testo


Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

lunedì 21 dicembre 2020

Anoressia: una dittatrice

ANORESSIA: UNA DITTATRICE CHE USA LA MORTE PER VIVERE


XXI secolo.


A. continua a presentarsi per molti come l’unica speranza che può salvare dalla confusione totale.
Ogni anno milioni di persone, specialmente giovani, sono sedotte da A., dalla sua ideologia, dal suo carisma, dalle sue doti oratorie e dai suoi presunti successi. Quello che convince quando parla A. è soprattutto l'energia che riesce a trasmettere, un'energia e una fermezza di cui molta gente disorientata e impaurita sente un gran bisogno.
A. può avere successo solo quando l'avversario è debole.
I milioni di persone che votano A. non sono milioni di fanatici della moda, della dieta, della perfezione, ma in grandissima parte sono persone stanche ed esauste che vogliono sentirsi parte del mondo, avere la garanzia di un modesto benessere e soprattutto che non vogliono più sentirsi sbagliate. La violenta propaganda di A. per queste persone non conta, conta invece la promessa di riscatto e di mettere fine alla sofferenza che le soffoca e di cui si sentono responsabili. E A. non lascia nessun dubbio sul fatto che vuole eliminare non solo tutti i problemi, ma con loro anche il dolore stesso.
Però in realtà A. non ha la minima intenzione di creare una situazione stabile e ordinata, lo scopo di questa “luna di miele” è unicamente quello di preparare la guerra che A. vede come l'ultimo obiettivo della sua politica.
É difficile sottrarsi al fascino dei continui successi di A: “Avrà molti difetti, ma almeno mi ha riportato il controllo e la soddisfazione di riuscire in qualcosa!”
Ecco che però A. chiede al suo popolo l’impegno in una “guerra totale” di cui A. stessa vede solo due possibilità: o affermarsi come il più forte (tutto) o sparire dalla storia ed essere sostituito da un altro più “all’altezza” (niente).
E’ il suo test di selezione: vuole sapere fin dove può arrivare la forza dei suoi sudditi.
Tutto questo è talmente artificiale per il totale dirigismo statale e talmente gonfiato dalla smisurata produzione militare che può finire solo in due modi: o in un crollo verticale, o in una lunga e penosa sopravvivenza.
Nonostante inizialmente A. si proponga come capo di un governo di coalizione, si libera velocemente dei partiti alleati, per poi nel giro di poco accentrare nella sua persona tutto il potere, esautorando completamente la persona, e ponendo le basi per quel governo totalitario che assume il controllo di tutti gli aspetti della vita di una persona, senza concedere eccezioni.
Quindi o ci si adegua o si rischia veramente la pelle. Non si può fare a meno di seguirla perché sembra davvero l’unica strada perseguibile. È pericoloso contraddirla. Sembra un paradosso ma il prezzo da pagare sembra troppo alto, più della propria stessa vita.
A. per avere presa sui suoi sudditi non può lasciare loro tempo, ha fretta, deve liquidare la partita con urgenza maledetta: è sadica e fa loro pressione, condannandoli ad un tormento infinito invece di lasciarli vivere in pace. Come signora e padrona toglie loro libertà, spazio, tempo e fa loro fretta come se...non ci fosse più tempo, né speranza.

Sta qui il punto in cui io vedo l’anoressia come una tirannia che non ha tempo di aspettare e di attendere la tua crescita e la tua guarigione.


Laura

giovedì 10 dicembre 2020

Genitori e figli - Laboratorio 3 dicembre 2020

 

Siamo all’inizio di dicembre, un mese molto particolare per chi soffre di un disturbo alimentare
dovuto soprattutto al carico di stimolazioni che porta con se’. Aumentano i disagi, gli scontri, le
paure, il controllo. Quest’anno poi tutto è reso più difficile per la situazione della pandemia che ha
già influito pesantemente nella routine di ognuno di noi, ancora di più su una persona che soffre di
un disturbo alimentare. Dicembre porta in primo piano i legami familiari, lo stare in famiglia, il
rapportarsi con le persone a cui sentiamo di appartenere. I sentimenti e le emozioni vengono
vissuti più intensamente e diventa fondamentale poterli esprimere, riconoscerli, condividerli.
Ancora una volta, il laboratorio vuole rimarcare l’importanza del non essere soli, del non
rinchiudersi dentro se stessi poiché tutto ciò che resta dentro di se’ alla fine si ingigantisce e
diventa un peso troppo gravoso da sostenere. Stasera si è voluto riportare l’attenzione sul proprio
essere genitori. Si è così intenti ad osservare quello che i propri figli fanno e soprattutto non fanno
che non si guarda più ciò che fa parte della propria vita. Quante volte abbiamo detto: “ mia figlia/
mio figlio non sorride più, ha gli occhi tristi, non parla più con le sue amicizie”; senza pensare che
anche noi non sorridiamo più, anche noi abbiamo gli occhi tristi, anche noi non frequentiamo più i
nostri amici. Senza riflettere poi che a sua volta i figli vedranno i loro genitori rinchiusi nella loro
espressione di non vita e sofferenza. Ovviamente chi è che gode di tutta questa situazione? Il
disturbo alimentare, che con il suo potere manipolatorio ha saputo prendere a piene mani il
controllo su tutto. Anche se è difficile, occorre però incominciare a riportare l’attenzione su noi
stessi. Questo è un argomento che i genitori faticano a interiorizzare poiché risulta innaturale
dover pensare a se stessi quando i propri figli stanno male. Ma come viene spesso detto durante i
laboratori, è importante che la famiglia ritrovi un equilibrio, una stabilità che il disturbo alimentare
è andato a distruggere. Se da una parte abbiamo figli ossessionati dal cibo, dall’ altra parte
abbiamo un padre e una madre ossessionati dalla guarigione di essi. E ci si convince che non si
può essere felici, non si può essere di nuovo una famiglia finché il disturbo alimentare è presente.
Il problema è che la guarigione diventa così uno scopo ossessivo quando invece l’obiettivo
principale dovrebbe essere il recupero della relazione genitore/ figlio, di cui poi la guarigione non è
che una sua conseguenza. Spesso si dimentica che il disturbo alimentare è una malattia mentale,
e come tale è invisibile. Ciò che salta ai nostri occhi sono i sintomi che rimanda il corpo, ma
quando questi si manifestano, la mente in realtà è già stata intrappolata da tempo dalla malattia
poiché ha agito e ancora agisce invisibilmente ai nostri occhi. Ma se ci riflettiamo, anche la
guarigione compie lo stesso percorso. Ripeto. Il disturbo alimentare è un disturbo mentale e come
tale è invisibile. Così, come non l’abbiamo visto arrivare, non lo vedremo andare via. Questo per
dire che i genitori spesso vivono sentimenti di angoscia e paura poiché non riescono a vedere i
risultati di quello che è un percorso di cura. Infatti, hanno a che fare con un qualcosa di invisibile.
Ritornando a quello detto prima, se la malattia la vediamo una volta che si manifesta nel rapporto
insano col cibo ( ma in realtà era già presente nella mente da tempo) così ci sembrerà che la
guarigione ci sarà solo quando vedremo i nostri figli riavere un rapporto sano col cibo ( ma in
realtà la guarigione era già in atto da tempo). Per questo diventa fondamentale che i genitori
possano conoscere queste dinamiche, farlo da soli è impossibile. Inoltre, non possiamo
tralasciare l’importanza della terapia, sia psicologica che nutrizionale.
Il disturbo alimentare va a minare l’identità individuale. Il terapeuta va a scalfire gradualmente
quell’involucro di pietra che imprigiona la persona. Lo fa lentamente in quanto richiede tempo e
cura. Capiamo bene che tale operazione non può essere fatta da soli, non se ne ha ne’ gli
strumenti ne’ la capacità. Ma come si fa se la propria figlia o figlio non vuole intraprendere un
percorso di cura? Qui ritorniamo al discorso di prima riguardo al fissarsi sullo scopo della
guarigione dimenticando che questa in realtà è una conseguenza. Il vero obiettivo è recuperare la
relazione con i propri figli. I genitori sono una risorsa preziosa, l’esito positivo di un percorso di
cura dipende anche dal liberare le grandi risorse insite in loro. Spesso abbiamo parlato dello
sguardo ( c’è stato addirittura un laboratorio apposito “lo sguardo che cura”). Ma anche questo
sembra essere un concetto mistico, ideale, così astratto da non essere fattibile nella realtà. Si fa
fatica a comprenderlo, si fa fatica a crederci, si fa fatica a ricordarlo. Per far sì che questo
concetto incominci lentamente a riaffiorire nella pratica, una ragazza che ha vissuto il disturbo
alimentare ha riportato nuovamente la sua diretta esperienza sul ritrovato sguardo di suo padre,
avvenuto il giorno in cui lei stessa lo ha accompagnato alla fine della sua vita, avvenuta quattro
anni fa, dopo una lunga malattia respiratoria. La comunicazione verbale era impossibile a causa
della maschera d’ossigeno indossata dal padre, ma lo sguardo che si sono scambiati in quel
lungo e ultimo pomeriggio trascorso insieme è valso più di tutte le vaghe conversazioni che si
erano scambiati in tutta la loro vita. In quel momento, tutte le parti frammentate di lei è come se si
fossero ricompattate, donandole indietro una sensazione di interezza e unione. A distanza di anni,
questo sguardo torna a ripresentarsi, soprattutto nei momenti di difficoltà, riportandole
quella sensazione di totale amore che solo un genitore può provare e rappresenta la risorsa più
preziosa in ogni percorso di cura.
Un’altra ragazza ha raccontato di aver sempre sentito l’amore dei suoi genitori nei suoi confronti
dando per scontato che la amassero in quanto lei era la loro figlia. Un giorno, presentatasi a un
incontro di gruppo, è rimasta colpita dallo sguardo di quelle persone che lei stava incontrando
per la prima volta. Queste persone non la stavano guardando come una ragazza con una diagnosi
di anoressia cronica, ma la stavano guardando come una persona che stava chiedendo di
ritornare a vivere una vita vera. Questo ha fatto nascere in lei la voglia di riscoprirsi e abbandonare
per sempre l’etichetta identitaria che la malattia le aveva cucito addosso. Ora lo sguardo dei suoi
genitori le ricorda ogni volta la tanta bellezza e luce che è insita in lei, che con tanta fatica è
riuscita a far riemergere dopo anni di malattia.
Una mamma ha raccontato il difficile momento che sta attraversando. La figlia a breve terminerà il
suo percorso residenziale e farà ritorno a casa. Il periodo del dopo ricovero è sempre delicato
d’un tratto ci si trova nella realtà familiare perdendo quel senso di protezione e contenimento che
comunque si prova all’interno di una struttura. Purtroppo le è stato comunicato che la psicologa
che ha saputo creare un bellissimo rapporto con la figlia non la potrà seguire una volta conclusosi
il percorso residenziale, nemmeno privatamente come aveva richiesto la mamma. La continuità
della cura sarà quindi affidato all’ ambito territoriale, con l’inevitabile rifiuto da parte della figlia la
quale ha difficoltà ad aprirsi e affidarsi con un nuovo professionista. La preoccupazione da parte
di questa mamma è comprensibile e lecita poiché questo rifiuto di proseguire la terapia con la
stessa psicologa potrebbe avere delle conseguenze sui risultati ottenuti fino ad ora. In queste
situazioni diviene ancora più importante non rimanere soli ma uniti, far sentire la propria voce in
coro, infatti, come è stato scritto prima, i disturbi alimentari sono disturbi mentali e quindi invisibili.
Ma la persona non è quella malattia. La persona è ben visibile, come lo è l’intera famiglia. Questi
sono i momenti in cui il laboratorio diventa un luogo di scambio costruttivo in cui diventa
essenziale non focalizzarsi su ciò che viene a mancare ma, al contrario, dirigere le forze e le
azioni verso ciò che può venirsi a creare. Certo, nessuno di noi ha una bacchetta magica, ma
ognuno di noi ha un cuore...ed è inevitabile sentirsi uno parte dell’altro.


