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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

domenica 25 ottobre 2020

E vivo...

Se la pioggia mi abbandona
Lascio che sia
un po' del mio pianto
A cullarmi la notte
Le sento le onde del mare
Che navigano sulle guance
le mie ciglia alla deriva
Le mie labbra
cercatori di amori liquidi
Se le lacrime scavassero il volto
Forse sarei più bella
Se la pioggia scavasse il corpo
Forse sarei più magra
È la luce che riflette nei miei occhi
che fa sembrare il mio dolore
Una lucciola nel buio
Sono una falena
Il mio lampione
Si chiama malinconia

---

È la malinconia
La tenera carezza
Che Mi sfiora il volto
E mi dice che non so più amare
È tra gli anelli della mia colonna vertebrale
Che si incastrano le mie paure
Se fossi foco arderei il modo
Se fossi amata non mi torturerei

---

Oh, se solo la malinconia che ho nel petto potesse tramontare ogni giorno così come tramonta il sole
ad ogni alba
forse
potrei riscoprirmi felice
e rinascere tra i monti e i cieli che ho sognato tanto
Ad agio
per ora
mi culla la notte
poggio il capo sul cuscino
ascolto il mio cuore battere
e mi sembra di poter esistere
Essenziale
mi accarezza il mio respiro
e vivo

---

Mi spogliai della pelle
per sfiorare con le dita la mia carne
Si deve scavare in profondità per trovare la radice del dolore
Per una carezza c'è bisogno di potersi sfiorare
ma il mio male non lo afferri
è leggero
è così leggero
ma nessun vento fa sì che voli via
Lo tengo con me
lo tengo stretto
soltanto per un altro po'.

A.

 

 

sabato 24 ottobre 2020

Ritrovare il "gusto" della vita - Laboratorio 21 ottobre 2020

 

