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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

giovedì 29 luglio 2021

Per 'donare' occorre prima perdonarsi - Laboratorio del 27 Luglio.

Cosa accade quando una figlia che soffre di una malattia del comportamento alimentare rientra a casa dopo una vacanza trascorsa con gli amici e il fidanzato? Può succedere che ritorni entusiasta, felice e spensierata per le esperienze vissute, ma purtroppo accade di frequente che ritorni più impaurita, più insicura, con il bisogno impellente di riprendere in mano il controllo apparentemente perso. 

I genitori in questa situazione si rivedono piombare davanti agli occhi il sintomo nella sua modalità piu’ visibile, suscitando spesso la paura e la rabbia per essere costretti a convivere con quelle immagini che vorrebbero cancellare dalla propria vita. Purtroppo quando c’è una sintomatologia quale la malattia del comportamento alimentare, è inevitabile il dover convivere con essa. Questo non significa una convivenza a vita, poiché da queste malattie, ci teniamo a sottolinearlo, si guarisce. Spesso i genitori nutrono aspettative di guarigione a breve termine, ed è importante chiarire fin da subito che il percorso di cura richiede un tempo molto lungo. Un percorso che coinvolge non solo la persona sofferente, ma l’intera famiglia, poiché è impossibile non rimanere influenzati dalle dinamiche che la malattia mette in
atto. Ritornando all’episodio del rientro a casa dei figli dopo una vacanza trascorsa con gli amici, la famiglia si trova ad affrontare frequentemente situazioni difficili da gestire. Il controllo eccessivo verso il cibo, la rabbia, l’aggressività, l’ autolesionismo, l’ iperattività’. I genitori sono impreparati a tali manifestazioni: “ Ma come? Sei andata in vacanza, ti sei divertita, tanto da non avermi nemmeno chiamata, e ora torni, nervosa, aggressiva, e mi tratti come se fossi uno zerbino?” Il sentirsi trattata come uno zerbino è il sentimento che una mamma ha provato in maniera molto intensa in questi giorni. Il risentimento, il dispiacere, la frustrazione nel rendersi conto che la figlia si rivolge a lei solo quando ne ha strettamente bisogno, tanto è vero che in vacanza non si era nemmeno degnata di farle una telefonata per dirle come stava. Questo atteggiamento ovviamente l’ha ferita molto perché ha sentito di non avere alcuno spazio nella vita della figlia. In realtà non è che una percezione personale perché ciò che i figli provano veramente non lo possiamo mai conoscere fino in fondo. Ma una cosa è certa: ogni figlio ama il proprio genitore, anche se la malattia si diverte a nasconderlo riflettendone una manifestazione distorta. 

Una ragazza ha raccontato quanto sia stato sempre difficile per lei dimostrare il suo amore verso i genitori. Ricorda ancora le tante sedute di terapia dedicate al suo essere bloccata nell’esprimere i suoi sentimenti di affetto, cosa che invece non accadeva nelle manifestazioni di rabbia. L’aggressività, infatti, è un canale attraverso cui si comunica tutto ciò che è congelato dentro di se’ e che nasconde una disperata richiesta di aiuto. E sulla richiesta di aiuto c’è un passaggio importante da focalizzare. Accade frequentemente che i figli chiedano la collaborazione dei genitori per compiere anche semplici commissioni come ad esempio la compilazione di pratiche burocratiche riguardanti il lavoro o la scuola. Laddove poi il figlio appare quasi menefreghista e rinunciatario, viene d’istinto rispondergli “ Se chiedi aiuto e poi non lo accetti allora arrangiati”. Qui c’è il passaggio importante da non trascurare. Un passaggio che sembra banale ma che così banale non è. Rispondere “arrangiati” ad una richiesta di aiuto non accolta, vuol dire bloccare sul nascere ogni tipo di comunicazione e rapporto. Non dimentichiamo che la malattia del comportamento alimentare cancella la capacità di relazionarsi con gli altri. È come un computer cui vengono cancellati tutti i programmi e quindi necessita andarli a resettare. Tu puoi pigiare il tasto quanto vuoi, ma se manca la riprogrammazione, l’avvio non avviene. Ed è inutile che ti arrabbi. Lo stesso avviene con la malattia del comportamento alimentare. Si è “cancellata” la capacità di comunicare e bisogna andare a re-impostare, re-imparare tale modalità. Riferendoci alla situazione precedente, anziché rispondere “arrangiati”, si può domandare che cosa è che vieta di affrontare quella situazione; di cosa si ha paura. È facile che il genitore non riceverà in cambio alcuna risposta; anzi, addirittura potrebbe sentirsi dire di non impicciarsi. E qui sta il passaggio importante. Nel momento in cui si chiede aiuto, occorre essere consapevoli che bisogna accettare anche la relazione con l’altro. L’interessamento del genitore non è invadenza, non è impicciarsi ma è rispondere in maniera coerente alla richiesta di aiuto ricevuta. Mettere in evidenza questo concetto permette ai figli di elaborare la loro modalità dì risposta e soprattutto, a riflettere sulla presenza e sulla partecipazione dell’altro. Significa resettare quel programma cancellato, in modo tale che possa riavviarsi ogni qualvolta lo si vada a richiamare. 