La frase della settimana: L’OBIETTIVO NON È LA GUARIGIONE.
L’OBIETTIVO È RECUPERARE LA RELAZIONE GENITORE/ FIGLIO.


martedì 1 dicembre 2020

La sofferenza dona - Laboratorio 17 novembre 2020

 

Il laboratorio di stasera è stato ricco di spunti di riflessione e condivisioni non facili da
approfondire in un contesto che non sia quello del laboratorio. Si è discusso molto della
sofferenza, soprattutto del confine che esiste tra il dolore del genitore e quello della propria figlia o
figlio che soffre di un disturbo alimentare. Tutto è iniziato con l’input ricevuto da condivisioni di più
familiari che purtroppo si sono trovati a vivere in questi giorni la dolorosa situazione di avere a che
fare con la non conoscenza del disturbo alimentare da parte del personale medico a cui si sono
rivolti. C’è chi si è sentito ancora rispondere che il comportamento della propria figlia non è che il
risultato di capricci, chi ha ricevuto sguardi giudicanti per l’aspetto fisico , chi si è sentita costretta
a rinunciare a un percorso terapeutico iniziato da 9 mesi per intraprenderne uno in sostituzione ad
esso con uno psicologo nuovo. Queste situazioni non dovrebbero accadere. Oltre a non fornire il
servizio di cura appropriato c’è la discriminazione verso queste patologie. È importante fare
qualcosa che vada al di la del reclamo in se’, e a tale proposito si è voluto ricordare l’impegno e
sostegno che ognuno di noi può mettere in atto firmando la petizione http://chng.it/FtSbHR5w
per far sì che che i disturbi del comportamento alimentare possano entrare a far parte dei LEA, i
livelli essenziali di assistenza sanitaria, e ricevere finalmente la dovuta considerazione e la cura
che meritano. Queste esperienze causano un dolore profondo nella persona che soffre di un
disturbo del comportamento alimentare. Non dimentichiamo mai che la malattia, anche se in
maniera non funzionale, è pur sempre una risposta risolutiva a un disagio interno che fa stare
male. Sentire certe parole pronunciate da persone che hanno un ruolo professionale nell’ambito
sanitario, è peggio del ricevere uno schiaffo in pieno viso. Lo schiaffo in un certo qual modo riesce
a destarti, a darti uno scossone, a farti sentire la pelle reagire al contatto della mano che ha
sferrato il colpo. Al contrario, certe parole vanno a minare la poca stabilità rimasta, l’effimera
identità in cui la persona che soffre di un disturbo del comportamento alimentare si è identificata.
Certe parole fanno male perché continuano a far sentire la persona malata invisibile agli occhi
degli altri. La propria sofferenza viene sminuita, non considerata, in certi casi addirittura derisa. La
reazione a tale atteggiamento non può che essere una chiusura totale accompagnata dal
desiderio impellente di abbracciare ancora più forte la malattia procurandosi dell’ulteriore male
fisico per cercare di attutire quel dolore che si sente dentro e sembra lacerare l’anima. Sembra di
vedere un animale braccato dalla paura.
Il genitore che si trova a vivere questa esperienza, prova l’impulso naturale di proteggere la
propria figlia o figlio dal provare certe emozioni. Questo però può essere in un certo modo “
pericoloso” poiché si priva la persona di fare esperienza dell’emozione stessa. Ancora una volta
dobbiamo ricordare l’ importanza di vivere le emozioni, indistintamente dalla loro connotazione
positiva o negativa, poiché permette di avviare il conseguente processo di elaborazione di quello
che si sta vivendo. Spesso si nutre l’idea che la guarigione debba avvenire in un contesto in
qualche modo ovattato, in cui nulla possa scalfire ulteriormente lo stanco sentire dei propri figli. In
realtà, non può esserci guarigione senza il vivere direttamente ciò che accade, soprattutto gli
eventi negativi. La consapevolezza non è mai un processo facile da mettere in atto, se lo fosse,
saremmo tutti consapevoli. E non è nemmeno l’immagine di luce e colori che di solito le viene
associata. Anzi. Per arrivare a veder l’arcobaleno, occorre partire dal nero più assoluto; da lì si
passa alle varie sfumature di grigio per arrivare al bianco. Ma non siamo ancora all’arcobaleno
poiché serve oltrepassare sia il nero che il bianco, che rappresentano poi il pensiero dicotomico
della malattia stessa: il tutto o il niente; il mangio o non mangio.
Il genitore che interviene per proteggere il proprio figlio o figlia dalla sofferenza che sta vivendo in
quel momento, ostacola questo passaggio essenziale. Non si procede più verso l’arcobaleno ma
si rimane invece fermi tra il nero e il bianco. C’è ovviamente una questione importante da chiarire.
Il desiderio di protezione che prova un genitore è un desiderio innato, impossibile da non provare
e proprio per questo non si può assolutamente lasciare che i genitori si assumano il carico della
sofferenza dei propri figli poiché ne uscirebbero entrambi annientati. E allora cosa bisogna fare?
Bisogna chiedere aiuto. Si ma se la propria figlia o figlio non vuole farsi curare? Ancora una volta
non dimentichiamo che il disturbo del comportamento alimentare è arrivato come soluzione a un
disagio, quindi risulta chiaro che la cura significa per loro togliere ciò che fino a quel momento ha
rappresentato apparentemente la soluzione. “E se mi togli la soluzione, di me cosa resta”?
Non è della “cura” che ha bisogno la persona che soffre di un disturbo del comportamento
alimentare quanto di una persona esterna e professionale che la stia ad ascoltare e comprendere,
anche e soprattutto nei suoi silenzi. La persona che soffre di un disturbo del comportamento
alimentare ha bisogno di essere vista. “ Come mai non sorride più? Che cosa ha spento la luce
nei suoi occhi? Che cosa è che la spaventa” ? La persona che soffre di un disturbo del
comportamento alimentare non chiede di essere curata, chiede di essere capita. Questo è
l’approccio al quale un genitore può orientarsi per affrontare con la propria figlia o figlio 

l’eventuale tematica di iniziare un percorso terapeutico. Sapere di poter trovare un porto in cui
attraccare. Un porto in cui riposare sotto la guida sicura di un faro che indica la direzione da
intraprendere una volta ritrovato le forze per riprendere il proprio viaggio.
Un papà ha raccontato con viva emozione quanto lui si sia sempre impegnato nel cercare di
vedere la parte sana della propria figlia. Questo lo ha aiutato a non confondere la sua sofferenza
con quella di lei. Anche se sono passati due anni dai momenti critici della malattia, questi ricordi
ancora suscitano in lui forti emozioni per quello che ha vissuto lui e l’ intera famiglia nell’affrontare
il disturbo alimentare. Significative sono state poi le parole che la figlia ha pronunciato durante
una terapia familiare” papà non mi ha mai trattato da malata, e questo mi fa sentire bene”..Queste
parole rivelano l’importanza di non identificare la persona con la malattia poiché questo ne
rafforza il legame distorto. Una mamma ha condiviso una sua riflessione sorta ascoltando le
diverse condivisioni. Ricordando anche lei il periodo di maggior presenza del disturbo alimentare,
non si era mai accorta di quanto la sua casa si fosse trasformata in quel periodo in una struttura
residenziale. Gli orari della giornata erano ben scanditi: accompagnare la figlia a scuola, andarla a
riprendere, tornare a casa e qui, convivenza totale con la malattia. Questa mamma però non ha
mai anteposto la sofferenza della figlia alla sua. Ha sempre tenuto ben distante i confini. E questo
sicuramente ha aiutato entrambe a veder ed elaborare il loro reciproco sentire e far sì che la figlia
si affidasse alla madre. Una ragazza ha condiviso un ricordo affioratole durante il laboratorio. Nei
momenti bui in cui la sofferenza della malattia era prepotentemente presente, lei sentiva il bisogno
di cercare i suoi occhi riflessi nello specchio per ritrovare in qualche modo quel contatto ancora
esistente tra lei e la sua parte più profonda che sentiva di star perdendo. Questi momenti hanno
rappresentato un passo fondamentale per la sua crescita. Un’altra ragazza ancora ha riportato
quanto si senta grata nell’ aver superato la malattia riconoscendo i tanti momenti di sofferenza
vissuti che le permettono ora di comprendere cose che prima non riusciva nemmeno a vedere.
Con emozione ha raccontato dell’esperienza di questi giorni. Accompagnando il suo papà a una
visita medica, ad un certo punto, guardandola con la sua espressione di amore, le ha detto: “non
sono preoccupato di invecchiare perché ci sei tu “. Se da una parte questo l’ha spaventata per
l’inevitabile trascorrere del tempo, dall’altra l’ha riempita di emozione e gratitudine poiché ora lei
può ricambiare finalmente la cura e l’amore che ha ricevuto in tutti i suoi anni di malattia, con
l’impegno quotidiano di trasmettergli la luce e la gioia ritrovata dopo anni di sofferenza.
La sofferenza non è la malattia. La malattia toglie, la sofferenza dona.
Anche i genitori possono riportare quella luce e gioia che il disturbo alimentare ha soffocato e
privato di ogni espressione vitale.


La frase della settimana è: LA SOFFERENZA DONA.

domenica 8 novembre 2020

Sotto la punta dell'iceberg - Laboratorio 4 novembre 2020

 

