’obbiettivo era li chiaro davanti a me, ma tu eri cambiata ed i segni della tua forza si facevano evidenti. Sulle braccia, sulle spalle, sulla pancia. Questa volta però nessuno avrebbe dovuto scoprirci e pian piano, di nuovo, il colore lascio spazio ad una patina opaca. Stavo bene. Scelsi anche una solida armatura che ci avrebbe difeso tutte e due, mentre tu di nuovo iniziasti vorace a scavare dentro di me cibandoti del nulla che il mio corpo era diventato. Ti ricordi?
 
Oggi di acqua sotto i ponti ne è passata, ho anche raggiunto qualche traguardo importante, conosciuto nuove persone, capito che forse quell’armatura serve a ben poco se hai vicino occhi buoni che ti parlano e mani che non mollano la presa. Tu ci sei, sei rimasta in un angolino polveroso del mio cuore. Qualche volta sento ancora i tuoi graffi, i tuoi pugni, incrocio il tuo sguardo tra la gente, ma non mi fai più paura. La strada è ancora lunga da percorrere e forse è giunto il momento di separarci, ma non sarò io a chiederti di andartene. Lo farai tu, quando ti sentirai pronta. Adesso devo pensare ad altro, cose più importanti attendono di essere vissute. E la primavera non è detto che debba arrivare per forza e solamente in Marzo.

domenica 23 febbraio 2020

Vivere senza istruzioni



"Non puoi avere una vita positiva con una mente negativa"

Non mi ricordo molto, ricordo solo le emozioni, principalmente la sensazione perenne di dolore, angoscia, sottomissione, rassegnazione, negazione, autocommiserazione, e potrei continuare con molto altro di peggiore. Grazie alla terapia, ho iniziato a ricordare anche certi momenti che all'epoca ho vissuto inconsapevolmente e che ora, rivivendoli essendo la me stessa che sono diventata, fanno tanto male, non lo nego, fanno male perché ora li vivo due volte, con l'inconsapevolezza dell'epoca che si somma alla consapevolezza di oggi. Ma provare ciò è anche la chiave per realizzare le varie cause scatenanti, che a differenza di come pensavo non dipendevano tutte da me.
Quando hai questo tipo di disturbo, arrivi a credere di essere tu il motivo principale che alimenta la tua rabbia. È colpa tua se non piaci, se gli altri non ti coinvolgono, è colpa tua se non ti parlano e se non sei come loro. Ti vergogni della tua individualità e tutto si trasforma in un insostenibile senso di colpa, tu per primo diventi una colpa, e l'unica cosa che ti consola è che c'è il disturbo a ripararti, a nasconderti dal mondo, è l'unico che può capirti e darti delle indicazioni. Peccato però che tu sia il solo a vederlo, lui è la tua bussola invisibile che ti guida in quel momento di insicurezza in cui sei senza certezze e con nessun punto di riferimento, lui è l'unico che può darti delle regole da seguire e rappresentare quello che ti manca, la perfezione che vorresti tanto essere ma che non sei mai riuscito a riconoscerti. Perché è colpa tua se non sei perfetto, eppure gli altri ci riescono, perché tu no? È più facile vivere seguendo delle istruzioni, pesa quello, non mangiare quello, non parlare, non ridere, evita quell'altro. Così facendo, è anche molto facile non vivere affatto.
Non ricordo molto di ciò che stavo vivendo per il semplice fatto che non ero io a vivere in quel momento, ero rinchiusa in un angolo della mia mente e tutto quello che potevo sentire erano i miei pensieri, che se solo fossero usciti ecco lì sarei rimasta davvero sola, quindi non potevo e non volevo lasciarli andare, mi faceva paura sapere che avrei dovuto affrontare me stessa. Una cosa che invece ricordo molto bene è la rabbia. C'era molta rabbia dentro me, una rabbia che si divincolava e che cercava di farsi vedere attraverso il mio corpo, che si sfogava sul mio corpo, sul cibo, sulla mia famiglia, sugli amici, sulle persone che mi dicevano di mangiare per risolvere il problema ma che banalmente non mi chiedevano il perché io non volessi farlo. Una rabbia che avrei dovuto percepire anche solo sentendo la mia pelle che tirava da tanto ne ero colma. Una rabbia che voleva distruggere tutto ciò che amavo, fino a farmi dubitare della reale esistenza dell'amore e della presenza di me stessa. Sempre più spesso durante la terapia M. mi fa notare "sento molta rabbia nelle tue parole", probabilmente tutta quella che ho accumulato in otto anni abbondanti e che pian piano sta trovando una via d'uscita, come io forse sto trovando la mia strada. È difficile parlare di nostalgia di qualcosa che obiettivamente ti avrebbe portato alla morte, ma a volte quando mi sento sola mi manca sentire quella sensazione di protezione e sicurezza che il disturbo mi dava, con la grande differenza che ora mi riconosco la facoltà di decidere da sola, di giocare secondo le mie regole e, perché no, anche di vivere senza istruzioni, perché se c'è una cosa che l'anoressia mi ha insegnato è che non esiste bilancia al mondo che possa calcolare il peso della felicità e dell'amore per se stessi e per gli altri, e che se le parole hanno un peso, sono quelle stesse parole che possono farti sentire leggero come se non ci fosse più ieri né domani ma solo adesso. Ma soprattutto, mi ha fatto capire che tutta la sicurezza e la protezione di cui ho bisogno la trova nelle persone che mi voglio bene, prima tra tutti proprio me stessa.