È importante che il genitore si protegga da queste dinamiche della malattia. E come fare? Occorre divenire consapevoli di ciò che crea sofferenza, rabbia, frustrazione. E come di fa? Parlandone. Il laboratorio serve a questo: permettere ai genitori di esprimere all’esterno ciò che crea disagio e sofferenza. Sappiamo bene quanto sia indispensabile dare voce al proprio mondo interiore. Tutto ciò che è reso silente, si ingigantisce perché non riesce a trovare una spiegazione. Il poterne parlare aiuta a rendere visibile e ridimensionare ciò che preoccupa e allo stesso tempo permette di acquisire strumenti per poter fronteggiare in maniera diversa ciò che accade. Risulta utile ritagliarsi un proprio spazio in cui rifugiarsi ogni qual volta se ne senta il bisogno. Può essere leggere un libro, fare una passeggiata, dedicarsi a qualcosa che fa piacere, ma anche semplicemente alzare lo sguardo e osservare il cielo, perdendosi in esso.

Un altro concetto importante su cui riflettere riguarda il perdono. A volte chi ha una malattia del comportamento alimentare non riesce a perdonare i propri genitori per delle mancanze cui sentono e credono di aver sofferto. E questo li porta a inscenare una costante guerra che si consuma nell’ambiente familiare. Ovviamente queste tematiche devono essere analizzate in un percorso terapeutico, ma anche il genitore può fare qualcosa. Come? Partendo da se stesso. Cominciando a perdonarsi per tutte quelle colpe che ingiustamente si attribuisce nei confronti dei figli. Pensiamo all’etimologia della parola perdonare. Deriva da “per - donare”. Quindi implica un dono. Un dono che è racchiuso dentro a ognuno di noi e che richiede di essere liberato dalle grinfie della rabbia. Un genitore che si perdona insegna a sua volta ai figli come si fa a perdonarsi. E quando un figlio si perdona, gli si apre innanzi la strada verso la ricerca di se stesso, verso il desiderio di essere aiutato a riprendersi quella vita tenuta in ostaggio dalla malattia. 


Frase della settimana : PER “DONARE” OCCORRE PRIMA PERDONARSI

giovedì 15 luglio 2021

Esplorare le emozioni - Laboratorio del 13 Luglio.

Il laboratorio di stasera si è tinto di sfumature che sono diventate attimo dopo attimo sempre più intense. Accade ogni volta che si parla di emozioni, ed è inevitabile poiché la malattia del comportamento alimentare è di fatto la chiara espressione dell’incapacità di gestire ciò che si prova a livello di sensazioni e percezioni corporee. Tutto ciò che non viene espresso emotivamente si esprime poi attraverso il cibo: l’abbuffata o la restrizione diventano lo specchio dell’ emozione desiderata o dell’emozione rifiutata.