Il laboratorio di stasera è iniziato con una domanda precisa: “ Come gestire la rabbia che la
propria figlia manifesta in più occasioni durante la sua permanenza a casa e che fa sentire noi
genitori completamente messi ko?” Questa domanda in realtà rappresenta un aspetto importante
da non sottovalutare, il genitore funge da cuscino su cui scaricare ogni tensione ed emozione
repressa. E se questo da un lato è importante perché permette alla propria figlia o figlio di poter
esprimere e far esperienza della sua emozione, dall’altro lato occorre darne un seguito costruttivo
e non distruttivo. Il fatto di poter esprimere l’emozione è fondamentale perché nel momento
stesso in cui questa si manifesta, permette di ricevere un feedback istantaneo sulla presenza e
intensità dell’emozione stessa. Il poter riflettere su ciò che si smuove e si agita dentro di se’ è
importante. Il parlarne apertamente una volta che le acque si sono calmate, aiuta questo
processo di consapevolezza.
Spesso in un disturbo alimentare ci si sofferma a vedere solo la punta dell’iceberg, ovvero, ci si
ferma a guardare il cibo che non viene consumato, il cibo che viene ingurgitato, le abbuffate, i
digiuni, il continuo camminare su e giù....dimenticando tutto il sommerso che sta al di sotto e in
cui risiede la vera causa di tutta quei comportamenti disfunzionali dettati dalla malattia. Nel
sommerso vi è la sofferenza della persona, e anche la strada per ritrovare una comunicazione
diretta con lei. Ma cosa bisogna fare per non fermarsi alla punta dell’iceberg? In realtà, il disturbo
alimentare si diverte a fare un’amalgama di tutto quanto. Ruoli, identità, emozioni, pensieri, sono
tutti messi in un unico calderone ed è difficile distinguere cosa appartiene a chi. Spesso i genitori
finiscono col costruire la propria vita solo in funzione della malattia. Smettono di frequentare gli
amici, di uscire perché devono stare a casa altrimenti la figlia o figlio è solo, rinunciano alle
vacanze perché diventano un delirio, non si dedicano più a ciò che li fa stare bene perché si
sentono in colpa a provare benessere. Un senso di colpa che in ogni caso non ha ragione di
esistere perché i genitori NON HANNO NESSUNA COLPA del disturbo alimentare dei propri figli.
Sono malattie complesse perché la causa è sempre multifattoriale, colpisce tutti gli aspetti della
persona, in primis le relazioni familiari. Il disturbo alimentare gioca a far sentire la famiglia
impotente così da avere pieno controllo e potere su di essa. E in questa impotenza ognuno ne
esce vittima e perdente.
Ogni cosa si riduce a un continuo pensiero focalizzato su quello che può far stare bene i propri
figli, ciò che può aiutarli a guarire, a ritornare a vivere. Pensieri che si accavallano e che portano a
un loop ossessivo in cui alla fine ci si ritrova tutti invischiati in quell’indistinta amalgama
indifferenziata. Paradossalmente, se da una parte i figli manifestano la malattia attraverso la
messa in atto dei sintomi, i genitori rappresentano la malattia attraverso il pensiero ossessivo e
fisso su di essa. Tutti immobili, fissi e stagni davanti alla sola punta dell’iceberg.
Il percorso di cura, al contrario, necessita di quel lavoro interiore profondo che porta ad
addentrarsi nella parte sommersa di questo iceberg. I genitori in questo processo sono una
risorsa preziosa, ma per poter mettere in atto le loro potenzialità, hanno bisogno che qualcuno gli
mostri il gioco subdolo che la malattia ha messo in scena con loro. Il desiderio più grande dei
genitori è rivedere i propri figli liberi dalla malattia e spesso cercano in tutti i modi di spronarli
verso comportamenti più sani: “ dovresti cercare qualcosa che ti fa stare bene...ti stai
trascurando... non ti dedichi più ai tuoi interessi... non esci più con i tuoi amici... non vai più in
vacanza.....” .
Come da testimonianza di una ragazza che ha vissuto il disturbo alimentare, se questi stimoli
possono essere da una parte corretti, ci sono fasi della malattia in cui ogni cosa che viene detta
non viene recepita dalla persona che sta male; sia che sia un familiare a dirlo, sia che sia un
terapeuta. Tutto sembra scivolare via senza alcun effetto. In realtà, ogni parola, gesto,
comportamento viene registrato e al momento opportuno ritorna vivido in memoria. I genitori di
questa ragazza non hanno mai smesso di mostrarsi amorevoli, presenti, attenti. Nonostante le
risposte poco accoglienti della figlia, si sono sempre comportati da genitori, senza assumere ruoli
da terapeuta. Nel momento in cui lei stessa ha deciso di voler andare a vivere da sola, l’hanno
lasciata libera di farlo. Non si sono trasformati in controllori. La mamma non è mai andata a casa
di lei per verificare che mangiasse, che facesse la spesa, che si prendesse cura di se’. Nel week
end il papà non ha mai trascurato la moglie per trascorrere tutto il tempo con la figlia. Se decideva
di farlo, marito e moglie lo facevano insieme, di comune accordo. Sempre uniti, come coppia e
come genitori. Non hanno permesso alla malattia di prendere possesso dei loro ruoli. Il,disturbo
non è riuscito ad amalgamare tutto. Ognuno è rimasto genitore, marito, moglie, figlia. E ora che
questa ragazza è guarita ha potuto dire che ad aiutarla tanto è stato anche l’esempio che i suoi
genitori le hanno trasmesso.
Tornando alla metafora iniziale dell’ iceberg, che cosa può fare un genitore affinché la propria figlia
o figlia decida di addentrarsi nel sommerso senza rimanere immobile a fissare la punta dell’iceberg? Occorre dare l’esempio. Come? Affrontando il proprio iceberg. Anche i genitori sono
immobili davanti a ciò che vedono attraverso i loro occhi. Nel sommerso però c’ è ancora quel
uomo e quella donna che sognavano una vita serena, una famiglia unita e felice. E che ora invece
si trovano ad affrontare una malattia che gli ha portato via tutto, e che li fa soffrire, chiusi nel loro
dolore e impotenza. Ebbene, queste emozioni che provano i genitori sono le stesse emozioni che
turbano i loro figli. Entrambi sono intrappolati nella malattia, entrambi sono immobili davanti alla
punta dell’iceberg. Inconsciamente i genitori pongono richieste risolutive ai loro figli del tipo “ io
non posso essere felice finché tu stai male” e questo carica l’altro di una responsabilità che rende
ancor più dolorosa e difficile la situazione in se’. Ma, come è stato detto prima, la famiglia è una
risorsa preziosa. Perché possa avvenire un cambiamento, deve essere il genitore per primo ad
addentrarsi nel suo sommerso: “ Da quanto tempo non frequenta più i suoi amici? Da quanto
tempo non si prende cura di se’? Da quanto tempo non si dedica a ciò che lo fa stare bene? Ma
soprattutto, da quanto tempo non ascolta più i suoi desideri?”
Un papà ha condiviso la sua esperienza. Lui è sempre stato visto come un modello da seguire:
ottimi voti a scuola, un lavoro gratificante, una rete di amici intorno a se’. Un giorno ha deciso di
raccontare a sua figlia di quante difficoltà ha incontrato da ragazzino. Frequentava un giro di
amicizie un po’ ribelle, al liceo è stato bocciato, era la preoccupazione vivente dei suoi genitori.
Arrivato all’università ha però voluto fare qualcosa per se stesso, e ha cominciato a impegnarsi
sodo per realizzarsi, riuscendo a laurearsi con 110 e lode e svolgere il lavoro per cui aveva tanto
studiato. Dopo questa confessione, la figlia ora si rivolge spesso a lui per chiedergli di aiutarla
nei compiti. Il papà non è più il modello irraggiungibile con cui competere e confrontarsi, ma è al
contrario la persona che ha vissuto le sue stesse problematiche e che può capire veramente
come può sentirsi quando lei è in difficoltà.
Quando i propri figli attraversano i momenti di crisi della malattia, sembra che tutte le fatiche fatte
in precedenza non siano servite a nulla. Come se si ritrovassero di nuovo tutto da capo. Quando
si ricade nelle dinamiche del disturbo alimentare, sembra impossibile rialzarsi. Una ragazza ha
raccontato che a segnare veramente il suo percorso di guarigione sono stati proprio quei momenti
più difficili e bui della malattia, poiché è nella crisi più profonda che arrivano nuove
consapevolezze. Nei suoi ricordi vi è l’immagine di una bugna fatta nel frigo nuovo a casa dei suoi
genitori causata da una brutta litigata finita con uno scatto di rabbia in cui vi aveva sbattuto
contro una sedia. Quella bugna per lei è stata significativa poiché ogni volta che lo sguardo si
posava di su di essa, le ricordava immediatamente che lei non voleva più aver dentro di se’ quella
rabbia distruttiva.
Infine, una mamma è intervenuta confidando quanto quel senso d’impotenza provato in ogni suo
tentativo di contatto con la figlia, si sia trasformato grazie alla condivisione di tutte quelle
emozioni comuni a ogni genitore che sta vivendo o ha vissuto la stessa esperienza. Questo
accade perché viene naturale non fermarsi alle parole dell’altro, viene naturale addentrarsi nella
sua storia perché è come addentrarsi nella propria ... viene naturale non rimanere immobili davanti
alla punta dell’iceberg...perché quel sommerso lo si conosce .. se ne è fatta esperienza.

La frase della settimana è: IL PERCHÉ, È SOTTO LA PUNTA DELL’ICEBERG. 

 

 

domenica 25 ottobre 2020

E vivo...

Se la pioggia mi abbandona
Lascio che sia
un po' del mio pianto
A cullarmi la notte
Le sento le onde del mare
Che navigano sulle guance
le mie ciglia alla deriva
Le mie labbra
cercatori di amori liquidi
Se le lacrime scavassero il volto
Forse sarei più bella
Se la pioggia scavasse il corpo
Forse sarei più magra
È la luce che riflette nei miei occhi
che fa sembrare il mio dolore
Una lucciola nel buio
Sono una falena
Il mio lampione
Si chiama malinconia

---

È la malinconia
La tenera carezza
Che Mi sfiora il volto
E mi dice che non so più amare
È tra gli anelli della mia colonna vertebrale
Che si incastrano le mie paure
Se fossi foco arderei il modo
Se fossi amata non mi torturerei

---

Oh, se solo la malinconia che ho nel petto potesse tramontare ogni giorno così come tramonta il sole
ad ogni alba
forse
potrei riscoprirmi felice
e rinascere tra i monti e i cieli che ho sognato tanto
Ad agio
per ora
mi culla la notte
poggio il capo sul cuscino
ascolto il mio cuore battere
e mi sembra di poter esistere
Essenziale
mi accarezza il mio respiro
e vivo

---

Mi spogliai della pelle
per sfiorare con le dita la mia carne
Si deve scavare in profondità per trovare la radice del dolore
Per una carezza c'è bisogno di potersi sfiorare
ma il mio male non lo afferri
è leggero
è così leggero
ma nessun vento fa sì che voli via
Lo tengo con me
lo tengo stretto
soltanto per un altro po'.

A.

 

 

sabato 24 ottobre 2020

Ritrovare il "gusto" della vita - Laboratorio 21 ottobre 2020

 

