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venerdì 31 luglio 2015

Tenebra,mia luce



“Non mi farai cambiare idea. È inutile, lo sai che non ti ascolto.”
Già in troppi sanno, in troppi vedono; alcuni intuiscono, oppure suppongono. È insopportabile avere la sensazione di essere osservati, spiati e stare in un perenne stato di allerta, come se qualcuno potesse scoprirla, come se qualcuno la volesse punire. Subisce silenziosa l’irragionevole castigo che si sta infliggendo, un male che si fa consapevolmente tutti i giorni. Agisce involontariamente, la parte razionale di lei è rinchiusa in un groviglio inestricabile di noncuranza, è diventata ormai un automa incontrollabile. La situazione le è scivolata dalle mani, diventando estremamente insostenibile. Se prova ad esternare i suoi sentimenti - le sue ossessioni - tutti la scambiano per una paranoica occasionale e provano compassione nel guardarla, mentre si crogiola nella sua quieta anormalità.
“E poi sai già come la penso: le persone sono superficiali, inconsapevoli. Mi guardano, ma non vedono.” dice.
Vorrebbe, invece, che potessero rovistare nei suoi pensieri e capire che tutto in lei urla. Vorrebbe che avessero occhi per scrutare nei suoi sensi vuoti e scorgere lo scenario della sua esistenza: fredde pareti di marmo e un candido cratere, al quale affida tutto lo squallore delle sue colpe. Accade tutti i giorni, da settimane che non conta più, non un momento di respiro, tra un morso e l’altro. In verità, compatisce se stessa, mentre si scopre intenta a cercare il suo riflesso nell'acqua sporca e fangosa, in quel buco; a guardare allo specchio gli occhi di un qualcuno che non è più lei, osservando venature e rossore anormali su quel volto livido; ad ascoltare il suo affannoso respiro andare su e giù per lo sforzo di sembrare sempre più sottile e piccola. Vive in un continuo stato di disillusione procrastinatrice, come se conoscesse l’immediato rimedio per porre fine a questa sua assurda bramosia di torturarsi.
“Credo che in fondo non mi importi davvero. Uscirne o no, intendo”.
Pensa invece che le basti sentirsi dire che è troppo magra e che non mangia abbastanza, pensa che le basti leggere da un ago il giudizio su di sé, per valutare se deve farsi del male o meno.
Prova soddisfazione nell'osservarsi allo specchio. Il suo bacino sembra una pianura sconfinata e sterile. Sente improvvisamente nascere in lei un indeterminato stimolo che prende possesso del suo corpo e che la invita - la persuade - a colmare il suo vuoto, ancora e ancora, instancabilmente, senza trovare un termine ai suoi vani tentativi di riempire quella tanto agognata desolazione. Porta le mani al volto e osserva le sue dita, complici di ripetuti atti contrari, strumenti innaturali di liberazione e contemporaneamente di pentimento. Premono sulla punta della penna per scrivere, parola su parola, il disprezzo per se stessa. Le fissa, rovinate dall'acido; la gola brucia e uno schifoso sapore riempie la sua bocca mentre ansima e piange. Piange perché non comprende quello che sta facendo. Ma è ancora quel disumano pensiero a sedare la sua disperata sofferenza:                                                
“Penso che mi basti sentire la nausea appena ne ho bisogno”.
Quando quella fase di assopimento termina, quando la coscienza si risveglia e scuote quell'avvolgente culla di torpore, si rinchiude in casa, indegna dello sguardo altrui; e si guarda intorno, con espressione vacua, indifferente a ciò che accade, troppo lontana per partecipare alla realtà, troppo vicina per non esserne impaurita; e si accorge di non essere davvero al mondo, ma di osservarlo tristemente, rimanendo composta ed inerte dietro ad una lastra di plastica opaca; e sente la vita che le scivola addosso, ma non riesce ad afferrarla.
“Non voglio parlarne. Nessuno capirebbe.”
Così scende, scende nel baratro del suo vuoto, così accogliente che, nell'abbracciarla, la sovrasta tutta e la soffoca; e si chiede se ne valga la pena: si chiede se vivere in un eterno presente valga davvero tutto questo dolore.

Martina Morossi



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