Nel laboratorio di stasera si è cercato di approfondire la tematica su quanto un disturbo
alimentare incida nella vita di una famiglia che ne viene colpita. Ad un tratto ogni cosa cambia, la
quotidianità viene stravolta travolgendo l’intero nucleo familiare. Non si riconoscono più ruoli,
orari, non c’è più condivisione, dialogo, sorrisi. Tutto ruota intorno alle dinamiche manipolatrici del
disturbo alimentare. Spesso la famiglia non viene coinvolta in un percorso di cura ma viene
lasciata ai margini creando in lei ancora di più la sensazione di isolamento e incomprensione.
Questo ovviamente non aiuta poiché è fondamentale che ci sia un sostegno anche per coloro che
convivono con una persona che soffre di queste malattie. Come si è voluto evidenziare, occorre
partire dal comprendere il linguaggio del disturbo alimentare in quanto serve ad alleggerire il
grande carico emotivo e fisico che i genitori si trovano a sopportare. Il disturbo alimentare opera
in maniera subdola, si infiltra tra le pieghe di quella che una volta era la “normalità” e, senza
rendersene conto, impone le sue nuove regole. Molti genitori stasera hanno posto tante domande
inerenti a problematiche di non facile gestione e comprensione. È emerso che la prima difficoltà
che si incontra riguarda a come ci si debba comportare nelle varie situazioni che si vengono a
creare, soprattutto quelle che hanno a che fare con l’orario dei pasti. È giusto lasciare che la
propria figlia mangi da sola, isolandosi e non permettendo a nessuno di entrare in cucina per due
ore fino a quando il rituale del pranzo/cena non sia finito? Questa è una dinamica tipica del
disturbo alimentare che spesso si accetta per quieto vivere poiché contrastare tale decisione
sarebbe fonte di un conflitto continuo, però, come da testimonianza di un papà, non porta altro
che a potenziare ancora di più la forza rituale del disturbo alimentare. Che cosa si può fare? Agire
a piccoli passi ( come più volte menzionato durante i laboratori). Incominciare a riprendere il
proprio ruolo di padre e madre ( abbiamo ricordato ancora l’importanza di non trasformare se
stessi in terapeuti e la propria casa in una struttura residenziale). Questo significa iniziare a dettare
delle regole, che vadano a smuovere un poco quella zona confortevole in cui il disturbo alimentare
crea la ritualità e che risulta poi difficile da smantellare. Come ha evidenziato una mamma, non è
giusto che la famiglia venga privata del proprio spazio. D’altra parte, è necessario anche che ci sia
l’esempio pratico che mostra che non si è disposti a sottostare a certe imposizioni, questo aiuta a
far capire all’altro che si può tener testa alla malattia, rivelando che non è poi così forte e
invincibile come ama mostrarsi agli occhi di chi ne cade sotto il suo potere ammaliante e
incantatore.
A questo punto del laboratorio si è sottolineato l’importanza che non possono esserci risposte
univoche per ogni cosa poiché tutto dipende dalla situazione e dalla storia personale di ognuno. A
prova di questo, una mamma ha posto un suo dubbio riguardo al fatto che la propria figlia aveva
in un certo senso imposto un orario di cena e lei, per non andare a creare ulteriore ansia, aveva
accettato di adeguarsi a questo nuovo orario. Quindi aveva acconsentito alla malattia di porre la
sua regola? Anche qui occorre osservare la situazione. Quanto incide questo cambiamento sulla
famiglia? O meglio, questo orario comporta un sacrificio, stress, difficoltà organizzativa per gli altri
membri del nucleo familiare? Se la risposta è si, serve trovare un’alternativa affinché ci sia il minor
disagio possibile da tutte le parti, se al contrario questo non implica alcun problema, si può
andare incontro a questa richiesta per agevolare la tranquillità e diminuire il carico di ansia che tali
situazioni creano.
Un’altra mamma invece non sa come comportarsi con la propria figlia che, iniziato un percorso di
cura in una struttura residenziale, telefona piangendo che vuole tornare a casa. Cosa si deve fare?
Cerchiamo prima di tutto di capire chi è che parla. In una situazione del genere, emerge
prepotentemente la malattia che, sentendosi attaccata, cerca in tutti i modi di poter ritornare in
quel contesto per lei sicuro e di facile manipolazione come la casa. È chiaro che nelle lacrime c’è
la sofferenza della propria figlia, ma, ripetendo il concetto di prima, il genitore non può essere il
terapeuta. Quando si inizia un percorso di cura, queste paure sono le prime ad emergere ma
affinché si arrivi alla consapevolezza che è la malattia la causa dello star male ( e non è al
contrario la soluzione) occorre vivere pienamente queste difficoltà affinché si chieda aiuto ai propri
terapeuti, iniziando così a essere collaborativi, e non al contrario, rivolgersi ai genitori per ritornare
a casa e riavere il pieno controllo della malattia.
Una cosa importante da sottolineare è il fatto che accade spesso che i genitori nutrano alte
aspettative sull’esito di una cura, questo perché si ha la credenza che un disturbo alimentare dia
risultati evidenti fin da subito. In realtà questo non accade quasi mai poiché ci vuole tempo per
scardinare le dinamiche che il disturbo ha creato. Accade di frequente che il genitore non veda
segni di guarigione, anzi, a volte i sintomi appaiono ancor più evidenti. Ma allora a cosa serve la
terapia, il ricovero, lo psicologo, la nutrizionista se poi il sintomo rimane? Non è così. Ci sono tutti i
meccanismi di difesa che la malattia mette in atto che devono essere scardinati ma
contemporaneamente è necessario ricostruire tutto quello che la malattia ha distrutto.
Il disturbo alimentare, come spesso viene detto, rappresenta la soluzione a un problema divenendo
una sorta di stampella con cui camminare e con cui senza di esso diventa impossibile andare avanti.
Se pensiamo a una persona con una gamba malata che si sorregge su una stampella, è evidente
che non le si può togliere questo sostegno improvvisamente poiché cadrebbe a terra. Sono
proprio questi i momenti in cui c’è bisogno di supportare la famiglia affinché possa comprendere
quello che sta accadendo nella mente della propria figlia e riuscire a gestire meglio le proprie
emozioni e pensieri. Il laboratorio è nato con questo obiettivo.
C’è stata poi la domanda di una mamma la quale non riusciva a capire la decisione
contraddittoria della propria figlia che le aveva esplicitamente chiesto di poter essere seguita da
una nutrizionista per non sentire più la fatica di dover decidere ogni giorno cosa mangiare e
comprare, per poi ritrovarsi a vedere sabotare dalla stessa lo schema alimentare proposto. In
questa situazione, dov’è che si manifesta e opera il disturbo alimentare? Qui c’è la piena
rappresentanza dell’aspetto contraddittorio e dicotomico della malattia. Da una parte il bisogno di
addossare a una persona esterna la responsabilità di scegliere e dall’altra la paura di perdere il
controllo. In un disturbo alimentare ciò che si vede è il comportamento dell’altro ( che non è che la
punta dell’iceberg). Tutto il processo mentale che è alla base della malattia è invisibile agli occhi.
Nel momento che la persona chiede un supporto al nutrizionista, immediatamente compare la
malattia che comincia ad attaccare con una incessante e ossessiva serie di pensieri : “ Non vorrai
mica mangiare quello che c’è scritto? Guarda che poi non entri più nei vestiti. Poi gli altri
vedranno che sarai ingrassata......” Questi sono solo alcuni dei pensieri che ininterrottamente
occupano la mente di chi è affetto da un disturbo alimentare. Per questo è indispensabile che ci
sia la presenza combinata di un percorso psicoterapeutico che aiuti ad affrontare queste paure e
costruire contemporaneamente un rapporto sano e non conflittuale con il cibo. Intraprendere un
percorso nutrizionale senza l’accompagnamento di un altrettanto percorso psicologico non aiuta
perché lascia scoperta tutta la parte legata al pensiero ossessivo e al controllo.
In un’altra situazione un papà ha chiesto cosa deve fare per far sì che sua figlia non vada sempre a
camminare? Ripetiamo, ciò che è visibile in un disturbo alimentare è il comportamento, ma il reale
problema sta in ciò che è invisibile, ovvero nella mente. Non è impedendo di andare a camminare
che si ha la soluzione. Anzi, farlo rinforzerebbe quel modo di agire. E allora un genitore non può
fare nulla? Un genitore può cominciare a creare una comunicazione che non è più focalizzata sul
disturbo ( non hai mangiato, cammini troppo, sei magra, devi mettere su peso o devi dimagrire ...)
ma è diretta sulle emozioni, su ciò che fa stare male ma soprattutto, ricercare quelle sensazioni,
comportamenti, situazioni, contesti che fanno stare bene, che fanno emergere un guizzo di vita,
che creano anche una progettualità verso qualcosa che piace. Aiutare la propria figlia o figlio a
ritrovare il “gusto” della vita. Una mamma infine ha voluto riportare la sua esperienza di come,
dopo tante difficoltà, cadute, rialzate, ora sua figlia e’ pronta a riaffacciarsi alla vita, conscia di
quanto il percorso verso questa consapevolezza è avvenuto attraverso uno scontro diretto con se
stessa e con le persone a lei care.