Nel laboratorio di stasera si è cercato di approfondire la tematica su quanto un disturbo
alimentare incida nella vita di una famiglia che ne viene colpita. Ad un tratto ogni cosa cambia, la
quotidianità viene stravolta travolgendo l’intero nucleo familiare. Non si riconoscono più ruoli,
orari, non c’è più condivisione, dialogo, sorrisi. Tutto ruota intorno alle dinamiche manipolatrici del
disturbo alimentare. Spesso la famiglia non viene coinvolta in un percorso di cura ma viene
lasciata ai margini creando in lei ancora di più la sensazione di isolamento e incomprensione.
Questo ovviamente non aiuta poiché è fondamentale che ci sia un sostegno anche per coloro che
convivono con una persona che soffre di queste malattie. Come si è voluto evidenziare, occorre
partire dal comprendere il linguaggio del disturbo alimentare in quanto serve ad alleggerire il
grande carico emotivo e fisico che i genitori si trovano a sopportare. Il disturbo alimentare opera
in maniera subdola, si infiltra tra le pieghe di quella che una volta era la “normalità” e, senza
rendersene conto, impone le sue nuove regole. Molti genitori stasera hanno posto tante domande
inerenti a problematiche di non facile gestione e comprensione. È emerso che la prima difficoltà
che si incontra riguarda a come ci si debba comportare nelle varie situazioni che si vengono a
creare, soprattutto quelle che hanno a che fare con l’orario dei pasti. È giusto lasciare che la
propria figlia mangi da sola, isolandosi e non permettendo a nessuno di entrare in cucina per due
ore fino a quando il rituale del pranzo/cena non sia finito? Questa è una dinamica tipica del
disturbo alimentare che spesso si accetta per quieto vivere poiché contrastare tale decisione
sarebbe fonte di un conflitto continuo, però, come da testimonianza di un papà, non porta altro
che a potenziare ancora di più la forza rituale del disturbo alimentare. Che cosa si può fare? Agire
a piccoli passi ( come più volte menzionato durante i laboratori). Incominciare a riprendere il
proprio ruolo di padre e madre ( abbiamo ricordato ancora l’importanza di non trasformare se
stessi in terapeuti e la propria casa in una struttura residenziale). Questo significa iniziare a dettare
delle regole, che vadano a smuovere un poco quella zona confortevole in cui il disturbo alimentare
crea la ritualità e che risulta poi difficile da smantellare. Come ha evidenziato una mamma, non è
giusto che la famiglia venga privata del proprio spazio. D’altra parte, è necessario anche che ci sia
l’esempio pratico che mostra che non si è disposti a sottostare a certe imposizioni, questo aiuta a
far capire all’altro che si può tener testa alla malattia, rivelando che non è poi così forte e
invincibile come ama mostrarsi agli occhi di chi ne cade sotto il suo potere ammaliante e
incantatore.
A questo punto del laboratorio si è sottolineato l’importanza che non possono esserci risposte
univoche per ogni cosa poiché tutto dipende dalla situazione e dalla storia personale di ognuno. A
prova di questo, una mamma ha posto un suo dubbio riguardo al fatto che la propria figlia aveva
in un certo senso imposto un orario di cena e lei, per non andare a creare ulteriore ansia, aveva
accettato di adeguarsi a questo nuovo orario. Quindi aveva acconsentito alla malattia di porre la
sua regola? Anche qui occorre osservare la situazione. Quanto incide questo cambiamento sulla
famiglia? O meglio, questo orario comporta un sacrificio, stress, difficoltà organizzativa per gli altri
membri del nucleo familiare? Se la risposta è si, serve trovare un’alternativa affinché ci sia il minor
disagio possibile da tutte le parti, se al contrario questo non implica alcun problema, si può
andare incontro a questa richiesta per agevolare la tranquillità e diminuire il carico di ansia che tali
situazioni creano.
Un’altra mamma invece non sa come comportarsi con la propria figlia che, iniziato un percorso di
cura in una struttura residenziale, telefona piangendo che vuole tornare a casa. Cosa si deve fare?
Cerchiamo prima di tutto di capire chi è che parla. In una situazione del genere, emerge
prepotentemente la malattia che, sentendosi attaccata, cerca in tutti i modi di poter ritornare in
quel contesto per lei sicuro e di facile manipolazione come la casa. È chiaro che nelle lacrime c’è
la sofferenza della propria figlia, ma, ripetendo il concetto di prima, il genitore non può essere il
terapeuta. Quando si inizia un percorso di cura, queste paure sono le prime ad emergere ma
affinché si arrivi alla consapevolezza che è la malattia la causa dello star male ( e non è al
contrario la soluzione) occorre vivere pienamente queste difficoltà affinché si chieda aiuto ai propri
terapeuti, iniziando così a essere collaborativi, e non al contrario, rivolgersi ai genitori per ritornare
a casa e riavere il pieno controllo della malattia.
Una cosa importante da sottolineare è il fatto che accade spesso che i genitori nutrano alte
aspettative sull’esito di una cura, questo perché si ha la credenza che un disturbo alimentare dia
risultati evidenti fin da subito. In realtà questo non accade quasi mai poiché ci vuole tempo per
scardinare le dinamiche che il disturbo ha creato. Accade di frequente che il genitore non veda
segni di guarigione, anzi, a volte i sintomi appaiono ancor più evidenti. Ma allora a cosa serve la
terapia, il ricovero, lo psicologo, la nutrizionista se poi il sintomo rimane? Non è così. Ci sono tutti i
meccanismi di difesa che la malattia mette in atto che devono essere scardinati ma
contemporaneamente è necessario ricostruire tutto quello che la malattia ha distrutto.
Il disturbo alimentare, come spesso viene detto, rappresenta la soluzione a un problema divenendo
una sorta di stampella con cui camminare e con cui senza di esso diventa impossibile andare avanti.
Se pensiamo a una persona con una gamba malata che si sorregge su una stampella, è evidente
che non le si può togliere questo sostegno improvvisamente poiché cadrebbe a terra. Sono
proprio questi i momenti in cui c’è bisogno di supportare la famiglia affinché possa comprendere
quello che sta accadendo nella mente della propria figlia e riuscire a gestire meglio le proprie
emozioni e pensieri. Il laboratorio è nato con questo obiettivo.
C’è stata poi la domanda di una mamma la quale non riusciva a capire la decisione
contraddittoria della propria figlia che le aveva esplicitamente chiesto di poter essere seguita da
una nutrizionista per non sentire più la fatica di dover decidere ogni giorno cosa mangiare e
comprare, per poi ritrovarsi a vedere sabotare dalla stessa lo schema alimentare proposto. In
questa situazione, dov’è che si manifesta e opera il disturbo alimentare? Qui c’è la piena
rappresentanza dell’aspetto contraddittorio e dicotomico della malattia. Da una parte il bisogno di
addossare a una persona esterna la responsabilità di scegliere e dall’altra la paura di perdere il
controllo. In un disturbo alimentare ciò che si vede è il comportamento dell’altro ( che non è che la
punta dell’iceberg). Tutto il processo mentale che è alla base della malattia è invisibile agli occhi.
Nel momento che la persona chiede un supporto al nutrizionista, immediatamente compare la
malattia che comincia ad attaccare con una incessante e ossessiva serie di pensieri : “ Non vorrai
mica mangiare quello che c’è scritto? Guarda che poi non entri più nei vestiti. Poi gli altri
vedranno che sarai ingrassata......” Questi sono solo alcuni dei pensieri che ininterrottamente
occupano la mente di chi è affetto da un disturbo alimentare. Per questo è indispensabile che ci
sia la presenza combinata di un percorso psicoterapeutico che aiuti ad affrontare queste paure e
costruire contemporaneamente un rapporto sano e non conflittuale con il cibo. Intraprendere un
percorso nutrizionale senza l’accompagnamento di un altrettanto percorso psicologico non aiuta
perché lascia scoperta tutta la parte legata al pensiero ossessivo e al controllo.
In un’altra situazione un papà ha chiesto cosa deve fare per far sì che sua figlia non vada sempre a
camminare? Ripetiamo, ciò che è visibile in un disturbo alimentare è il comportamento, ma il reale
problema sta in ciò che è invisibile, ovvero nella mente. Non è impedendo di andare a camminare
che si ha la soluzione. Anzi, farlo rinforzerebbe quel modo di agire. E allora un genitore non può
fare nulla? Un genitore può cominciare a creare una comunicazione che non è più focalizzata sul
disturbo ( non hai mangiato, cammini troppo, sei magra, devi mettere su peso o devi dimagrire ...)
ma è diretta sulle emozioni, su ciò che fa stare male ma soprattutto, ricercare quelle sensazioni,
comportamenti, situazioni, contesti che fanno stare bene, che fanno emergere un guizzo di vita,
che creano anche una progettualità verso qualcosa che piace. Aiutare la propria figlia o figlio a
ritrovare il “gusto” della vita. Una mamma infine ha voluto riportare la sua esperienza di come,
dopo tante difficoltà, cadute, rialzate, ora sua figlia e’ pronta a riaffacciarsi alla vita, conscia di
quanto il percorso verso questa consapevolezza è avvenuto attraverso uno scontro diretto con se
stessa e con le persone a lei care.

La frase della settimana è: RITROVARE IL “GUSTO” DELLA VITA. 

 

lunedì 19 ottobre 2020

Cara malattia...

Cara malattia.
Cara amica mia.
compagna forte, determinata, sempre presente.
Senza chiedermi il permesso sei entrata nella mia vita,
mi hai convinta di non poter più vivere senza di te..
E invece, sotto quella sicurezza che mi promettevi si nascondeva una profonda voglia di distruggermi.
Ci sei riuscita, amica mia, mi hai rubato tutto.
Mi hai rubato momenti che non torneranno più.
Mi hai rubato tutte le emozioni che un essere umano può provare.
Mi hai lasciata nuda, debole, indifesa.
Mi hai voltato le spalle.
E ora io mi chiedo, è questo che fanno le amiche?

Cara malattia.
Cara amica mia.
Grazie.
Grazie per avermi resa quella che sono oggi.
Grazie per avermi insegnato ad essere forte.
Grazie per avermi fatto aprire gli occhi.
La tua presenza mi ha cambiata, ha cambiato chi mi stava accanto, ha cambiato la visione che ho del mondo, delle persone, la visione che ho di me.
Grazie di esserci stata ma, ora, non ho più bisogno di te.
Non voglio più vedermi attraverso i tuoi occhi,
ho capito che loro non dicono la verità.
Ora mi guardo e mi vedo.
Mi vedo bellissima.
Stai ridendo vero? lo so, non mi hai mai sentito dire questa frase.
O meglio, l'ho detta tante volte anche in tua presenza, ma non c'ho mai creduto.
E invece ora voglio urlarlo.

Cara malattia.
Cara amica mia.
So che certi legami non finiranno mai.
So che vorrai continuare a stare al mio fianco, ti conosco.
E sai che ti dico? te lo concedo.
Ma questa volta, le regole, le decido io.

M.

domenica 18 ottobre 2020

Cambiare in meglio

 

Saranno troppe le volte in cui mi chiederò “Perché proprio io? Perché proprio a me?”

Saranno poche le volte in cui saprò darmi una risposta, troppo, troppo poche.

Ma meglio io che la mia famiglia, meglio io che i miei amici, “perché non a me?”

 

Perché non a me?

Combattenti non si nasce, ci si diventa, ci si diventa con le sfide che la vita stessa ci pone, ci si diventa con la saggezza di affrontare le cose, di guadagnarsi la vittoria senza però non meditare la sconfitta.  Ci sono troppe cose che hanno un perché, troppe cose che non ce l’hanno, l’anoressia è una di queste. L’anoressia è uno dei tanti argomenti che ti fa sedere a tavola sconfitta, triste e frustata, quando, per tante altre persone, il momento migliore è proprio quello di sedersi a tavola e mangiare, mangiare tutto e di più.

Mi chiamo Chiara e ho 19 anni, vivo in un piccolo paesino situato in provincia di Benevento, sono già stata ricoverata una volta per anoressia e sono sotto rischio di esserlo di nuovo. Perché sì l’anoressia non ti guarda in faccia, non gli importa del tuo aspetto, com’è il tuo naso, la tua bocca, come sono i tuoi occhi, se hai amici o meno, a lei interessa nutrirsi di te, nutrirsi di “vita”.

Ti toglie tutto, a partire dalla tua “dignità” a finire di perdere perfino la tua identità ed essere quella soprannominata “Anoressica”

E si sa, quanto può essere dura perdere la propria identità, quella costruita e fortificata soprattutto con l’adolescenza, vederla cadere giù come un battito di ali, ti fa sentire sconfitta. Mattone dopo mattone costruisce una casa, forchettata dopo forchettata non fa guarire dall’anoressia, mettetevelo in testa, non si sceglie consciamente l’anoressia, è una malattia, e in quanto tale, non decidi tu di ammalarti. Mi farebbe davvero piacere farlo capire a chi non la pensa così.

Ho conosciuto questo nemico, nel 2019, ho passato il mese di giugno, mese per cui iniziano le vacanze, in un letto d’ospedale, pesavo 35 kg, sono uscita da lì con 40 kg, non il massimo, ma credevano che finalmente avrei potuto continuare il percorso riabilitativo da casa e invece non è finita così. Dai 40 kg, ho avuto un crollo, e sono finita a pesare 33 kg, attualmente ne peso 35 e sto continuando il percorso terapeutico con persone specializzate.

L’anoressia, ha bussato alla mia porta e io inconsapevolmente l’ho aperta. Perché sì, quando si tende a fidarsi della mente e del cuore, questo succede. L’anoressia vuole portarsi via la vita, il futuro, la bellezza e il piacere delle cose, soprattutto l’amore.

Ma non bisogna permetterlo, a volte non si riesce neanche ad esprimere tutto ciò che ci fa provare questo nemico così grande. È un po' come avere la testa continuamente in guerra, contro sé stessi. Ma sono sicura che un giorno, ritroveremo la nostra metà, ciò che eravamo prima della malattia, troveremo il coraggio di guardarla e cambiare. Cambiare in meglio… perché si può e si deve.

Chiara P.

sabato 17 ottobre 2020

Anoressia, ormai sei solo "passato"

Ciao Anoressia, ti ricordi di me?

E’ passato un bel po' dal nostro primo incontro. Sei arrivata silenziosa, quasi tanto da non farti notare. Poi pian piano hai iniziato a conoscermi, conoscere le mie paure, le mie insicurezze, le mie fragilità. L’hai fatto talmente bene che sei riuscita a farti spazio nella mia vita in pochissimo tempo. Ti sei appropriata di me.

Hai preso tu il comando e mi hai tolto tutto.
Mi hai tolto il sorriso. La gioia. La spensieratezza della mia giovane età. Mi hai tolto la libertà e la sicurezza. Il piacere di gustare una pizza, un gelato. Mi hai tolto gli amici, la famiglia. Mi hai tolto la danza!
Mi hai fatto credere di non avere bisogno di niente e di nessuno. Mi dicevi: “Puoi farcela anche così’, sola”. Mi hai illuso. Mi hai condizionato. Mi hai comandato, costringendomi a diventare come tu volevi.
Mi hai stancato talmente tanto da non riuscire più a vivere. Ho lasciato fare tutto a te.
Mi hai concesso solo inutili 39 kg, all’epoca forse non tanto inutili, e stavo morendo. Mi stavi uccidendo. Non solo fisicamente, ma nell’anima. Mi hai catapultato in un abisso talmente profondo e buio che non riuscivo a trovare più Francesca. Non la riconoscevo. La chiamavo, gridavo.. ma non rispondeva nessuno.
La tua voce nella mia testa era fin troppo alta per riuscire ad ascoltare altro. C’eri solo tu. Volevo solo te.
Ma quanto ho pianto per te. Quanto ho sofferto...
Ma sai una cosa? Ormai sei solo “passato”. Un passato doloroso, è vero. Ma rimani una cicatrice, incisa sulla mia pelle. Una cicatrice che talvolta prova a bruciarmi ancora, ma che alla fine perde ad ogni suo tentativo. 