Elisa


sabato 22 febbraio 2020

Le nostre curve


Le nostre forme, la nostra fisicità, il nostro corpo possono davvero decretare chi siamo e quanto valiamo?

Io dico di no.

“Sei grassa, dovresti fare una dieta”; “Sei magra, le ossa le lasciano ai cani, sai?”; “Ma non ci vai in palestra?”; “Oddio, mangi seriamente quella roba? Non hai letto che è piena di grassi?”; “Non ti manca niente, non hai motivo di essere triste”; “Sei solo in cerca di attenzioni, smettila”.

Giudizi, ignoranza e luoghi comuni.

Ecco cosa rappresentano per me queste frasi. Eppure tutti, almeno una volta nella vita le abbiamo sentite rivolgere a noi stessi da un amico, un familiare ma anche conoscenti che nemmeno sanno bene la nostra storia.

Non so descrivere il dolore di quella parte della mia vita, di quegli anni tenuti nascosti senza motivo, probabilmente per vergogna, in cui il mio secondo nome era “balena” o “balenottera”.

Ho sempre parlato degli anni in cui il sottopeso dava un’immagine più forte, ma adesso è il momento di dare importanza anche all’altra faccia della medaglia.

Quella in cui i pacchi di biscotti e cereali erano la miglior consolazione (NON SANA!) agli insulti della gente, al brutto voto, all’ansia e al fidanzatino che ti lascia.

Ricordo ancora quando quella sera andai al Sys, avevo appena 14 anni, quelle feste per liceali in cui neanche vendevano alcol.

Mentre provavo ad uscire spingendo tra la calca un ragazzo mi urlò “E levati dal cazzo, balena!”.

Ci stetti male per settimane e oggi anche solo ripensarci mi crea un certo disagio.

Chi siamo noi per giudicare? Cosa ne sapeva dei motivi per cui avevo quei chili in più? Ma soprattutto, che cazzo gli passava per l’anticamera del cervello se non palle di fieno che rotolavano, perché cazzo, la sua testa era completamente vuota.

Non è stato l’unico episodio, mi è stato detto anche molte volte “Hai un viso così bello, peccato per il fisico...”.

Posso confermare che questi siano stati anni in cui le modelle “curvy” hanno preso spazio in più ambiti. Ma anche che i disturbi alimentari si allargano sempre di più, così come altre malattie mentali non meno pericolose.

Il caso di Lorenzo, il ragazzo di vent’anni morto per anoressia, non era un episodio isolato.

Può capitare a chiunque, anche a chi sta accanto a voi ogni giorno.

L’importante è rendersi conto del problema ed accettare l’aiuto di medici e specialisti così come la vicinanza di amici e familiari.

Non preoccupatevi per le curve del vostro culo.

Quello che conta è la curva del vostro sorriso.

Gaia


sabato 1 febbraio 2020

I residui della malattia



Il giorno dei miei 17 anni mi hanno obbligata ad affrontarti e il giorno della mia festa ho iniziato a farlo, affrontarti perché ho iniziato, sotto costrizione, a convincermi che dovevo fare qualcosa per debellarti.
Oggi a 20 sono qui a pensarti e non ho passato un giorno senza farlo,perche tu non sei più nelle mie gambe, nella mia pancia o nelle mie braccia, ma i tuoi residui sono costanti nella mia mente e tu sei ancora viva nel mio cuore. Non perché tenga a te come una persona cara, ma perché io sono stata te per alcuni anni, tu sei stata la mia identità, la mia migliore amica e, per quanto nociva possa essere stata la cosa, non potrò mai dimenticarti.
Ti penso perché vorrei sentirmi spesso forte come mi sentivo quando c'eri tu, perché quando l'insicurezza mi mangia vorrei tornassi a darmi la potenza che mi davi, perché quando mi sento solo fallire vorrei ci fossi tu a farmi sentire vittoriosa almeno in un campo, e perché quando qualcosa vibra nel mio stomaco, che sia paura, che sia fame, che sia gioia, io mi sento fragile e bisognosa, mentre tu sapevi annullare ogni sensazione.
So che tutto ciò é sbagliato, ma so anche che conoscere e sentire se stessi é molto più difficile di annientarsi.
Spero con tutta me stessa che un giorno andrai via anche dalla mia mente, che quella piccola me nella foto non sarà più un rimpianto ma solo un dolore superato, ma dal mio cuore non uscirai mai.

G.