La frase della settimana è: RITROVARE IL “GUSTO” DELLA VITA. 

 

lunedì 19 ottobre 2020

Cara malattia...

Cara malattia.
Cara amica mia.
compagna forte, determinata, sempre presente.
Senza chiedermi il permesso sei entrata nella mia vita,
mi hai convinta di non poter più vivere senza di te..
E invece, sotto quella sicurezza che mi promettevi si nascondeva una profonda voglia di distruggermi.
Ci sei riuscita, amica mia, mi hai rubato tutto.
Mi hai rubato momenti che non torneranno più.
Mi hai rubato tutte le emozioni che un essere umano può provare.
Mi hai lasciata nuda, debole, indifesa.
Mi hai voltato le spalle.
E ora io mi chiedo, è questo che fanno le amiche?

Cara malattia.
Cara amica mia.
Grazie.
Grazie per avermi resa quella che sono oggi.
Grazie per avermi insegnato ad essere forte.
Grazie per avermi fatto aprire gli occhi.
La tua presenza mi ha cambiata, ha cambiato chi mi stava accanto, ha cambiato la visione che ho del mondo, delle persone, la visione che ho di me.
Grazie di esserci stata ma, ora, non ho più bisogno di te.
Non voglio più vedermi attraverso i tuoi occhi,
ho capito che loro non dicono la verità.
Ora mi guardo e mi vedo.
Mi vedo bellissima.
Stai ridendo vero? lo so, non mi hai mai sentito dire questa frase.
O meglio, l'ho detta tante volte anche in tua presenza, ma non c'ho mai creduto.
E invece ora voglio urlarlo.

Cara malattia.
Cara amica mia.
So che certi legami non finiranno mai.
So che vorrai continuare a stare al mio fianco, ti conosco.
E sai che ti dico? te lo concedo.
Ma questa volta, le regole, le decido io.

M.

domenica 18 ottobre 2020

Cambiare in meglio

 

Saranno troppe le volte in cui mi chiederò “Perché proprio io? Perché proprio a me?”

Saranno poche le volte in cui saprò darmi una risposta, troppo, troppo poche.

Ma meglio io che la mia famiglia, meglio io che i miei amici, “perché non a me?”

 

Perché non a me?

Combattenti non si nasce, ci si diventa, ci si diventa con le sfide che la vita stessa ci pone, ci si diventa con la saggezza di affrontare le cose, di guadagnarsi la vittoria senza però non meditare la sconfitta.  Ci sono troppe cose che hanno un perché, troppe cose che non ce l’hanno, l’anoressia è una di queste. L’anoressia è uno dei tanti argomenti che ti fa sedere a tavola sconfitta, triste e frustata, quando, per tante altre persone, il momento migliore è proprio quello di sedersi a tavola e mangiare, mangiare tutto e di più.

Mi chiamo Chiara e ho 19 anni, vivo in un piccolo paesino situato in provincia di Benevento, sono già stata ricoverata una volta per anoressia e sono sotto rischio di esserlo di nuovo. Perché sì l’anoressia non ti guarda in faccia, non gli importa del tuo aspetto, com’è il tuo naso, la tua bocca, come sono i tuoi occhi, se hai amici o meno, a lei interessa nutrirsi di te, nutrirsi di “vita”.

Ti toglie tutto, a partire dalla tua “dignità” a finire di perdere perfino la tua identità ed essere quella soprannominata “Anoressica”

E si sa, quanto può essere dura perdere la propria identità, quella costruita e fortificata soprattutto con l’adolescenza, vederla cadere giù come un battito di ali, ti fa sentire sconfitta. Mattone dopo mattone costruisce una casa, forchettata dopo forchettata non fa guarire dall’anoressia, mettetevelo in testa, non si sceglie consciamente l’anoressia, è una malattia, e in quanto tale, non decidi tu di ammalarti. Mi farebbe davvero piacere farlo capire a chi non la pensa così.

Ho conosciuto questo nemico, nel 2019, ho passato il mese di giugno, mese per cui iniziano le vacanze, in un letto d’ospedale, pesavo 35 kg, sono uscita da lì con 40 kg, non il massimo, ma credevano che finalmente avrei potuto continuare il percorso riabilitativo da casa e invece non è finita così. Dai 40 kg, ho avuto un crollo, e sono finita a pesare 33 kg, attualmente ne peso 35 e sto continuando il percorso terapeutico con persone specializzate.

L’anoressia, ha bussato alla mia porta e io inconsapevolmente l’ho aperta. Perché sì, quando si tende a fidarsi della mente e del cuore, questo succede. L’anoressia vuole portarsi via la vita, il futuro, la bellezza e il piacere delle cose, soprattutto l’amore.

Ma non bisogna permetterlo, a volte non si riesce neanche ad esprimere tutto ciò che ci fa provare questo nemico così grande. È un po' come avere la testa continuamente in guerra, contro sé stessi. Ma sono sicura che un giorno, ritroveremo la nostra metà, ciò che eravamo prima della malattia, troveremo il coraggio di guardarla e cambiare. Cambiare in meglio… perché si può e si deve.

Chiara P.

sabato 17 ottobre 2020

Anoressia, ormai sei solo "passato"

Ciao Anoressia, ti ricordi di me?

E’ passato un bel po' dal nostro primo incontro. Sei arrivata silenziosa, quasi tanto da non farti notare. Poi pian piano hai iniziato a conoscermi, conoscere le mie paure, le mie insicurezze, le mie fragilità. L’hai fatto talmente bene che sei riuscita a farti spazio nella mia vita in pochissimo tempo. Ti sei appropriata di me.