Ti voglio ringraziare però...strano vero?
Ti dico GRAZIE perché mi hai reso più forte, più determinata a vincere le mie battaglie. Mi hai aperto la mente talmente tanto da imparare a conoscere la vera donna che è in me. Grazie perché con te, ho capito di essere imperfettamente perfetta. Di avere dei difetti e delle imperfezioni, che non sono punti deboli, ma caratteristiche che mi rendono diversa e quindi bella. Grazie perché solo dopo essermi rialzata, ho capito quanto vale il dono della vita. Quanto io sono preziosa nella mia semplicità.
Grazie perché ho imparato ad ascoltarmi e soprattutto ad amarmi.
Grazie perché mi hai impaurito talmente bene che nello stesso tempo mi hai donato il coraggio di chiedere aiuto. Grazie perché sconfiggendoti, il sogno di scrivere un libro e lasciare una parte di me e te come testimonianza è diventato realtà. E sai come l’ho intitolato? RINASCERE. Perché io sono rinata, come la primavera. Come la fenice. In fin dei conti non sei così potente come pensi di esserlo…
Ti dico davvero Grazie, per avermi tolto momentaneamente tutto perché mi hai ridato ciò che è il mio tutto. Mi hai ridato la fede e la speranza. Il coraggio e la fiducia di affidare e affidarmi in Colui che è la mia forza. Il mio porto sicuro. La lampada sui miei passi, la luce sul mio cammino. Mi hai ridato l’essenziale: Dio.
Non ti dimenticherò, ma ho scelto di essere felice sempre e di amarmi ogni giorno di più.

Ho scelto la vita ed ho vinto io. 

Spero tramite il libro e tramite questa piccola parte di me, di essere un aiuto per te che hai sofferto o stai soffrendo. Ti auguro di essere come una foglia d’autunno danzante ad un soffio di vento.
Chiunque tu sia, vivi bene. 

Francesca Crispo

 

martedì 13 ottobre 2020

Fogli(e) di vita

A chiunque legga le mie parole, dedico un saluto.
Scrivo in un momento in cui la mia vita è completamente assorbita dal disturbo alimentare. Nell’ultimo mese ho lasciato andare ogni mia difesa dando spazio ad un comportamento alimentare sregolato. Esso è la mia colpa, non la mia punizione.
Perché no, non mi sento indegna di vivere, no, non sono un demone torturatore di me stessa. Sono semplicemente una ragazza che ha deciso di riprendere le responsabilità della propria vita, vita di fronte alla quale si è spaventata, rifugiandosi in una modalità che conosceva da tempo. Troppo ‘facile’ pensare di essere malati e dunque deresponsabilizzarsi rispetto alla vita, dicendosi che se si è malati non si può mica fare l’ingegnere, o il medico, o l’avvocato.
In questo momento dar spazio a qualsiasi slancio alla vita è doloroso, che dico, dolorosissimo. Nonostante ciò io ho deciso, che è già qualcosa, di mettermi in una posizione tale da poter essere aiutata.
Questo è quel che mi riesce, questo è quel che mi resta. Timido accenno di luce nel buio notturno che vivo. È come se non ci fosse alternanza tra giorno e notte, solo le tenebre esistono.
Eppure sono ancora qui, respiro e sono in vita. Vita alla quale mi aggrappo e che in fondo in fondo difendo con le unghie e con i denti.
Questo è un messaggio di speranza per tutti coloro che credono che non ci sia fine al dolore. A voi dico di non smettere di crederci, di impegnarsi quanto più possibile in attività che possano arricchire la propria persona anziché continuare a distruggersi ‘tanto ormai..’.
Si può avere ogni tipo di aiuto esterno ma bisogna pur sempre mettere qualcosa di proprio, scegliere di non abbandonarsi alle sabbie mobili che sembrano farci affondare.
Anche se tutt’ora mi riesce difficile crederlo, la vita è un dono straordinario che però continua a metterci alla prova. Vivere vuol dire essere soggetti a cambiamento perché si naviga in acque mai ferme. Vivere è un divenire. Pertanto non combattiamo contro natura, non cerchiamo di far rimanere il proprio corpo fermo, immutato. Accettiamo e accogliamo il cambiamento con un pizzico di leggerezza in più.
Sgraviamo la testa e viviamo di cuore.
Questo è ciò che auguro ad ognuno di voi che, come me, soffre.
 
Federica

lunedì 12 ottobre 2020

Riprendersi la propria vita - Laboratorio 7 ottobre 2020

Il laboratorio di stasera ha ripreso l’argomento della paura che provano i genitori quando vivono un disturbo alimentare all’interno del contesto familiare. È emersa nuovamente la richiesta di aiuto su come affrontare quei timori che sorgono quando i propri figli tornano a casa dopo un percorso intrapreso in una struttura residenziale. Spesso si prova la paura di sbagliare insieme al desiderio di voler proteggere ulteriormente la propria figlia o figlio dalla sofferenza che la malattia porta con se’. Questo atteggiamento protettivo ovviamente non aiuta perché, come ha commentato una mamma, l’altra persona si sente come una bambola di porcellana ultra delicata e fragile. Si finisce così col vivere come se si camminasse sulle uova, sempre con quel timore di fare il passo sbagliato che genera tensione e ansia. Allora che cosa bisogna fare affinché si riesca a gestire meglio queste paure? Una mamma ha condiviso la sua recente esperienza in cui, grazie a un lavoro personale su se stessa, sta cercando di lasciare meno spazio alle proprie ansie cercando di prestare molta attenzione a distinguere e differenziare la malattia dalla persona. Questo la aiuta a ridimensionare gli eventi, ritrovando la calma e la capacità di gestire le sue emozioni, a beneficio della comunicazione e della relazione con la propria figlia. Tutto ciò ci ha riportato a riflettere e a constatare concretamente come sia possibile ritrovare quel profondo canale comunicativo che si è instaurato fin dalla nascita con i propri figli che rappresenta un nutrimento essenziale per vivere.
Un canale comunicativo in cui è fondamentale che ci sia anche la figura paterna in quanto il rapporto tra padre e figlia o figlio è essenziale per lo sviluppo e la crescita della persona, e proprio per questo non può essere trascurato.
Come è stato evidenziato dal laboratorio precedente, il genitore non deve trasformarsi in un terapeuta, così come la casa non deve diventare una struttura residenziale in cui vige il controllo e imperano le dinamiche della malattia. Al contrario, la casa deve essere il luogo in cui si ritrovano i propri affetti, i propri legami che possono essere liberati dalla gabbia che la malattia ha costruito tutto intorno a se’. Per farlo, è necessario recuperare il proprio ruolo genitoriale, abbandonando tutti quei sensi di colpa che accompagnano i genitori nel pensare di agire sempre nel modo sbagliato. Ci sono momenti della malattia che portano la persona che ne è affetta a non recepire nessun consiglio, nessun gesto, nessuna attenzione. Questo accade perché la persona quando si trova in questa fase non permette a nessuno di avvicinarsi a lei, inducendo l’altro a credere di sbagliare tutto. Ma non è così. Ogni cosa detta o fatta, anche se non viene ascoltata e recepita sul momento, rimane impressa nella memoria. Anzi. Come hanno rivelato le testimonianze di persone che sono guarite dal disturbo alimentare, in loro è ben vivido ancora adesso tutto quello che i loro genitori hanno fatto, consapevoli di quanto la malattia abbia invaso anche la stessa esistenza dei propri familiari.
È poi emerso il concetto della dipendenza legata al disturbo alimentare. Se da una parte si ha un vuoto interiore che necessita di essere riempito attraverso un uso spasmodico di cibo che anestetizza il dolore, dall’altra parte si ha un vuoto interiore che ha congelato ogni emozione e sentimento con l’illusoria sensazione di avere il controllo su ogni cosa. In entrambi i casi si sta cercando di rimediare a una sofferenza interna di cui il disturbo alimentare non è che la punta dell’iceberg. Il problema reale non è il cibo quanto il dolore che la persona prova e dalla quale cerca di proteggersi attraverso la malattia. Una malattia che non dimentichiamo, nelle fasi iniziali attraversa un momento di vero innamoramento del disturbo e che di fatto viene chiamata la fase di luna di miele. In questo periodo la persona finisce con l’identificarsi con la malattia tanto da non riuscire più a riconoscersi senza di essa. Per questo è necessario affrontare un percorso terapeutico in quanto serve andare a smantellare questa identità malata per costruire una nuova  identità basata su basi nuove, stabili, autonome.
Il genitore può essere di aiuto durante questo percorso riappropriandosi a sua volta del suo ruolo genitoriale e soprattutto ritornando a vivere la propria vita. Che non vuol dire dimenticarsi della propria figlia o figlio. Tutt’altro. Significa ritrovare quegli spazi propri in cui prendersi cura di se stessi o semplicemente di rilassarsi o svagarsi, poiché il dono più grande che possiamo fare a noi stessi e ai nostri figli è riprendere in mano la nostra vita.
Emozionante la testimonianza di una ragazza che ha condiviso il ricordo della malattia vissuta anche dalla parte del suo fidanzato il quale non si è mai lasciato manipolare dal disturbo alimentare ponendo di fatto molti paletti che in qualche modo le sono serviti per reagire. Grazie anche a questi, un giorno ha deciso di voler accompagnare il suo fidanzato a cena fuori, così si è preparata con cura, vestendosi tutta carina. Quel giorno, ha ricordato che la psicologa con la quale aveva parlato le aveva detto che oramai, dato che il suo disturbo era cronico, il suo destino non poteva che essere altro che andare in cura presso il servizio di salute mentale. Una volta seduta al ristorante, si è guardata intorno e ha visto che le persone vicino a lei erano serene e “normali”. In quel momento le sono tornate in mente le parole della psicologa e improvvisamente si è come rotto il ghiaccio vicino al suo cuore: anche lei era come quelle persone “normali” e non da salute mentale. In quel momento, ha cominciato a riprendersi la sua vita.


La parola della settimana è: RIPRENDERSI LA PROPRIA VITA.

 

Dare un nome alle paure - Laboratorio 23 settembre 2020

 

Stasera il laboratorio si è sviluppato intorno a una domanda principale: “Quali sono le paure che
i genitori provano quando i loro figli vivono un disturbo alimentare?

Sono state tante lerisposte arrivate. 