Una coppia di genitori ha raccontato quanto la figlia abbia provato più volte a farli sentire in colpa attraverso i soliti messaggi telefonici di accusa per il loro essere andati in vacanza. Oramai consapevoli del meccanismo manipolatorio della malattia, hanno tentato di non farsene condizionare, ma l’emozione fastidiosa comunque c’è stata e hanno cercato di gestirla elaborandola a livello razionale “ ma si dai, intanto non serve a nulla prendersela...fa sempre così appena ci allontaniamo da casa”. Spesso chi soffre della malattia del comportamento alimentare è molto centrato su se stesso, non riesce a percepire la sofferenza dell’altro perché è troppo il disagio che avverte e ha bisogno di sapere che le persone intorno a lui o lei sono preoccupati. Come se l’apprensione dell’altro desse a loro il valore di esistere e di non sentirsi così alienati da se stessi. Ogni volta che l’attenzione viene negata, è facile che emerga una rabbia molto intensa. Come se il figlio o la figlia volesse che i genitori entrassero insieme a lei in quella stessa gabbia costruita appositamente dalla patologia. Il rifiuto di farlo li destabilizza, il genitore ovviamente fa bene ad opporsi, solo che spesso accade che egli stesso vada a costruire parallelamente un’altra gabbia che lo incastra in pensieri focalizzati costantemente sulla malattia e sul cosa fare per aiutare i propri figli. 

Non mi stancherò mai di ripetere che il genitore non può trasformarsi in un terapeuta. È impensabile che un padre o una madre possano curare la malattia del comportamento alimentare di cui soffre il figlio o la figlia. E allora la famiglia deve rassegnarsi? Assolutamente no. Questo è un tema che sta tornando spesso nei laboratori perché è l’aspetto che più preoccupa i genitori di figli maggiorenni che rifiutano il percorso terapeutico. E allora che cosa si può fare? E qui parliamo delle emozioni. Molto significativa è stata la condivisione di una mamma che ha saputo descrivere il suo ritrovato dialogo con la figlia nel momento in cui ha permesso alle sue emozioni di potersi esprimere. Il suo racconto è stato ed è un esempio importante e prezioso per molti genitori. Spesso ci troviamo a soffocare quello che proviamo perché si tende a voler proteggere i figli, credendo che così facendo li si preservi dal provare ulteriori sofferenze. Non accorgendosi però che questo comportamento può al contrario esporli maggiormente a provare eventuali disagi. I figli apprendono il modello che vedono applicato dai loro genitori. Davanti a un padre o una madre che nascondono le proprie emozioni per timore di far preoccupare i figli, si ignora che in quel momento si sta inviando il messaggio che le emozioni non vanno espresse. Questa mamma lo ha fatto per tanto tempo perché a sua volta le era stato insegnato che non bisognava mai farsi vedere deboli, insicuri, bisognosi di aiuto. Finché un giorno la figlia le ha esternato attraverso sia la malattia del comportamento alimentare sia a parole chiare il suo malessere nella mancata condivisone delle sensazioni, sentimenti, percezioni familiari. Infatti, si erano ritrovate entrambe ad interpretare la realtà circostante attraverso un continuo non detto, che ha creato tante ombre, la più grande di tutte quella rappresentata dalla malattia del comportamento alimentare. Questo le ha portate ad iniziare un percorso terapeutico, diverso sotto certi aspetti, ma simile nell’imparare a dare nome ed espressione alle proprie emozioni. 

Il cibo sappiamo che non è il problema. Non aiuta mai chiedere “ Hai mangiato? Hai seguito a dovere lo schema alimentare?” Queste sono domande che paralizzano, creano paura in chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Diverso invece è domandare “Come ti senti? Cosa provi? Come reagisci quando percepisci che qualcosa non va? Che cosa fai per gestire ciò che senti?”
Queste domande aiutano a esplorare il mondo delle emozioni. Aiutano a far chiarezza in quello che accade dentro di se’: cosa spaventa, cosa fa gioire, cosa piace, cosa infastidisce... ogni emozione va esperita. Non ci sono emozioni completamente positive o completamente negative. Hanno tutte una loro finalità. Un genitore che non ha vissuto la condizione migliore per esprimere le sue esperienze emotive prova un grande senso di colpa per non essere stato un modello corretto per i propri figli. Ma questo non ha ragione di esistere. Le emozioni non possono essere insegnate perché vengono apprese solo attraverso il viverle direttamente. È importante divenire consapevoli di questi processi per poter iniziare un lungo e bellissimo viaggio dentro al mondo delle emozioni e dei sentimenti. Come ho scritto precedentemente, l’emozione inespressa si manifesta poi attraverso il corpo che è il mezzo attraverso cui ognuno di noi entra in contatto con il mondo circostante. Osservare l’emozione, guardare come la mente cerca di elaborarla immediatamente a livello razionale, come se ne volesse prendere subito le distanze, sentire in quale punto del corpo viene percepita, con quale intensità, darle il tempo perché riveli il messaggio che porta con se’. Spesso il messaggio arriva attraverso delle immagini, che sono un simbolo su cui porre la propria attenzione poiché in esse vi è racchiuso il senso dell’emozione vissuta. Nel momento che ne diveniamo consapevoli, accade ogni volta di piangere. Questo pianto liberatorio rappresenta l’emozione che finalmente si è sbloccata, accompagnata da una sensazione di apertura nella
zona del torace..e piano piano riaffiora tutto il nostro respiro. Pensate quanto possa essere trasformativo fare una simile esperienza con i propri figli. Riscoprire insieme le emozioni assopite, nascoste, negate, recluse. 