Hai preso tu il comando e mi hai tolto tutto.
Mi hai tolto il sorriso. La gioia. La spensieratezza della mia giovane età. Mi hai tolto la libertà e la sicurezza. Il piacere di gustare una pizza, un gelato. Mi hai tolto gli amici, la famiglia. Mi hai tolto la danza!
Mi hai fatto credere di non avere bisogno di niente e di nessuno. Mi dicevi: “Puoi farcela anche così’, sola”. Mi hai illuso. Mi hai condizionato. Mi hai comandato, costringendomi a diventare come tu volevi.
Mi hai stancato talmente tanto da non riuscire più a vivere. Ho lasciato fare tutto a te.
Mi hai concesso solo inutili 39 kg, all’epoca forse non tanto inutili, e stavo morendo. Mi stavi uccidendo. Non solo fisicamente, ma nell’anima. Mi hai catapultato in un abisso talmente profondo e buio che non riuscivo a trovare più Francesca. Non la riconoscevo. La chiamavo, gridavo.. ma non rispondeva nessuno.
La tua voce nella mia testa era fin troppo alta per riuscire ad ascoltare altro. C’eri solo tu. Volevo solo te.
Ma quanto ho pianto per te. Quanto ho sofferto...
Ma sai una cosa? Ormai sei solo “passato”. Un passato doloroso, è vero. Ma rimani una cicatrice, incisa sulla mia pelle. Una cicatrice che talvolta prova a bruciarmi ancora, ma che alla fine perde ad ogni suo tentativo. 

Ti voglio ringraziare però...strano vero?
Ti dico GRAZIE perché mi hai reso più forte, più determinata a vincere le mie battaglie. Mi hai aperto la mente talmente tanto da imparare a conoscere la vera donna che è in me. Grazie perché con te, ho capito di essere imperfettamente perfetta. Di avere dei difetti e delle imperfezioni, che non sono punti deboli, ma caratteristiche che mi rendono diversa e quindi bella. Grazie perché solo dopo essermi rialzata, ho capito quanto vale il dono della vita. Quanto io sono preziosa nella mia semplicità.
Grazie perché ho imparato ad ascoltarmi e soprattutto ad amarmi.
Grazie perché mi hai impaurito talmente bene che nello stesso tempo mi hai donato il coraggio di chiedere aiuto. Grazie perché sconfiggendoti, il sogno di scrivere un libro e lasciare una parte di me e te come testimonianza è diventato realtà. E sai come l’ho intitolato? RINASCERE. Perché io sono rinata, come la primavera. Come la fenice. In fin dei conti non sei così potente come pensi di esserlo…
Ti dico davvero Grazie, per avermi tolto momentaneamente tutto perché mi hai ridato ciò che è il mio tutto. Mi hai ridato la fede e la speranza. Il coraggio e la fiducia di affidare e affidarmi in Colui che è la mia forza. Il mio porto sicuro. La lampada sui miei passi, la luce sul mio cammino. Mi hai ridato l’essenziale: Dio.
Non ti dimenticherò, ma ho scelto di essere felice sempre e di amarmi ogni giorno di più.

Ho scelto la vita ed ho vinto io. 

Spero tramite il libro e tramite questa piccola parte di me, di essere un aiuto per te che hai sofferto o stai soffrendo. Ti auguro di essere come una foglia d’autunno danzante ad un soffio di vento.
Chiunque tu sia, vivi bene. 

Francesca Crispo

 

martedì 13 ottobre 2020

Fogli(e) di vita

A chiunque legga le mie parole, dedico un saluto.
Scrivo in un momento in cui la mia vita è completamente assorbita dal disturbo alimentare. Nell’ultimo mese ho lasciato andare ogni mia difesa dando spazio ad un comportamento alimentare sregolato. Esso è la mia colpa, non la mia punizione.
Perché no, non mi sento indegna di vivere, no, non sono un demone torturatore di me stessa. Sono semplicemente una ragazza che ha deciso di riprendere le responsabilità della propria vita, vita di fronte alla quale si è spaventata, rifugiandosi in una modalità che conosceva da tempo. Troppo ‘facile’ pensare di essere malati e dunque deresponsabilizzarsi rispetto alla vita, dicendosi che se si è malati non si può mica fare l’ingegnere, o il medico, o l’avvocato.
In questo momento dar spazio a qualsiasi slancio alla vita è doloroso, che dico, dolorosissimo. Nonostante ciò io ho deciso, che è già qualcosa, di mettermi in una posizione tale da poter essere aiutata.
Questo è quel che mi riesce, questo è quel che mi resta. Timido accenno di luce nel buio notturno che vivo. È come se non ci fosse alternanza tra giorno e notte, solo le tenebre esistono.
Eppure sono ancora qui, respiro e sono in vita. Vita alla quale mi aggrappo e che in fondo in fondo difendo con le unghie e con i denti.
Questo è un messaggio di speranza per tutti coloro che credono che non ci sia fine al dolore. A voi dico di non smettere di crederci, di impegnarsi quanto più possibile in attività che possano arricchire la propria persona anziché continuare a distruggersi ‘tanto ormai..’.
Si può avere ogni tipo di aiuto esterno ma bisogna pur sempre mettere qualcosa di proprio, scegliere di non abbandonarsi alle sabbie mobili che sembrano farci affondare.
Anche se tutt’ora mi riesce difficile crederlo, la vita è un dono straordinario che però continua a metterci alla prova. Vivere vuol dire essere soggetti a cambiamento perché si naviga in acque mai ferme. Vivere è un divenire. Pertanto non combattiamo contro natura, non cerchiamo di far rimanere il proprio corpo fermo, immutato. Accettiamo e accogliamo il cambiamento con un pizzico di leggerezza in più.
Sgraviamo la testa e viviamo di cuore.
Questo è ciò che auguro ad ognuno di voi che, come me, soffre.
 