C’è la paura della comunicazione, o meglio, il terrore di dire sempre la cosa sbagliata. Una mamma ha voluto condividere quello che le è accaduto poche ore prima del laboratorio. Ricevendo la consueta videochiamata dalla propria figlia che si trova in cura presso una struttura, ad un certo punto “casualmente” sono comparsi i gatti di casa ( metto tra virgolette casualmente perché in realtà nulla accade per caso) ed è sorta spontanea la domanda della mamma “non ti mancano i gatti? Non senti voglia di tornare a casa?” Dopo una prima reazione aggressiva da parte della figlia, questa è scoppiata a piangere e la videochiamata è terminata con l’immagine di queste lacrime e un grande senso di colpa da parte della mamma per aver detto la cosa sbagliata e aver arrecato un’ ulteriore sofferenza alla propria figlia. In realtà, non c’è stato alcun errore. Anzi, quella situazione ha creato l’occasione per poter finalmente lasciar andare le emozioni tenute sotto controllo fino ad allora. Darsi il permesso di piangere vuol dire darsi soprattutto il permesso di avvicinarsi a se stessi, e ogni qual volta accade questo, lo possiamo considerare un dono prezioso. Un dono che porta a fare esperienza del proprio vissuto emotivo.
Un’altra mamma ha portato la paura che si presenta tutti i fine settimana quando la figlia fa rientro a casa dalla struttura residenziale. Questo ritorno viene vissuto male da entrambe le parti. I genitori sono spaventati non tanto dall’ arrivo di lei quanto dal sopraggiungere della malattia, la quale si è sovrapposta abilmente all’immagine della loro figlia. Questo li porta inevitabilmente a cambiare le dinamiche in casa che vanno verso un controllo costante. Il disturbo priva del ruolo genitoriale andandolo a trasformare in quello di pseudo terapeuta. Le mura domestiche non rappresentano più una casa ma diventa a sua volta una struttura residenziale dove ogni cosa deve essere controllata e seguita alla lettera. Ovviamente, tutto questo peggiora ancor di più i rapporti tra genitori e figli poiché la malattia li ha privati entrambi della loro identità allontanandoli sempre più l’uno dall’altro.
C’è poi la paura della porta chiusa. Spesso i propri figli si creano uno spazio protetto che è quello della loro camera. Quando vi si rinchiudono dentro, non vogliono essere disturbati ne’ vogliono che qualcuno entri senza il loro permesso. Tutto questo però si complica ulteriormente quando compare un disturbo alimentare. Ecco emergere tutte le possibili paure che la propria figlia/ figlio possa commettere qualche azione autolesiva dietro a quella porta. E il rapporto si trasforma in un duello estenuante che sfocia nella sfiducia e nel non comunicare più. Occorre riuscire a vedere al di là di quella porta che metaforicamente rappresenta la malattia. Dietro quelle urla, quei comportamenti aggressivi, quelle parole offensive si nasconde la loro angoscia più profonda che li ha portati a cercare protezione in una malattia come il disturbo alimentare.
Una mamma ha raccontato di quando un giorno in piena crisi per i comportamenti ossessivi che la figlia continuava ad avere, un’amica le aveva detto che lei non poteva aver alcun controllo su questi. Non poteva certo costringere la figlia a smettere o cambiare comportamento, magari legandola per impedirle di camminare ininterrottamente. Non era compito suo. Ha riflettuto tanto su queste parole. Finché una mattina, è entrata nella camera della figlia e, guardandola per la prima volta dopo tanti anni negli occhi, le ha dato spontaneamente il buongiorno ricevendo in cambio uno sguardo sorpreso e colmo di gratitudine. Per la prima volta la madre non aveva guardato il suo piccolo giro vita, o i suoi piedi che non stavano fermi. Non aveva fatto alcun commento a riguardo. Finalmente la madre l’ aveva vista come persona, e non come la malattia.
Un’ altra mamma ha raccontato che un giorno stava pulendo casa e a un certo punto le è venuto spontaneo aver voglia di cantare. La figlia, stupita di sentire la madre canticchiare in un modo gioioso, è uscita dalla propria camera per andare a vedere cosa accadeva. In quel momento madre e figlia si sono guardate negli occhi. Non c’era bisogno di alcuna parola. Attraverso quello sguardo si erano riconosciute. 

Entrambi i racconti rivelano che quando non si è intrappolati dentro ai propri pensieri, le proprie aure, riesce ad emergere quella comunicazione dalle radici profonde che lega genitori e figli a cui la malattia non riesce ad arrivare. Coloro che soffrono di un disturbo alimentare hanno spesso una sensibilità molto accentuata verso i gesti, gli sguardi, i comportamenti. Riescono a leggere ogni piccola sfumatura, tanto da percepire le paure che i genitori vivono. Ma anche loro si sentono in colpa per ciò che dicono e fanno ...e non riescono a comunicarlo a parole. È come se ogni emozione fosse congelata e non riuscisse a trovare espressione. Spesso ogni componente della famiglia si ritrova a convivere nella stessa casa in cui ognuno è chiuso e congelato nelle proprie inquietudini. Ecco che il controllo diventa la modalità per scongiurare l’angoscia di ciò che non si conosce. Ma allora come arginare queste paure? Innanzitutto occorre identificarle. Dargli un nome. Questo aiuta a depotenziarle, sgretolando a poco a poco la loro forza intrinseca. Spesso, come nel racconto iniziale, le paure portano a bloccare la comunicazione che diventa il perno centrale su cui ruota il pieno potere della malattia. Come detto più volte nei laboratori, il disturbo alimentare si nutre delle ansie sia di chi vive il disturbo sia dei loro familiari. Riuscire a dar voce e nome ai propri timori significa ridurre il potere manipolatorio del disturbo.
Sempre durante il laboratorio c’è stato il racconto di un’altra paura vissuta dai genitori: il concedersi una vacanza. Spesso ci si vieta di fare le ferie perché ci si sente in colpa di cercare di svagarsi quando la propria figlia/o al contrario si trova dentro una struttura residenziale per curarsi. Una mamma ha raccontato che questa estate è andata qualche giorno in vacanza in montagna dove finalmente è riuscita a rilassarsi un poco. Anche se aveva scattato delle fotografie, aveva deciso di non condividerle con la figlia per il grande senso di colpa che provava.
Anche altri genitori hanno ammesso di aver vissuto la stessa esperienza. Riflettendo su queste dinamiche è emerso che non è vietandosi di vivere che si aiutano i propri figli. Anzi. Loro apprendono maggiormente dai loro esempi piuttosto che dalle parole. E allora è venuto naturale domandarsi: “come si può pretendere che i propri figli si riaffaccino alla vita quando siamo noi i primi a privarcene?”
Bellissima la citazione di Gibran riportata da un papà. Ha esortato a ricordare che i figli non appartengono ai genitori. I genitori hanno il principale ruolo di educare. Se riflettiamo  sull’etimologia della parola e-ducare deriva dal latino e-ducere, che significa trarre fuori ciò che è dentro. La malattia blocca questo processo, diventa lei stessa quella metaforica porta dietro alla quale si trincera chi soffre di un disturbo alimentare. Tirare fuori ciò che si ha dentro spaventa.
Ma:


I vostri figli non sono figli vostri... sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita. Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni. Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri. Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti. L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo. Ma il genitore è come un arco. Il figlio è una freccia. Il compito del genitore è scoccare questa freccia e lasciare che il figlio possa volare libero nell’aria, sentendo vibrare scorrere dentro di se’ la propria vita.” 

Khalil Gibran


La parola della settimana è: DARE UN NOME ALLE PAURE.

 

 

martedì 6 ottobre 2020

Ho scelto la vita

Senza vergogna, senza paura, armata di coraggio e qualche lacrima.
Mi chiamo Martina e ho sofferto di anoressia.
Trovo la forza di dare coraggio a chi ne sta soffrendo, chi ci sta lottando.
L’ho amata, l’ho tenuta stretta a me, l’ho custodita. L’ho protetta tra le mie ossa, nella mia fragilità, mi sono identificata a lei, ho vissuto insieme a lei tre anni, insieme all’anoressia.
Mentre il mondo mi si chiudeva intorno, mi sono aperta a lei.
Poi ho chiesto aiuto. Ancora oggi non so come, ma mi sono aggrappata ad un raggio, ed ho scelto la vita.
Poi l’ho rifiutata ancora, poi l’ho ripudiata.
Mi sono creata un letto all’inferno e mi ci sono adagiata.
Ma non riuscivo ad impedire alla vita di farsi spazio dentro di me. Così l’ho ascoltata, per la prima, vera, unica volta.
Sono stati tre anni in cui mi sono quasi uccisa, mi sono odiata, mi sono messa a nudo con me stessa, con gli occhi spenti, un abisso dentro, ho attraversato il dolore e mentre tendevo la mano al domani poi facevo tre passi indietro.
Non posso spiegarlo, e forse non ci riuscirò mai.
Ho imbrogliato medici, psicologi, mia madre, mio fratello. Ma la vera menzogna l’ho sempre raccontata a me stessa, perché la verità faceva male. E la verità era che mi stavo negando un domani.
Poi, come dice una canzone, “non mi resta che allacciare un paio d’ali alla mia testa”, e mi sono sentita leggera, ho respirato l’aria e l’ho lasciata invadere i miei polmoni.
Ho scelto la vita.
E anche la vita l’ho maltrattata, l’ho ripudiata, l’ho insultata; mentre la pregavo di farmi spazio.
Così sono rinata. Per la prima volta nella mia vita sono riuscita a darmi un nome, un’identità che non si chiamava più Anoressia, ma si chiamava Martina.
E sono rinata, con tutto ciò che questo significa: ho imparato a camminare, a nutrirmi d’amore, a scoprire quali sono i miei limiti e quali gli orizzonti che voglio oltrepassare. Ho imparato a sognare, ad abbracciare, a urlare... a respirare.
Ho imparato a vivere, non solo esistere.
Certo, non è facile. Non passerà giorno senza che io non mi ricordi dei valori nutrizionali di qualcosa prima di mangiarlo, ma oggi lo mangio comunque e vaffanculo.
Non passerà giorno in cui non incontri le mie paure, perché ho imparato che ci sono alcune cose che se non le puoi sconfiggere devi imparare a conviverci, e non è segno di debolezza. Però oggi so come salutarle e passare avanti. Come farle addormentare.
Non passerà giorno in cui non mi ricorderò di tutto questo, perché è questo che mi ha reso ciò che sono oggi: che abbraccio la mia fragilità, la custodisco, perché è proteggendola che divento forte.
Ad oggi cammino verso il mio futuro, che non so ancora cosa voglio conquistare, ma mi ringrazio per essermelo concessa, un domani.
Ci saranno sempre momenti, occasioni, che mi riporteranno indietro: e io tornerò a visitare chi sono stata, e poi l’abbraccerò, la prenderò per mano e la porterò ad ammirare dove siamo arrivate e chi siamo diventate.
Non sempre mi apprezzo, però sto imparando a volermi bene. A riempire le mie crepe con i miei traguardi per ricordarmi che ce l’ho fatta. Ad accendere il sole che c’ho negli occhi anche di notte.
Ad oggi ti ringrazio cara Anoressia, perché mi hai fatto scoprire la vita. Mi hai fatto scoprire una persona, me stessa.
Non ti dimenticherò mai, mi hai lasciato cicatrici dentro, e scusa, ma ti lascio un passo indietro e io vado avanti. Verso dove ancora non lo so, ma sono sicura che sarà bellissimo e spaventoso come la vita che m’hai fatto esplodere dentro.
Abbiate paura, abbiatene tanta, fatevi male: perché, come un saggio dice, “è dal dolore che si può ricominciare”.
E niente vale quanto guardarvi allo specchio e volervi bene. Niente vale quanto essere fiere di voi.
Nonostante tutti i riflessi del passato, nonostante tutto.. ne vale la pena. Respirare. Sentirvi vive. Poter abbracciare vostra madre.
Mi chiamo Martina, e ho scelto la vita. Grazie.