La malattia del comportamento alimentare si manifesta in un’ età evolutiva precisa che determina l’arresto della crescita. Può risalire a quando si era bambini, adolescenti o addirittura neonati. Il viaggio delle emozioni permette sia ai genitori che ai figli di ritornare a quel periodo “ simbiotico” in cui madre e padre fungono da contenitore emotivo per permettere ai figli di apprendere il mondo meraviglioso delle emozioni e infondere quel senso di protezione e sicurezza che sono fondamentali per la propria crescita.

 A questo punto voglio riportare un testo della scrittrice Elena Bernabe’ ( che ho riadattato su questa tematica) che riassume molto bene il ruolo e il significato prezioso del nostro sentire. 

“ Mamma, Papà, mi sento sola....” “ Perché stai rifiutando la presenza. Quando invece è dentro di te tutta l’attenzione che ti può nutrire. Non stai facendo compagnia alle parti di te più profonde e chiedi al mondo che qualcuno lo faccia al posto tuo.” “ Non posso vivere con questa emozione.” “ Le emozioni non sono da eliminare ma da trasformarne l’essenza: da servitrici della tua interiorità a corona della tua regalità...da catene che imprigionano ad ali per spiccare il volo...da regole implicite da seguire a intuizioni da mescolare. Una persona non può curare la tua solitudine: solo tu puoi farlo.” “ E come si fa?” “ Accogliendola nella tua vita. Come il più importante degli strumenti di osservazione interiore. Il sentirsi soli, l’angoscia del vuoto ...sono il microscopio dell’anima: ti permettono di vedere ciò che nel trambusto giornaliero della vita passa inosservato.” “ Se mi guardo dentro mi sentirò meno sola?” “ Bambina mia, quel sentirti sola, quel vuoto ti faranno conoscere così tante parti di te che ti sorprenderai. Queste parti le ritroverai nel mondo. Pronte a venire a te per arricchirti. Ricordati: l’amore non è un vuoto da riempire, ma un’assenza da ricamare con l’ attenzione.”


Frase della settimana: ESPLORARE LE EMOZIONI

martedì 6 luglio 2021

Laboratorio del 29 Giugno ACCOGLIERE , ADDENTRARSI , CONDIVIDERE ...PER METTERSI IN GIOCO E ANDARE AL DI LA' DEL PROPRIO VEDERE .

 Stasera il laboratorio ha toccato tanti punti che poi si sono intrecciati tra le varie storie dando 

forma e contenuto a una serata molto ricca e preziosa vista da diverse prospettive. Siamo in 

estate, e sappiamo che questa è una stagione molto complessa per chi soffre di una malattia del 

comportamento alimentare. Una ragazza ha condiviso i suoi ricordi legati alle tante estati vissute 

in presenza con la malattia. La spiaggia, il mare, che per lei erano sempre stati sinonimo di libertà 

e spensieratezza, d’un tratto si erano trasformati nel luogo più inavvicinabile. La sensazione di 

paura mista a vergogna nell’esibire un corpo che sentiva estraneo e non amato. Il confronto con le 

altre ragazze. La gioia e le risate di coloro che si divertivano mentre lei provava l’irrefrenabile 

desiderio di sparire, essere invisibile da tutto e da tutti. Sono passati tanti anni dalla sua 

guarigione dalla malattia, eppure ancora è ben impresso in lei il ricordo di quella volta in cui, 

arrivata in spiaggia e pronta a starsene per ore sdraiata al sole, all’improvviso ha provato un forte 

senso di solitudine con una sensazione di vuoto alienante che le era impossibile da gestire. Così 

si rivesti’ in fretta e furia per scappare a casa e riempire quel vuoto nell’unico modo a lei 

conosciuto in quel momento, con la malattia. Quell’episodio ha dato l’inizio ad una serie di clic, 

perché se fino a quel momento lei credeva che bastasse allontanarsi dalle mura domestiche per 

saper controllare le dinamiche della malattia, si era resa conto che non era così. Questo fatto la 

spavento’ molto perché improvvisamente aveva realizzato di essere caduta in un qualcosa che 

era molto più grande di lei e difficile da contenere. Oggi, a distanza di molti anni, ogni volta che le 

giornate cominciano ad allungarsi, sorge in lei una sottile rimembranza di quel senso di 

annichilimento provato quella volta in spiaggia. Come una sorta di memoria impressa dentro di lei. 

