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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

giovedì 29 aprile 2021

Se manca la famiglia, manca il significato della propria storia. Laboratorio del 20 Aprile

Quante volte capita a un genitore che ha una figlia o un figlio che soffre di un disturbo alimentare di sentirsi dire : “ mi dispiace, ma sua figlia/ o non è abbastanza motivata/o alla cura. Torni quando ci sarà questa motivazione”. Ma cosa vuole dire in realtà questa affermazione? Tutto e nulla. Ovvero, è cosa assai difficile che una persona con un disturbo alimentare abbia realmente desiderio di intraprendere un percorso di cura, soprattutto quando la persona in questione è minorenne. 

Chi soffre di questa malattia, in particolare nelle prime fasi, non la vive come un ostacolo ma come la soluzione ad ogni problema. Il disturbo alimentare diviene così una sorta di stampella senza la quale la persona non sarebbe in grado di camminare. E’ impensabile che la stessa persona voglia disfarsi di questo mezzo che per lei rappresenta l’ unica modalità con il quale trovare appoggio e sostegno. Di conseguenza, è abbastanza ovvio che mostri opposizione, un’ opposizione che non è verso la guarigione ma bensì verso il cambiamento. La persona quindi si trova a non voler lasciare andare il disturbo alimentare e tutto questo va esplorato per comprendere che cosa è che spaventa così tanto da far ergere questa resistenza, e tutto ciò richiede tempo, professionisti specializzati e denaro. 

Capiamo bene che se consideriamo un ambiente di sanità pubblica, vengono a mancare le possibilità di attingere a tali risorse e quindi si declina il tutto sul piano della motivazione, come se fosse la persona a doversi in qualche modo adeguare alla terapia e non la terapia che debba adeguarsi alla persona e alla sua storia. E da qui può capitare di sentirsi dire: “mi dispiace, ma sua figlia/ o non è abbastanza motivata/o alla cura. Torni quando ci sarà questa motivazione” Tutto questo getta nella disperazione la famiglia che, non conoscendo appieno le dinamiche del disturbo alimentare ne’ tantomeno alcune possibili problematiche organizzative sanitarie, finisce con l’attribuire la “colpa” di una stabilizzazione della malattia alla mancanza di volontà della propria figlia/o. Ma un disturbo alimentare non è mai causato, ne’ tantomeno alimentato, da una non volontà da parte della persona che ne soffre. Centra ben poco la volontà quando si parla di un disturbo alimentare, poiché spesso dietro vi è la paura di vivere, insieme alla sofferenza che ne deriva, che induce la persona a rifugiarsi dentro a un disturbo alimentare. Per fortuna però ci sono anche strutture adeguate e dottori che conoscono bene questa malattia e sanno affrontarla non solo con le cure appropriate ma anche con un approccio umano che è indispensabile in queste patologie. Infatti, affinché una cura possa far effetto occorre che si venga a creare fiducia e affidamento verso il proprio terapeuta e la propria nutrizionista. 

Come ha riportato una mamma, la fiducia con l’equipe è fondamentale, non solo per la persona che soffre di un disturbo alimentare ma anche per la famiglia stessa. Dalla diretta esperienza di questa mamma, da circa due mesi la figlia si trova ricoverata in una struttura e non c’è serata che non sia caratterizzata da telefonate intrise dal pianto e dalle suppliche per ritornare a casa. Pochi giorni fa, durante un incontro in cui erano presenti tutta l’equipe della struttura e la famiglia al completo di questa ragazza, all’ennesimo tentativo di supplica di tornare a casa, questa mamma si è schierata completamente con l’equipe. Questo ha sortito un effetto molto forte sulla figlia, che improvvisamente ha visto davanti a se’ la debolezza della malattia. Il disturbo alimentare infatti, non è poi così forte come vuol far credere, ma anzi, diviene assai debole se viene smascherato nel suo sporco gioco manipolatorio. Alla fine, la ragazza ha ringraziato la mamma per non averla assecondata nella sua ossessiva richiesta. Ora è consapevole che il no non era diretto personalmente a lei, ma alla malattia. 

Un’altra mamma ha condiviso un accaduto simile. La psichiatra e la terapeuta le hanno sempre detto che quando riceveva le telefonate piene di pianti e suppliche da parte della figlia, doveva con calma rispondere con un : “ ti voglio bene.... ma io con la malattia non parlo, poiché a parlare in questo momento non sei tu”. E questo in effetti ha poi migliorato la vita ad entrambe. La figlia ha smesso di fare telefonate secondo la modalità di supplica, e la madre ha smesso di passare notti in bianco perché preoccupata e angosciata di quelle comunicazioni. Inoltre, questa mamma ha raccontato un ulteriore passaggio importante avvenuto in questi giorni. La figlia, rivedendosi in un video girato un anno e mezzo fa, ha confidato di essersi spaventata nel vedersi in uno sguardo in cui non si riconosceva e attraverso il quale non vedeva nulla di se stessa. Anche lo sguardo ha un ruolo importante in un percorso di cura. Lo sguardo sa rivelare molto più di tante parole. 