Federica

lunedì 12 ottobre 2020

Riprendersi la propria vita - Laboratorio 7 ottobre 2020

Il laboratorio di stasera ha ripreso l’argomento della paura che provano i genitori quando vivono un disturbo alimentare all’interno del contesto familiare. È emersa nuovamente la richiesta di aiuto su come affrontare quei timori che sorgono quando i propri figli tornano a casa dopo un percorso intrapreso in una struttura residenziale. Spesso si prova la paura di sbagliare insieme al desiderio di voler proteggere ulteriormente la propria figlia o figlio dalla sofferenza che la malattia porta con se’. Questo atteggiamento protettivo ovviamente non aiuta perché, come ha commentato una mamma, l’altra persona si sente come una bambola di porcellana ultra delicata e fragile. Si finisce così col vivere come se si camminasse sulle uova, sempre con quel timore di fare il passo sbagliato che genera tensione e ansia. Allora che cosa bisogna fare affinché si riesca a gestire meglio queste paure? Una mamma ha condiviso la sua recente esperienza in cui, grazie a un lavoro personale su se stessa, sta cercando di lasciare meno spazio alle proprie ansie cercando di prestare molta attenzione a distinguere e differenziare la malattia dalla persona. Questo la aiuta a ridimensionare gli eventi, ritrovando la calma e la capacità di gestire le sue emozioni, a beneficio della comunicazione e della relazione con la propria figlia. Tutto ciò ci ha riportato a riflettere e a constatare concretamente come sia possibile ritrovare quel profondo canale comunicativo che si è instaurato fin dalla nascita con i propri figli che rappresenta un nutrimento essenziale per vivere.
Un canale comunicativo in cui è fondamentale che ci sia anche la figura paterna in quanto il rapporto tra padre e figlia o figlio è essenziale per lo sviluppo e la crescita della persona, e proprio per questo non può essere trascurato.
Come è stato evidenziato dal laboratorio precedente, il genitore non deve trasformarsi in un terapeuta, così come la casa non deve diventare una struttura residenziale in cui vige il controllo e imperano le dinamiche della malattia. Al contrario, la casa deve essere il luogo in cui si ritrovano i propri affetti, i propri legami che possono essere liberati dalla gabbia che la malattia ha costruito tutto intorno a se’. Per farlo, è necessario recuperare il proprio ruolo genitoriale, abbandonando tutti quei sensi di colpa che accompagnano i genitori nel pensare di agire sempre nel modo sbagliato. Ci sono momenti della malattia che portano la persona che ne è affetta a non recepire nessun consiglio, nessun gesto, nessuna attenzione. Questo accade perché la persona quando si trova in questa fase non permette a nessuno di avvicinarsi a lei, inducendo l’altro a credere di sbagliare tutto. Ma non è così. Ogni cosa detta o fatta, anche se non viene ascoltata e recepita sul momento, rimane impressa nella memoria. Anzi. Come hanno rivelato le testimonianze di persone che sono guarite dal disturbo alimentare, in loro è ben vivido ancora adesso tutto quello che i loro genitori hanno fatto, consapevoli di quanto la malattia abbia invaso anche la stessa esistenza dei propri familiari.
È poi emerso il concetto della dipendenza legata al disturbo alimentare. Se da una parte si ha un vuoto interiore che necessita di essere riempito attraverso un uso spasmodico di cibo che anestetizza il dolore, dall’altra parte si ha un vuoto interiore che ha congelato ogni emozione e sentimento con l’illusoria sensazione di avere il controllo su ogni cosa. In entrambi i casi si sta cercando di rimediare a una sofferenza interna di cui il disturbo alimentare non è che la punta dell’iceberg. Il problema reale non è il cibo quanto il dolore che la persona prova e dalla quale cerca di proteggersi attraverso la malattia. Una malattia che non dimentichiamo, nelle fasi iniziali attraversa un momento di vero innamoramento del disturbo e che di fatto viene chiamata la fase di luna di miele. In questo periodo la persona finisce con l’identificarsi con la malattia tanto da non riuscire più a riconoscersi senza di essa. Per questo è necessario affrontare un percorso terapeutico in quanto serve andare a smantellare questa identità malata per costruire una nuova  identità basata su basi nuove, stabili, autonome.
Il genitore può essere di aiuto durante questo percorso riappropriandosi a sua volta del suo ruolo genitoriale e soprattutto ritornando a vivere la propria vita. Che non vuol dire dimenticarsi della propria figlia o figlio. Tutt’altro. Significa ritrovare quegli spazi propri in cui prendersi cura di se stessi o semplicemente di rilassarsi o svagarsi, poiché il dono più grande che possiamo fare a noi stessi e ai nostri figli è riprendere in mano la nostra vita.
Emozionante la testimonianza di una ragazza che ha condiviso il ricordo della malattia vissuta anche dalla parte del suo fidanzato il quale non si è mai lasciato manipolare dal disturbo alimentare ponendo di fatto molti paletti che in qualche modo le sono serviti per reagire. Grazie anche a questi, un giorno ha deciso di voler accompagnare il suo fidanzato a cena fuori, così si è preparata con cura, vestendosi tutta carina. Quel giorno, ha ricordato che la psicologa con la quale aveva parlato le aveva detto che oramai, dato che il suo disturbo era cronico, il suo destino non poteva che essere altro che andare in cura presso il servizio di salute mentale. Una volta seduta al ristorante, si è guardata intorno e ha visto che le persone vicino a lei erano serene e “normali”. In quel momento le sono tornate in mente le parole della psicologa e improvvisamente si è come rotto il ghiaccio vicino al suo cuore: anche lei era come quelle persone “normali” e non da salute mentale. In quel momento, ha cominciato a riprendersi la sua vita.