Martina

 

 

venerdì 2 ottobre 2020

Risalire il pozzo

 

Buonasera, mi sono imbattuta in questa pagina e come sempre è stato un colpo al cuore. Ho letto meglio i temi che trattate e ho esplorato il blog tremando, ma poi ho capito che forse il vostro approccio è in realtà molto simile a quello che io ho sempre creduto che dovesse essere. Sono una ragazza, anzi donna per quanto mi faccia impressione dirlo, di quasi 36 anni con alle spalle un lunghissimo percorso di disordini alimentare chiamati a volte anoressia, a volte bulimia e a volte associati ai disturbi più sconclusionati. Dico "alle spalle" ma credo che in realtà si tratti piuttosto di una quasi pacifica convivenza, come quelle coppie stanche che continuano a vivere sotto lo stesso tetto ignorandosi e scendendo a qualche compromesso quando si incrociano per caso in salotto, una convivenza fatta di sensi di colpa e rimpianti che fuori di casa, con gli altri, si tramutano in sorrisi di circostanza e battute ironiche. Sai che non vi lascerete mai davvero e allo stesso tempo speri che un giorno l'altro si volatilizzi nel nulla.
Ho lottato tanto, credo. O almeno così mi dice chi ha assistito a parte di questa battaglia o che ha sentito la storia raccontata da me come se accadesse a un'altra persona, lo racconto piena di tatto e speranza per non far paura a chi mi sta di fronte, non voglio urtare la loro sensibilità o farli sentire in obbligo di dire la cosa giusta, non voglio che sentato il mio dolore e non voglio che me lo ricordino.
Ovviamente ho seguite diverse terapie e ho incontrato anche brave persone, poi ho capito che il blocco dentro di me persisteva ma potevo aggirarlo e vivere quasi normalmente, ho scoperto le piccole gioie, ho imparato a prendermi cura di me ad amare e a pensare all'esistenza di un futuro. Io maniaca del controllo che però non ero in grado di vedermi dentro ad alcun progetto.
Ci sono cose che ancora mi fanno paura, comportamenti evidentemente disfunzionali, sintomi che ricompaiono a caso e che ormai più che farmi male mi stupiscono e allora stop, prendiamo un bel respiro, ricordiamoci del tempo che ci hanno rubato e mettiamo il sintomo da parte a fissarci per un po' per poi nascondersi chissà dove dentro questa testa confusa.
Ho detto tempo rubato perché il mio più grande rammarico è questo, non le ore perse a contare calorie o ad abbuffarmi e poi cercare di ributtare tutto fuori fino a sfinirmi. No. Io rimpiango tutte le cose belle, perché sono sicura che ne sono successe, che sono accadute nei 13 anni più bui e di cui io non ricordo nulla. Nulla. Così concentrata a tentare di distruggermi e poi a tentare di sopravvivere e via di seguito in un circolo vizioso tragicomico. I disordini alimentari come tutti i disturbi mentali ti prosciugano e anche se troverai la forza di andare avanti e costruirti una vita avrai sempre perso qualcosa. Ma anche guadagnato. Conosco la sofferenza e la rispetto, rispetto il prossimo e so che le parole possono uccidere più di una bomba perché lo fanno piano e in maniera continua e alla fine non muori ma vorresti farlo. Questo vale più di tutti gli esami superati e di tutti i traguardi raggiunti.
Ho scritto di getto, senza un motivo forse, spero di trovare un giorno il modo di poter dare letteralmente una mano a chi è in fondo al pozzo a risalire, almeno un po' e le parole in questo senso hanno un grande potere, di ferire quanto di salvare.

Laila

martedì 29 settembre 2020

Ciao Anoressia.

La guardo. Da lontano. L’ascolto. E mi fa ancora paura. Sento che ha ancora potere. Che è ancora forte. Ma la tengo a bada. So riconoscerla. Bussa forte quando sono fragile. Quando ho più bisogno di lei. Lo sa. Lo avverte. Lei lo avverte, sempre. Eppure non mi lascio ingannare. Ho raggiunto il mio equilibrio.
Quella voce è seducente. Mi affascina ancora. In lei posso ripararmi e sentirmi piccola. Ma io non sono più piccola. È ora di accettarlo. Devo andarmene. Scappare da lei. Allontanarmene. Lasciarla scivolare, urlare, se vuole, ma non ascoltarla. Io, questa volta, devo crescere.
Ma lei è lì. Mi scruta. Mi osserva. Ne sento i suoi occhi. Riconosco il suo calore. Quello che sa proteggere. Stringere. Soffocare.
Sei tu che mi parli ancora? Perché vuoi ancora me? Perché non te ne vai del tutto?
Ti ritrovo in quella foto. La mia. La tua. La nostra. Porto il tuo volto. Tu porti il mio dolore. E mi viene da piangere. Mi fa ribrezzo quell’immagine. Negli occhi spenti riconosco la tua voce, lo strazio, l’esasperazione.
Il tuo pensiero mi fa tremare. Ma sono qui. E sono viva adesso. Ora che so dirti di no. Ora che so farti tacere. Ora che voglio crescere, nonostante la paura.
Non te ne vai eh. Resti lì. Immobile. Ti vedo. Ti sento. Aspetti. Vuoi colpirmi ancora. Non accetti la sconfitta tu. Non sai perdere la battaglia. Ma io, adesso, non mi vergogno più. Ti porto dentro. Conservo le tue parole. Le riascolto, quando ho voglia. Perché mi fa ancora bene farmi cullare da te. Sei ancora protezione. Porto sicuro delle mie insicurezze.
Ma non mi vergogno più di te. Lo grido al mondo che ci sei stata. Che ci sei. Che ci sarai. Perché lo sappiamo entrambe che non te ne andrai mai. Sarai il marchio di una vita che sta imparando a cavarsela senza te. Adesso ho capito che posso salutarti, tenendoti con me. Allontanarti pur avendoti. Sei mia ma non ti appartengo.
Ciao Anoressia.

Giovanna De Marco

martedì 15 settembre 2020

Ciao Malattia

Ciao Anoressia, Ciao Malattia,
è un po’ che ci siamo perse, ma non posso negarti che ancora oggi, a distanza di pochi anni, porto ancora dentro di me ogni attimo e sai perché lo faccio? Perché tengo tutto vivo? Perché voglio ricordar(mi) quella che ero insieme a te. Ci sono persone che si distaccano dal proprio passato, lasciandoselo alle spalle e basta, mentre io no, anzi ti dirò di più, io me lo porto sulle spalle, con tutto il suo peso e senza provare vergogna. Questo non vuol dire non voler andare avanti, no, ma è un mio modo per averlo sempre sotto agli occhi. Perché tu eri punizione, illusione, mi hai fatto perdere anni, oltre al peso e all’ appetito. Mi hai illusa facendomi credere che non avevo bisogno di nessuno, di niente, che mi dovevo bastare da sola. Mi hai fatta vergognare di com’ero e di come stavo diventando. Mi hai fatto credere che andava tutto bene, che stavo bene e se stare bene era non riuscire a guardarmi, a non avere le forze per andare a lavorare e non ridere, allora avevi ragione. Mi hai fatta concentrare solo su di noi, un mondo parallelo, Tu ed io. Tutto girava intorno al desiderio del nulla, un’anestesia totale.
Però sai cosa? Hai presente la mia famiglia? Quelli che cercavano di parlarmi e di farmi capire che c’era qualcosa che non andava? E i miei amici? Si, proprio loro, coi quali non uscivo perché mi vergognavo, loro uscivano per mangiare un semplice e banale gelato, ma Tu il gelato non me lo concedevi mica! Loro non se ne sono mai andati. Ed è grazie a loro e a tutti quelli che mi hanno aiutata che sono qui oggi a scriverti. Di chi guardava da lontano senza poter fare molto, di chi mi guardava negli occhi e vedeva un sguardo spento, affamato di cibo e di vita. La sofferenza di chi mi stringeva a se, ma con la paura di potermi fare male e di chi mi parlava pesando ogni singola parole perché aveva il timore di dire qualcosa di sbagliato. Eri al mio fianco costantemente, ma non facevi male solo a me.
So anche un’altra cosa, cara Anoressia, so cosa vuol dire quando niente può tirarti su, quando tutto è facile a parole. Ma come lo spieghi agli altri il dolore che provi, il vuoto e l’eco che si infila nei timpani? Oggi lo so.
Se ripenso a quei momenti vedo una me piena di angoscia e dolore. Oggi ti dico “Grazie”, si, ho un grazie anche per te. Grazie perché ho capito il valore della vita e che tutti noi siamo fatti per rifiorire.
Ma adesso parlo anche a tutti voi. Care Amiche, Amici, Genitori, Parenti, tutti Voi, lottate sempre e non
mollare mai, vi assicuro che la vita senza la “Cara Anoressia” è bellissima. Che io, voi, noi, tutti siamo fatti per cose grandi.
Grazie. Grazie alla mia famiglia, ai miei amici, a tutti coloro che c’erano, ci sono e ci saranno. Ma grazie anche a me stessa, per la forza e il coraggio, il sorriso e la solarità che avevo perso ma che ho ritrovato più viva che mai. Un grazie alla vita, alla mia vita di adesso e a tutti coloro che ne fanno parte.
Ci vuole coraggio a dire: “Ho bisogno di aiuto. Sto male.”