Lo sa bene una ragazza che, raccontando la sua esperienza personale, ha riportato quanto durante la malattia faceva fatica a riconoscere lo sguardo di amore che è sempre esistito da parte dei suoi familiari. In quel periodo, era come se si fosse rinchiusa nella gabbia dorata che rappresenta bene la metafora del disturbo alimentare. E sono stati proprio gli sguardi di persone a lei estranee, ma che conoscevano bene il disturbo alimentare, che l’hanno in un certo senso spronata a uscire dalla gabbia dorata. Queste persone erano riuscite a vederla al di là di ogni etichetta che la identificava come se fosse lei solo un disturbo alimentare. Questo le è servito come stimolo per ritornare a chiedere aiuto ai dottori che l’avevano seguita e a cui lei non aveva mai dato la giusta attenzione fino ad allora, cominciando finalmente ad affidarsi a loro. 

È bene sottolineare che nessun dottore possiede la bacchetta magica che porta alla guarigione. Lo stesso dottore può andare bene per una persona e non per un’altra. Sono tante le variabili che intercorrono nel rapporto di cura. Però, è anche vero che le figure terapeutiche hanno il compito di creare il più possibile un ambiente accogliente di ascolto, comprensione, dialogo, empatia. La parola empatia è utilizzata così tanto da perdere quasi valore, ma è, al contrario, un principio cardine. Empatia, entrare nel pathos, nel sentimento dell’altro. Solo così può avvenire il sentirsi visti e riconosciuti, e quando una persona che soffre sente arrivare su di se’ uno sguardo simile, comincia la vera cura. Quello sguardo nutre, riempie, dona linfa vitale. E permette alla persona di far emergere la voglia di ritornare a rimettersi in gioco, intraprendendo finalmente il cammino della guarigione, fidandosi completamente in chi ha saputo donarle quello spazio di accoglienza e riconoscimento. 

Quindi, il personale medico da una parte e la famiglia dall’altra, sono indispensabili nel percorso di cura di una persona che soffre di un disturbo alimentare. La famiglia è importante che diventi un’alleata dell’equipe terapeutica per far sì che non vada ad alimentare le dinamiche della malattia. Perché questo accada, occorre che ci sia coinvolgimento e collaborazione da entrambe le parti. Ogni piccolo passo fatto va a porre un tassello di quello che è il puzzle della propria storia, ma una volta che ogni elemento è finalmente incastonato, è ancora incompleto. Affinché il puzzle possa essere ben compatto e solido, occorre andare a incollare le varie parti. Questo collante è dato dalla rete di relazioni che sono fondamentali per creare unione e collegamento. Ma ancora, il puzzle non è terminato. Serve che l’intera tela possa essere contenuta dentro ad una cornice, e questa cornice, che delinea i margini e contiene e’ rappresentata proprio dalla famiglia. Ognuno di noi, senza la cornice della famiglia, perde il significato della propria storia. 

La frase della settimana : SE MANCA LA FAMIGLIA, MANCA IL SIGNIFICATO DELLA PROPRIA STORIA

martedì 20 aprile 2021

Laboratorio 6 Aprile


Mi chiamo Alessia, ho 23 anni e vivo a Brescia.

La mia storia di disturbo alimentare è iniziata a 11 anni in modo graduale con l'arrivo del menarca: era l'8 marzo 2009, ricorrenza del giorno della donna. Proprio il mio diventare donna è ciò che mi ha portato a vedermi in modo diverso.

Attorno ai 13 anni non avevo ancora vere e proprie mestruazioni ma continue emorragie abbondanti e dolorosissime, che mi facevano pensare che il mio corpo fosse qualcosa che non potevo più controllare. Non capivo cosa mi stesse succedendo, quello fu di fatto un evento traumatico. I miei cambiamenti fisici avevano smosso in me un modo più severo di guardarmi e non mi apprezzavo. Avevo iniziato a pensare che fosse il cibo il mio più grande nemico, subito dopo il mio corpo, che non voleva stare a una minima regola di quello che era previsto dai libri o dagli standard estetici della società. Il continuo flusso di sangue rappresentava simbolicamente il sanguinamento di una ferita interiore, ma io pensavo che togliendo un po' di cibo dal piatto avrei alleggerito anche quel peso che mi portavo dentro: cercavo di risolvere esteriormente un problema che partiva da dentro. Infatti dentro di me vivevo un profondo disagio emotivo. Non riuscivo ad integrarmi nella nuova classe pensando di essere “sbagliata” e non riuscivo a trovare il mio posto, tanto meno me stessa. La percezione distorta della mia fisicità non mi faceva sentire mai “abbastanza” secondo i miei standard di perfezione che applicavo duramente a tutto ciò che mi riguardava. Provavo costantemente una sensazione di vuoto profondo e opprimente, sentivo che dentro di me c'era qualcosa che nonostante i miei sforzi mi risucchiava sempre in un vortice di dolore, lacrime e solitudine. Passavo ore in camera mia, da sola, a piangere, sempre cercando di nascondermi. Talvolta il malessere che provavo mi faceva “uscire” dal mio corpo facendomi sentire come un'abitante di quelle membra che si muovevano da sole e io rimanevo a guardare dai miei stessi occhi ma come una terza persona.