La parola della settimana è: RIPRENDERSI LA PROPRIA VITA.

 

Dare un nome alle paure - Laboratorio 23 settembre 2020

 

Stasera il laboratorio si è sviluppato intorno a una domanda principale: “Quali sono le paure che
i genitori provano quando i loro figli vivono un disturbo alimentare?

Sono state tante lerisposte arrivate. 

C’è la paura della comunicazione, o meglio, il terrore di dire sempre la cosa sbagliata. Una mamma ha voluto condividere quello che le è accaduto poche ore prima del laboratorio. Ricevendo la consueta videochiamata dalla propria figlia che si trova in cura presso una struttura, ad un certo punto “casualmente” sono comparsi i gatti di casa ( metto tra virgolette casualmente perché in realtà nulla accade per caso) ed è sorta spontanea la domanda della mamma “non ti mancano i gatti? Non senti voglia di tornare a casa?” Dopo una prima reazione aggressiva da parte della figlia, questa è scoppiata a piangere e la videochiamata è terminata con l’immagine di queste lacrime e un grande senso di colpa da parte della mamma per aver detto la cosa sbagliata e aver arrecato un’ ulteriore sofferenza alla propria figlia. In realtà, non c’è stato alcun errore. Anzi, quella situazione ha creato l’occasione per poter finalmente lasciar andare le emozioni tenute sotto controllo fino ad allora. Darsi il permesso di piangere vuol dire darsi soprattutto il permesso di avvicinarsi a se stessi, e ogni qual volta accade questo, lo possiamo considerare un dono prezioso. Un dono che porta a fare esperienza del proprio vissuto emotivo.
Un’altra mamma ha portato la paura che si presenta tutti i fine settimana quando la figlia fa rientro a casa dalla struttura residenziale. Questo ritorno viene vissuto male da entrambe le parti. I genitori sono spaventati non tanto dall’ arrivo di lei quanto dal sopraggiungere della malattia, la quale si è sovrapposta abilmente all’immagine della loro figlia. Questo li porta inevitabilmente a cambiare le dinamiche in casa che vanno verso un controllo costante. Il disturbo priva del ruolo genitoriale andandolo a trasformare in quello di pseudo terapeuta. Le mura domestiche non rappresentano più una casa ma diventa a sua volta una struttura residenziale dove ogni cosa deve essere controllata e seguita alla lettera. Ovviamente, tutto questo peggiora ancor di più i rapporti tra genitori e figli poiché la malattia li ha privati entrambi della loro identità allontanandoli sempre più l’uno dall’altro.
C’è poi la paura della porta chiusa. Spesso i propri figli si creano uno spazio protetto che è quello della loro camera. Quando vi si rinchiudono dentro, non vogliono essere disturbati ne’ vogliono che qualcuno entri senza il loro permesso. Tutto questo però si complica ulteriormente quando compare un disturbo alimentare. Ecco emergere tutte le possibili paure che la propria figlia/ figlio possa commettere qualche azione autolesiva dietro a quella porta. E il rapporto si trasforma in un duello estenuante che sfocia nella sfiducia e nel non comunicare più. Occorre riuscire a vedere al di là di quella porta che metaforicamente rappresenta la malattia. Dietro quelle urla, quei comportamenti aggressivi, quelle parole offensive si nasconde la loro angoscia più profonda che li ha portati a cercare protezione in una malattia come il disturbo alimentare.
Una mamma ha raccontato di quando un giorno in piena crisi per i comportamenti ossessivi che la figlia continuava ad avere, un’amica le aveva detto che lei non poteva aver alcun controllo su questi. Non poteva certo costringere la figlia a smettere o cambiare comportamento, magari legandola per impedirle di camminare ininterrottamente. Non era compito suo. Ha riflettuto tanto su queste parole. Finché una mattina, è entrata nella camera della figlia e, guardandola per la prima volta dopo tanti anni negli occhi, le ha dato spontaneamente il buongiorno ricevendo in cambio uno sguardo sorpreso e colmo di gratitudine. Per la prima volta la madre non aveva guardato il suo piccolo giro vita, o i suoi piedi che non stavano fermi. Non aveva fatto alcun commento a riguardo. Finalmente la madre l’ aveva vista come persona, e non come la malattia.
Un’ altra mamma ha raccontato che un giorno stava pulendo casa e a un certo punto le è venuto spontaneo aver voglia di cantare. La figlia, stupita di sentire la madre canticchiare in un modo gioioso, è uscita dalla propria camera per andare a vedere cosa accadeva. In quel momento madre e figlia si sono guardate negli occhi. Non c’era bisogno di alcuna parola. Attraverso quello sguardo si erano riconosciute. 