Un qualcosa che non ha una valenza prettamente negativa ma anzi, le ricorda quanto l’aver 

imparato a stare in quel vuoto l’abbia resa oggi capace di accogliere le sue emozioni, belle o 

brutte che siano. 

 Una mamma ha riportato che sua figlia non vuole andare al mare perché odia mostrarsi in 

costume e nemmeno in montagna perché ha paura di incontrare altre persone. Come se volesse 

proteggersi dal contatto con l’esterno. E allora forse è giusto stare a casa? Ovviamente non 

possono esserci risposte dirette poiché ogni situazione va sempre valutata rispetto al contesto in 

cui si manifesta. È chiaro che le paure di questa ragazza non possono essere ignorate, ma è 

anche vero che la famiglia non può restare barricata in casa rinunciando alla vacanza. Se il mare 

rappresenta forse il luogo più difficile da gestire dato il coinvolgimento con il rapporto col proprio 

corpo, alcuni giorni in montagna possono essere una soluzione ideale. Soluzione che deve però 

essere presa insieme alla propria figlia, per renderla partecipe e soprattutto per darle la possibilità 

di esprimere le sue emozioni e desideri.

 Un’altra mamma ha raccontato della sua recente vacanza organizzata insieme al marito. Come 

era prevedibile la figlia maggiorenne, che era rimasta a casa, ad un certo punto ha telefonato ai 

genitori e ha cercato di farli sentire in colpa, riuscendoci solo in parte, poiché entrambi, marito e 

moglie, hanno saputo allearsi e sostenersi a vicenda dall’attacco ricevuto.

 Un’altra mamma ha voluto esporre una problematica che dovrà affrontare a settembre 

riguardante il percorso di cura della figlia che sta avvenendo in un centro ambulatoriale della sua 

regione. I dottori l’hanno già avvisata che, siccome il percorso terapeutico sta avendo progressi 

positivi, a fine estate la figlia non verrà più seguita così da lasciare il posto a coloro che sono in 

lista di attesa. Questo ovviamente ha gettato nell’ansia e preoccupazione questa mamma perché, 

anche se la cura sta effettivamente dando buoni risultati, non può essere interrotta 

improvvisamente, soprattutto quando parliamo di una malattia del comportamento alimentare, 

poiché sappiamo quanto queste fasi siano delicate e importanti nel processo di guarigione. 

 Un’altra mamma è intervenuta dicendo che in un qualche modo sta vivendo una situazione simile 

anche se a ruoli invertiti. Ovvero, i terapeuti sono disposti a continuare la cura con la figlia 

maggiorenne, la quale, dopo un periodo di ricovero in struttura, ha paura a proseguire la terapia. 

La madre ha cercato di spronarla, per stimolarla a non rinunciare. Di rimando però si è sentita 

rispondere dalla psicoterapeuta di lasciare che sia la figlia a prendere la decisione. Questo ha 

creato ansia e confusione in questa mamma perché sa benissimo che se non interviene lei, la 

figlia abbandonerà qualsiasi iniziativa. 

Questa tematica ha aperto un confronto importante tra i genitori del laboratorio: “ quanto i familiari 

devono restare ai margini della cura dei figli che soffrono di una malattia del comportamento 

alimentare ”? È un argomento complesso e per certi versi difficile da definire. Oggi sappiamo che i 

genitori sono una risorsa all’interno del processo di cura. È impensabile infatti avviare un percorso 

terapeutico di una malattia del comportamento alimentare senza coinvolgere anche la famiglia. 

 Una mamma ha raccontato che nel centro che sta seguendo sua figlia, i genitori non possono 

ricevere alcuna informazione sull’andamento della cura. È chiaro che lo psicoterapeuta non può 

assolutamente riferire i contenuti che avvengono all’interno del setting terapeuti.