Nonostante tra quell'estate e l'inizio del liceo avessi preso in mano il mio dolore e iniziato per mia volontà un percorso psicologico, il solo soffrire di un disturbo alimentare mi faceva sentire in colpa verso i miei genitori e mio fratello (molto più grande), per la sofferenza che stavo portando loro.

Loro avevano già vissuto un dramma, “il vero dramma”: nel 1988 mio fratello Stefano morì a soli tre anni di leucemia, e quello che stavo creando io secondo loro era solo frutto del mio egoismo, ma io mai avrei voluto far loro del male. In tutto il percorso della mia malattia non sono mai riuscita comunicare con la mia famiglia, soprattutto con mamma e papà. Mamma piangeva, ma lontano da me. Papà non capiva, e si arrabbiava. Nemmeno ora se ne parla... Quello che mio papà cercava di fare, per risolvere la cosa a modo suo, era farmi mangiare. Quello che provavo in quei momenti a tavola era dispiacere: non potevo mangiare quello che aveva preparato per me e mangiare non avrebbe guarito il mio dolore ma avrebbe fatto crescere il suo. Il suo impormi di mangiare era visto da me come un modo per farmi stare alle sue regole, che secondo i suoi schemi mi avrebbero salvata. Ma in quel momento avevo bisogno di seguire le mie regole. Purtroppo, più mi veniva imposto di mangiare e meno mangiavo, più mi ribellavo e più volevo stare sola.

Il mio atteggiamento era un modo implicito di chiedere disperatamente un dialogo con i miei genitori. Tante volte avrei voluto sentire un “come stai?” che arrivava invece solo da un compagno di classe. Il fatto che fosse un mio coetaneo esterno alla famiglia a parlarmi e cercare di capire il mio malessere mi ha magicamente fatto vedere che io ancora ero degna di essere amata nonostante le mie crepe. Volevo essere ascoltata e finalmente qualcuno mi vedeva e capiva che delle volte avevo bisogno di fermarmi e piangere magari, perchè andava tutto un po' troppo veloce per me... e infine ho scoperto che potevo anche piacere ed innamorarmi :)

Piano piano, con l'aiuto psicologico, sono riuscita ad alleggerirmi abbandonando i comportamenti nocivi per me e mangiare un po' di più. Inoltre la danza, che ho sempre praticato, ha giocato un ruolo fondamentale nella mia riabilitazione. Ho iniziato a vedere cosa il mio corpo mi permetteva di fare, piuttosto che la forma che avesse. La perfezione fisica a cui ambivo era diventata la ricerca del movimento perfetto, il mio corpo la possibilità che mi permetteva di arrivarvi.

Oggi il mio corpo è ancora un mezzo importantissimo che mi permette di vivere mille esperienze attraverso tutti i suoi canali che sono connessi alla mia psiche ed alle mie emozioni, che poi rivivo nella mia arte. Ho imparato invece a comprendere modi di comunicare diversi, come quelli dei miei genitori e della mia famiglia, di cui nemmeno mi sentivo più parte. In questo senso conoscere la mia nonna paterna da vicino è stato illuminante. Capire le origini di un linguaggio e chi ha educato mio papà mi ha aiutato a sentirmi più vicina a lui. In più apprendere la storia della mia famiglia (questa volta sia dalla parte materna sia paterna) mi ha aiutata a capire meglio l'identità della stessa. Conoscere meglio la cronologia precedente permette di ri-conoscere i lati che si sviscerano nel tempo, e dà la possibilità ai suoi protagonisti di avere un'identità, qualcosa di più grande di cui sentirsi parte, e questa era una cosa di cui avevo disperatamente bisogno. Tutt'ora con tutte queste informazioni cerco costantemente di tenere vivi i ricordi ed il senso di appartenenza all'interno della mia famiglia, ma anche di trovare sempre punti di incontro tra consapevolezza, sensibilità e futuro.