Entrambi i racconti rivelano che quando non si è intrappolati dentro ai propri pensieri, le proprie aure, riesce ad emergere quella comunicazione dalle radici profonde che lega genitori e figli a cui la malattia non riesce ad arrivare. Coloro che soffrono di un disturbo alimentare hanno spesso una sensibilità molto accentuata verso i gesti, gli sguardi, i comportamenti. Riescono a leggere ogni piccola sfumatura, tanto da percepire le paure che i genitori vivono. Ma anche loro si sentono in colpa per ciò che dicono e fanno ...e non riescono a comunicarlo a parole. È come se ogni emozione fosse congelata e non riuscisse a trovare espressione. Spesso ogni componente della famiglia si ritrova a convivere nella stessa casa in cui ognuno è chiuso e congelato nelle proprie inquietudini. Ecco che il controllo diventa la modalità per scongiurare l’angoscia di ciò che non si conosce. Ma allora come arginare queste paure? Innanzitutto occorre identificarle. Dargli un nome. Questo aiuta a depotenziarle, sgretolando a poco a poco la loro forza intrinseca. Spesso, come nel racconto iniziale, le paure portano a bloccare la comunicazione che diventa il perno centrale su cui ruota il pieno potere della malattia. Come detto più volte nei laboratori, il disturbo alimentare si nutre delle ansie sia di chi vive il disturbo sia dei loro familiari. Riuscire a dar voce e nome ai propri timori significa ridurre il potere manipolatorio del disturbo.
Sempre durante il laboratorio c’è stato il racconto di un’altra paura vissuta dai genitori: il concedersi una vacanza. Spesso ci si vieta di fare le ferie perché ci si sente in colpa di cercare di svagarsi quando la propria figlia/o al contrario si trova dentro una struttura residenziale per curarsi. Una mamma ha raccontato che questa estate è andata qualche giorno in vacanza in montagna dove finalmente è riuscita a rilassarsi un poco. Anche se aveva scattato delle fotografie, aveva deciso di non condividerle con la figlia per il grande senso di colpa che provava.
Anche altri genitori hanno ammesso di aver vissuto la stessa esperienza. Riflettendo su queste dinamiche è emerso che non è vietandosi di vivere che si aiutano i propri figli. Anzi. Loro apprendono maggiormente dai loro esempi piuttosto che dalle parole. E allora è venuto naturale domandarsi: “come si può pretendere che i propri figli si riaffaccino alla vita quando siamo noi i primi a privarcene?”
Bellissima la citazione di Gibran riportata da un papà. Ha esortato a ricordare che i figli non appartengono ai genitori. I genitori hanno il principale ruolo di educare. Se riflettiamo  sull’etimologia della parola e-ducare deriva dal latino e-ducere, che significa trarre fuori ciò che è dentro. La malattia blocca questo processo, diventa lei stessa quella metaforica porta dietro alla quale si trincera chi soffre di un disturbo alimentare. Tirare fuori ciò che si ha dentro spaventa.
Ma:


I vostri figli non sono figli vostri... sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita. Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni. Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri. Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti. L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo. Ma il genitore è come un arco. Il figlio è una freccia. Il compito del genitore è scoccare questa freccia e lasciare che il figlio possa volare libero nell’aria, sentendo vibrare scorrere dentro di se’ la propria vita.” 

Khalil Gibran


La parola della settimana è: DARE UN NOME ALLE PAURE.

 

 

martedì 6 ottobre 2020

Ho scelto la vita

Senza vergogna, senza paura, armata di coraggio e qualche lacrima.
Mi chiamo Martina e ho sofferto di anoressia.
Trovo la forza di dare coraggio a chi ne sta soffrendo, chi ci sta lottando.
L’ho amata, l’ho tenuta stretta a me, l’ho custodita. L’ho protetta tra le mie ossa, nella mia fragilità, mi sono identificata a lei, ho vissuto insieme a lei tre anni, insieme all’anoressia.
Mentre il mondo mi si chiudeva intorno, mi sono aperta a lei.
Poi ho chiesto aiuto. Ancora oggi non so come, ma mi sono aggrappata ad un raggio, ed ho scelto la vita.
Poi l’ho rifiutata ancora, poi l’ho ripudiata.
Mi sono creata un letto all’inferno e mi ci sono adagiata.
Ma non riuscivo ad impedire alla vita di farsi spazio dentro di me. Così l’ho ascoltata, per la prima, vera, unica volta.
Sono stati tre anni in cui mi sono quasi uccisa, mi sono odiata, mi sono messa a nudo con me stessa, con gli occhi spenti, un abisso dentro, ho attraversato il dolore e mentre tendevo la mano al domani poi facevo tre passi indietro.
Non posso spiegarlo, e forse non ci riuscirò mai.
Ho imbrogliato medici, psicologi, mia madre, mio fratello. Ma la vera menzogna l’ho sempre raccontata a me stessa, perché la verità faceva male. E la verità era che mi stavo negando un domani.
Poi, come dice una canzone, “non mi resta che allacciare un paio d’ali alla mia testa”, e mi sono sentita leggera, ho respirato l’aria e l’ho lasciata invadere i miei polmoni.
Ho scelto la vita.
E anche la vita l’ho maltrattata, l’ho ripudiata, l’ho insultata; mentre la pregavo di farmi spazio.
Così sono rinata. Per la prima volta nella mia vita sono riuscita a darmi un nome, un’identità che non si chiamava più Anoressia, ma si chiamava Martina.
E sono rinata, con tutto ciò che questo significa: ho imparato a camminare, a nutrirmi d’amore, a scoprire quali sono i miei limiti e quali gli orizzonti che voglio oltrepassare. Ho imparato a sognare, ad abbracciare, a urlare... a respirare.
Ho imparato a vivere, non solo esistere.
Certo, non è facile. Non passerà giorno senza che io non mi ricordi dei valori nutrizionali di qualcosa prima di mangiarlo, ma oggi lo mangio comunque e vaffanculo.
Non passerà giorno in cui non incontri le mie paure, perché ho imparato che ci sono alcune cose che se non le puoi sconfiggere devi imparare a conviverci, e non è segno di debolezza. Però oggi so come salutarle e passare avanti. Come farle addormentare.
Non passerà giorno in cui non mi ricorderò di tutto questo, perché è questo che mi ha reso ciò che sono oggi: che abbraccio la mia fragilità, la custodisco, perché è proteggendola che divento forte.
Ad oggi cammino verso il mio futuro, che non so ancora cosa voglio conquistare, ma mi ringrazio per essermelo concessa, un domani.
Ci saranno sempre momenti, occasioni, che mi riporteranno indietro: e io tornerò a visitare chi sono stata, e poi l’abbraccerò, la prenderò per mano e la porterò ad ammirare dove siamo arrivate e chi siamo diventate.
Non sempre mi apprezzo, però sto imparando a volermi bene. A riempire le mie crepe con i miei traguardi per ricordarmi che ce l’ho fatta. Ad accendere il sole che c’ho negli occhi anche di notte.
Ad oggi ti ringrazio cara Anoressia, perché mi hai fatto scoprire la vita. Mi hai fatto scoprire una persona, me stessa.
Non ti dimenticherò mai, mi hai lasciato cicatrici dentro, e scusa, ma ti lascio un passo indietro e io vado avanti. Verso dove ancora non lo so, ma sono sicura che sarà bellissimo e spaventoso come la vita che m’hai fatto esplodere dentro.
Abbiate paura, abbiatene tanta, fatevi male: perché, come un saggio dice, “è dal dolore che si può ricominciare”.
E niente vale quanto guardarvi allo specchio e volervi bene. Niente vale quanto essere fiere di voi.
Nonostante tutti i riflessi del passato, nonostante tutto.. ne vale la pena. Respirare. Sentirvi vive. Poter abbracciare vostra madre.
Mi chiamo Martina, e ho scelto la vita. Grazie.