Francesca

lunedì 14 settembre 2020

Amore rivelato - Laboratorio 9 settembre 2020

Stasera sono emerse tante tematiche, e anche tante emozioni. Il laboratorio si è arricchito di nuovi genitori, i quali, essendo per loro la prima volta, hanno preferito stare in ascolto. Siccome non sono sorte domande specifiche, si è cominciato cercando di dare un quadro generale di tutti gli argomenti affrontati nei laboratori precedenti, iniziando con il trattare lo spinoso argomento riguardo la cura. Non è sempre detto che i professionisti con cui si viene in contatto siano sempre preparati sui disturbi alimentari. A volte può capitare che manchi una formazione specifica su queste malattie, che vengono classificate come disturbi psichiatrici da curare strettamente con l’uso di farmaci. Sia ben chiaro, nessuno è contrario all’uso farmacologico. Anzi. Ci sono situazioni in cui la persona che soffre di un disturbo alimentare non riesce da sola ad avere la forza necessaria per iniziare un percorso psicologico. Il farmaco in questi casi permette di approcciarsi ad un lavoro interiore personale, un rimedio per così dire temporaneo, o comunque diminuito gradualmente, per far sì che la persona sia in grado di avere gli strumenti e l’energia necessaria per continuare la terapia senza il supporto farmacologico. L’aspetto che non deve mancare in un percorso di cura è l’essere visti nella propria individualità, senza essere catalogati in una malattia che spesso è affiancata a comorbidita’ che inevitabilmente sorgono e fanno sentire la persona richiusa in un quadro di disturbi psichiatrici che l’allontanano dal riconoscere la propria identità al di là del disturbo. C’è bisogno del contatto, che non deve essere per forza fisico. Un
contatto che riporta all’ essere riconosciti nella propria sofferenza. Una sofferenza che usa il corpo er manifestarsi, ma che si nasconde nella parte più profonda e intima della persona.
Come è avvenuto in un laboratorio recente, si è cercato poi di rifocalizzare l’attenzione sull’importanza dello sguardo. C’è uno spazio in cui la malattia non può avere accesso. È quello spazio che la relazione ha creato ancora prima della comparsa del linguaggio della propria figlia o figlio. Si riferisce a tutti quei momenti in cui la comunicazione avveniva attraverso gesti, sorrisi, contatti visivi, in cui ognuno sentiva di appartenere all’ altro. Contro questo tipo di relazione la malattia non può avere presa, e non trovando nutrimento, non riesce ad attecchire. Ma come si fa ad arrivare a recuperare quello sguardo? Indebolendo la forza della malattia. Con quali mezzi?
Incominciando a imparare a differenziare la parte malata dalla parte sana che sono racchiuse entrambe all’interno della propria figlia o figlio. Riuscire a distinguere quando parla la malattia da quando parla la parte sana semplifica e fa capire al genitore come può rispondere a tali linguaggi.
Inoltre, è importante andare a tagliare lentamente il cordone ombelicale tra genitori e figli che nel frattempo il disturbo alimentare ha rafforzato. Chi soffre di queste malattie spesso ha paura di crescere, una paura che viene accompagnata da sentimenti di grande disistima. Si rifiuta di avere responsabilità proprio per non andare incontro alla sensazione di sentirsi incapaci. Così si cerca di rifugiarsi dentro a un corpo non cresciuto o al contrario, avvolto in un involucro ingombrante per proteggersi in qualche modo dal contatto con l’esterno. Ed è qui che il cordone ombelicale viene a rafforzarsi poiché si investe il genitore di ogni responsabilità, mettendosi così al riparo dal pericolo di dover scegliere per se stessi. Cercare di stimolare la propria figlia o figlio verso piccole azioni autonome ( es pagare le bollette, spazzolare il cane, comprare il giornale...) è un piccolo modo per cercare di dare loro un compito e incominciare a renderli indipendenti. Inoltre, è importante anche riuscire a far riemergere quelle passioni che la malattia ha soffocato, ad esempio la fotografia, il disegnare, il creare composizioni floreali....
Si è poi ritornati sul concetto dell’ imparare quotidianamente a distinguere le richieste che provengono dalla malattia dalle richieste che provengono dalla parte sana. Le prime ovviamente non vanno ascoltate, poiché non fanno altro che aggiungere potere al disturbo. Un esempio banale per spiegare questa dinamica può essere la situazione in cui la propria figlia o figlio fa esplicita richiesta che in casa vengano comprati solo determinati cibi perché questo li fa sentire più tranquilli. Che cosa succede di solito? Per quieto vivere, la famiglia accetta tale richiesta. Ma in realtà a chi si ha dato vittoria? Immaginiamo che i genitori invece di acconsentire, si rifiutino e placidamente rispondano che quei cibi non smetteranno di essere comperati poiché sono cibi che non hanno ragione di non esserci e siccome l’ansia è originata dal controllo imperante della malattia, loro non vogliono più esserne succubi. Questo sicuramente scatenerà rabbia, conflitto, portando alla bocca parole offensive e accusatorie, seguite magari anche da porte sbattute. In realtà cosa è appena accaduto? È successo che non si è dato ascolto alla malattia e quest’ultima ha reagito mostrando tutta la sua violenza. Successivamente, una tale reazione porta a delle elaborazioni importanti in quanto si è data dimostrazione che la malattia può essere contrastata; oltre ad evidenziare quanto questa ponga limiti estremi alla propria e altrui libertà. Ovviamente, tali esempi sono generalizzati. Ognuno deve poi valutare la propria situazione personale, il livello emotivo di quel momento. Ma è importante comunque iniziare a fare esperienza nel differenziare le due parti che agiscono spesso in contrapposizione. Senza aver paura del conflitto che si può generare poiché è impossibile che si verifichino dei cambiamenti se tutto rimane uguale e ci si comporta sempre nella medesima maniera.
È stata affrontata anche la delicata questione in cui, durante un percorso terapeutico, si assiste al ritorno di certe dinamiche che si pensava si fossero superate: un aumento delle abbuffate, o della restrizione, o di attività motoria. Spesso quando capita questo è perché in terapia si sta andando ad attaccare qualcosa di importante che fa emergere nella persona un meccanismo di difesa che questa ultima cerca di risolvere riprendendo le dinamiche di controllo dettate dal disturbo alimentare. Ovviamente, questo suscita nel genitore ansia e apprensione che lo induce a mettere ancora più in luce il disturbo con parole del tipo “ ecco, sei ritornata/o a restringere. Non è servito nulla quello che hai fatto. È stato tutto inutile”. Queste parole, oltre a creare nell’altro la sensazione di non essere visto, vanno a bloccare l’elaborazione necessaria per comprendere che si sta mettendo in atto un modello del passato usato per risolvere i conflitti. Da questa importante elaborazione ne consegue la decisione autonoma di assumersi la propria responsabilità, cambiando il modo di gestire le avversità. Anche in questo caso, è fondamentale conoscere e capire il percorso che la propria figlia o figlio sta affrontando. Occorre prestare attenzione a tanti piccoli particolari che si rifanno alla propria storia ed è evidente che in tutto
questo il genitore non può essere lasciato solo. Ha bisogno di avere un sostegno, uno specchio esterno che possa fargli vedere e far comprendere tali dinamiche.
A questo punto si è ritornati all’importanza della relazione tra genitori e figli. Emozionante il racconto di una persona che ha raccolto in questi giorni la confidenza ricevuta da parte di una figlia la quale gli ha riportato la sua sofferenza nell’essere pienamente consapevole di tutto il dolore inferto ai propri genitori e della sua incapacità di mostrare loro il suo affetto. Lo ha confidato attraverso un pianto che si sentiva che proveniva dal cuore. Un pianto che rivelava tutto l’amore che nutriva per la sua mamma e il suo papà. Qui si è collegata l’esperienza da parte di un’altra persona che, avendo vissuto il disturbo alimentare, ha raccontato di quanto la malattia non le aveva permesso per molti anni di accorgersi di tutto l’amore che i suoi genitori cercavano di trasmetterle ma che lei, imbrigliata dentro la malattia, non riusciva a sentire e vedere. Oggi è orgogliosa di esserci riuscita e di constatare quanta bellezza e amore ci sia nella sua vita. Un’altra persona ancora ha voluto portare la sua esperienza parlando del rapporto molto conflittuale con il proprio padre che lei aveva accusato per anni per non essere riuscito a darle la protezione che voleva. Il rapporto con la madre, al contrario, era basato su un senso di colpa per la situazione che si era venuta a creare a causa del disturbo alimentare. Dopo anni di terapia è riuscita a guarire dalla malattia, e anche a sanare i conflitti con le figure genitoriali. Molti anni dopo la guarigione, questa persona si è trovata ad accompagnare suo padre nell’ultimo giorno della sua vita. Lei gli teneva la mano. Lui, con una grave patologia polmonare, non era in grado di parlare, ma non ha
mai distolto lo sguardo da lei, e lì, in quel momento, entrambi sono riusciti a comunicarsi tutto quello che non erano riusciti a dirsi in tutti gli anni vissuti insieme. Hanno comunicato attraverso quel linguaggio che non era fatto di parole, ma che sapeva mettere in contatto due anime che si erano cercate da molto tempo. Quello era stato il loro ultimo e profondo saluto. Poco dopo, il padre chiuse gli occhi per sempre. Prima di andare via, lei gli si avvicinò e vide una lacrima sul viso di lui. Raccolse questa lacrima, se la strinse al petto, sentendo che quello era stato l’ultimo grande gesto e dono di amore di suo padre.
La frase di questa settimana è : L’AMORE RIVELATO.

 

martedì 1 settembre 2020

La forza dell'essere fragili - Laboratorio 26 agosto 2020

 


Questa volta iniziamo con una piccola premessa riguardo il laboratorio di questa sera: è stato di una intensità unica, che spero di non rovinare troppo cercando di tradurlo in parole. Abbiamo iniziato descrivendo sommariamente come il disturbo alimentare si muova sapendosi infiltrare all’interno della vita di una intera famiglia. Il disturbo alimentare è così abile da cucire nel tempo uno specifico abito confezionato su misura per ogni individuo con cui si trova in contatto, un abito che ben presto si trasforma in una sorta di camicia di forza da cui poi ci si trova impossibilitati a liberarsene. È stata affrontata questa tematica perché è sorta la richiesta di poter in qualche modo delineare quelle che sono le dinamiche della malattia per poter capire come questa agisca e quindi cercare in qualche modo di non trovarsi completamente impreparati nel doverla affrontare.
Ovviamente, nel descrivere queste dinamiche non possiamo credere di riuscire a imbrigliare il disturbo alimentare in una sorta di classificazione standard poiché la sua complessità risiede proprio nel fatto che si sviluppa ed evolve attraverso la storia di ogni singola persona coinvolta.
Questo però non vuol dire che non si possa fare nulla. Anzi. Il ruolo dei genitori è molto importante poiché è attraverso le relazioni familiari che il disturbo alimentare si diverte a intessere la trama del suo gioco. Essere consapevoli di questo permette di poter sorprendere la malattia non facendosi soggiogare dai suoi meccanismi perversi. Come? Partendo da se stessi. I genitori, allo stesso modo dei figli, non riescono più ad avere una vita propria. Tutto ruota intorno alla malattia. Come il disturbo riesce ad appropriarsi dell’identità della persona che ne soffre così si appropria dell’identità dei rispettivi genitori. E ogni cosa smette di avere una valenza reale conformandosi a quelle che sono le lenti distorte della malattia. Quindi da cosa si può partire? Sembra banale dirlo ma si può agire cominciando a prestare attenzione alle parole che usiamo. Le parole sono il mezzo attraverso le quali noi costruiamo i nostri pensieri, pensieri che poi coinvolgono le nostre emozioni e da qui i relativi comportamenti. Quante volte capita nella giornata che i genitori parlino del cibo, dell’ attività fisica, della passività che incombe in tutto quello che è inerente alla propria figlia o figlio? Innumerevoli volte. Ci rendiamo conto che questo non aiuta perché fa si che la malattia sia sempre presente in ogni momento e soprattutto si stabilizzi indisturbata tra le pareti domestiche. Cominciare a fare attenzione alle parole che si usano, permette di darsi la possibilità di modificarle andando così ad agire direttamente sui pensieri. Sembra un passaggio scontato, ma non è così. È essenziale spostare l’attenzione dalla malattia al linguaggio che compare durante la giornata; questo serve anche per allontanare la tensione e l’energia che la malattia mette in circolo all’interno della propria casa. Un papà ha portato la sua testimonianza raccontando quanto il suo rapporto con la figlia sia cambiato dal momento in cui ha smesso di imporre il controllo e la sua costante insistenza nel dover iniziare un percorso psicoterapeutico.
Comprendendo certi meccanismi del disturbo alimentare, questo papà ha cominciato a modificare il suo approccio autoritario riscoprendo un dialogo che lo ha riavvicinato a riconquistare la fiducia e a non essere più visto come un nemico. Se questo ha effettivamente da una parte migliorato la relazione, dall’altra parte non ha risolto il voler intraprendere una psicoterapia, poiché sappiamo benissimo che da queste malattie non si può guarire da soli. E allora che cosa si può fare? Si deve rinunciare? Assolutamente no. Occorre continuare a sviluppare sempre di più la relazione andando a creare un dialogo improntato sul rispetto e la stima reciproca. Si può cominciare descrivendo che cosa è per noi una psicoterapia per poi chiedere che cosa rappresenti per lei o lui, quali sono i suoi pensieri, le sue credenze, le sue paure che cosa prova verso la figura dello psicologo, come gestisce i suoi momenti di sconforto, se c’è qualcuno con cui parlare quando sente il bisogno di farlo... senza dimenticare di introdurre e condividere insieme anche le proprie esperienze e idee. Ovviamente non esistono soluzioni, si fanno tentativi, si impara a conoscere la propria figlia o figlio mettendosi in discussione per primi, non trasformandosi in pseudo terapeuti ma ritrovando e mantenendo il proprio ruolo di genitore.
Ad un certo punto c’è stata la condivisione di una mamma che ha saputo con una dignità piena di rispetto esprimere il suo grido di aiuto. Mamma di cinque figli, dopo il ricovero della figlia avvenuto dopo un anno molto travagliato non è più riuscita a reggere lo sforzo immenso del peso sopportato ed ha avuto un crollo psicofisico tanto che le hanno consigliato di seguire a sua volta un piano terapeutico per riprendere le forze. Questa condivisone è stata accompagnata da un pianto e da un riguardoso silenzio, in cui ognuno di noi è stato testimone della sorprendente contrapposizione tra fragilità e forza. È stato un intervento segnato da così tanta delicatezza che ci ha portati tutti verso un sentire comune. Anche se il laboratorio si stava svolgendo in piattaforma è arrivato nitidamente l’emozione che si è sprigionata. E le lacrime, che dire? Le lacrime sono la rivelazione della parte di noi più profonda che ci conferma che ancora siamo in grado di provare emozioni. Infatti, quando una persona è bloccata dentro non riesce più in alcun modo a piangere. Le lacrime, al contrario, ci rivelano la piena espressione della nostra interiorità.
Spesso quando crolliamo non riusciamo più a credere in nulla. È come se cadessimo in un baratro. Ma in realtà è quando tutto crolla che si può ricominciare a costruire e poter così apportare quel cambiamento che necessita di essere attuato. E chiedere aiuto per gettare le fondamenta di questa nuova costruzione è sinonimo di grande coraggio e saggezza. È importante che quando accadono questi momenti non ci si chiuda in se stessi, poiché farlo aumenta ancora di più il peso che si è costretti a sostenere. Il prezioso intervento di questa mamma ha saputo tradurre nella pratica quello che è il senso del laboratorio. Esserci, ognuno insieme all’ altro. Per permettersi finalmente di mostrarsi così come si è... e il dono più grande di questa intensa serata è stato il sorriso di questa mamma... un sorriso che ha trasmesso tutta la forza, il dolore e l’amore che coesistono dentro ad ogni genitore.

La parola che ci accompagna durante la settimana è: LA FORZA DELL’ESSERE FRAGILI.

 

---

 Foto scattata dalla compagnia FZU35 durante le prove dello spettacolo "La voce".