Questo è infatti un luogo protetto in cui la persona deve sentirsi libera di riportare tutto ciò che emerge in 

lei, sicura che niente verrà trapelato al di fuori di quel contesto. Se questo dovesse avvenire, ne 

pregiudicherebbe la continuità della terapia stessa rompendo definitivamente l’alleanza costruita 

tra lo psicoterapeuta e il paziente. 

 Però è anche vero che un genitore non può essere tenuto all’oscuro sulla malattia del 

comportamento alimentare del proprio figlio o figlia. Come non può non essere sostenuto dalle 

inevitabili emozioni di ansia, paura e preoccupazione che sorgono. Laddove poi si vengono a 

manifestare dinamiche che richiedono una rielaborazione, diviene importante iniziare una terapia 

familiare che permetta di coinvolgere e far interagire tra loro figli e genitori attraverso la presenza e 

la guida del terapeuta. È evidente che tale modalità richiede risorse sia a livello di personale che a 

livello economico che scarseggiano all’interno del sistema sanitario nazionale. E quindi è facile 

che ci si focalizzi prevalentemente solo sulla presa in carico della persona che riporta il sintomo, 

lasciando la famiglia spesso abbandonata a se stessa. Non perché non si voglia coinvolgere i 

genitori nel percorso terapeutico, ma perché mancano le risorse necessarie. Tutto ciò ricade 

negativamente sugli esiti della cura stessa. Il discorso poi si complica ulteriormente quando i figli 

sono maggiorenni perché allora la famiglia difficilmente viene interpellata. Ma se ci riflettiamo, è 

impensabile credere di poter affrontare una malattia del comportamento alimentare senza 

conoscere la storia e le dinamiche familiari. Anche se queste possono essere raccontate dalla 

persona presa in carico, la terapia ha comunque il compito di andare a sciogliere i vari nodi che si 

sono creati all’interno di quel sistema familiare e per farlo, occorre andare a tirare entrambi i lembi, 

e non solo uno, altrimenti il nodo rimane ingarbugliato.

 Un papà ha riportato la sua difficoltà a trovare l’appoggio del medico di famiglia nel trovare una 

soluzione alla bulimia della figlia. Nonostante si conoscano i danni organici che una tale malattia 

comporta, il medico gli ha risposto che se la figlia non vuole intraprendere alcun percorso 

terapeutico, lui non può fare nulla. E purtroppo sappiamo che è così. Non si può costringere una 

persona alla cura se questa la rifiuta. Ma sappiamo anche che spesso chi soffre di una malattia 

del comportamento alimentare non è consapevole di essere malato. E allora cosa bisogna fare? 

Come abbiamo già accennato in altri laboratori, occorre andare a creare percorsi alternativi che 

passano attraverso le emozioni. Può essere utile cercare di coinvolgere i figli o le figlie in situazioni 

che li fanno stare bene; ad esempio, lo stare a contatto con la natura, leggere, fotografare, stare 

con gli animali...Questo fa sì che le emozioni positive possano emergere e far percepire loro una 

sensazione di benessere che può spronarli a cercare di vivere quella sensazione piacevole anche 

in altre circostanze. Va sottolineato che questo non vuol dire che il genitore debba diventare il 

terapeuta dei propri figli. Vuol dire al contrario andare a porre cura e attenzione al dialogo e alla 

comunicazione. Nutrire il desiderio di conoscere meglio i propri figli. Aiutarli a esprimere ciò che 

sentono, desiderano, a cui aspirano. Ci rendiamo conto però che se un genitore è carico già di 

suo di quello che la malattia gli getta addosso, difficilmente vorrà approfondire la comunicazione, 

il dialogo, lo stare vicino. Perché ogni cosa viene intrisa dal peso della malattia. Ecco allora che si 

può incominciare da se stessi. Come? Ad esempio attraverso il laboratorio. Questo significa 

mettersi in gioco, e non è così scontato che un genitore lo faccia. Significa voler andare al di là del 

proprio vedere. Significa addentrarsi nel significato di ciò che accade. Significa accogliere il 

proprio mondo interiore. Significa condividere la propria sofferenza.... 

La frase della settimana : ACCOGLIERE , ADDENTRARSI , CONDIVIDERE ...PER METTERSI IN 

GIOCO E ANDARE AL DI LA’ DEL PROPRIO VEDERE .