Martina

 

 

venerdì 2 ottobre 2020

Risalire il pozzo

 

Buonasera, mi sono imbattuta in questa pagina e come sempre è stato un colpo al cuore. Ho letto meglio i temi che trattate e ho esplorato il blog tremando, ma poi ho capito che forse il vostro approccio è in realtà molto simile a quello che io ho sempre creduto che dovesse essere. Sono una ragazza, anzi donna per quanto mi faccia impressione dirlo, di quasi 36 anni con alle spalle un lunghissimo percorso di disordini alimentare chiamati a volte anoressia, a volte bulimia e a volte associati ai disturbi più sconclusionati. Dico "alle spalle" ma credo che in realtà si tratti piuttosto di una quasi pacifica convivenza, come quelle coppie stanche che continuano a vivere sotto lo stesso tetto ignorandosi e scendendo a qualche compromesso quando si incrociano per caso in salotto, una convivenza fatta di sensi di colpa e rimpianti che fuori di casa, con gli altri, si tramutano in sorrisi di circostanza e battute ironiche. Sai che non vi lascerete mai davvero e allo stesso tempo speri che un giorno l'altro si volatilizzi nel nulla.
Ho lottato tanto, credo. O almeno così mi dice chi ha assistito a parte di questa battaglia o che ha sentito la storia raccontata da me come se accadesse a un'altra persona, lo racconto piena di tatto e speranza per non far paura a chi mi sta di fronte, non voglio urtare la loro sensibilità o farli sentire in obbligo di dire la cosa giusta, non voglio che sentato il mio dolore e non voglio che me lo ricordino.
Ovviamente ho seguite diverse terapie e ho incontrato anche brave persone, poi ho capito che il blocco dentro di me persisteva ma potevo aggirarlo e vivere quasi normalmente, ho scoperto le piccole gioie, ho imparato a prendermi cura di me ad amare e a pensare all'esistenza di un futuro. Io maniaca del controllo che però non ero in grado di vedermi dentro ad alcun progetto.
Ci sono cose che ancora mi fanno paura, comportamenti evidentemente disfunzionali, sintomi che ricompaiono a caso e che ormai più che farmi male mi stupiscono e allora stop, prendiamo un bel respiro, ricordiamoci del tempo che ci hanno rubato e mettiamo il sintomo da parte a fissarci per un po' per poi nascondersi chissà dove dentro questa testa confusa.
Ho detto tempo rubato perché il mio più grande rammarico è questo, non le ore perse a contare calorie o ad abbuffarmi e poi cercare di ributtare tutto fuori fino a sfinirmi. No. Io rimpiango tutte le cose belle, perché sono sicura che ne sono successe, che sono accadute nei 13 anni più bui e di cui io non ricordo nulla. Nulla. Così concentrata a tentare di distruggermi e poi a tentare di sopravvivere e via di seguito in un circolo vizioso tragicomico. I disordini alimentari come tutti i disturbi mentali ti prosciugano e anche se troverai la forza di andare avanti e costruirti una vita avrai sempre perso qualcosa. Ma anche guadagnato. Conosco la sofferenza e la rispetto, rispetto il prossimo e so che le parole possono uccidere più di una bomba perché lo fanno piano e in maniera continua e alla fine non muori ma vorresti farlo. Questo vale più di tutti gli esami superati e di tutti i traguardi raggiunti.
Ho scritto di getto, senza un motivo forse, spero di trovare un giorno il modo di poter dare letteralmente una mano a chi è in fondo al pozzo a risalire, almeno un po' e le parole in questo senso hanno un grande potere, di ferire quanto di salvare.

Laila