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sabato 30 marzo 2019

Ritorno alla Vita



Ciao Giammy,
così è come ti piaceva esser chiamato e ancora oggi, quando penso a te e ti parlo sussurrando nella mia mente, faccio attenzione a nominarti come tu più volevi. Sono trascorsi ormai sei anni e mezzo da quel freddo e buio giorno d’estate in cui volasti via da noi. La freddezza e l’assenza di luce di quel giorno riecheggiano ogni volta che provo a ricordare quell’estate così intossicata di angoscia, tormento e morte. Ricordi il primo giorno in cui ci siamo conosciuti, eravamo due ragazzini incoscienti di quattordici anni che stavano per iniziare una nuova avventura liceale, ignari di cosa ci avrebbe riservato quel futuro troppo colmo di sogni davanti a noi. Ancora ricordo quella gita in Sicilia, che ci bloccò tutti su un battello per 12 ore ininterrotte e ci costrinse a diventar abili scopritori dei metodi più innovativi di trascorrere più velocemente il tempo. Quanto sarebbe bello, oggi, che quelle 12 ore si fossero trasformate in 24, 48, forse anni, per bloccare inevitabilmente quel momento li, fissarlo eternamente su quel battello, per non farti più andare via, per non costringerci più a doverti vivere solo per mezzo di un sogno. Quella gita rimarrà eternamente impressa in me, coinciderà sempre con un punto di non ritorno, perché è da lì che la bestia “affamata” iniziò pian piano sempre più a togliermi cibo, amore, tempo e respiro. Tutto iniziò con la privazione di cibo, per quella bestia doveva essere sempre meno, sempre il minimo, sempre insufficiente a soddisfare uno stomaco che rimpiccioliva giorno dopo giorno. Il mio corpo non richiedeva più nutrimento, si preoccupava solo di saziare quella bestia di odio e rassegnazione, e più la bestia mangiava e cresceva, e più diventava vigorosa, imponente ed importante nella mia vita. Esistevo solo io e lei, dal puntuale risveglio mattutino, al puntuale addormentamento notturno. In quel giorno di agosto ormai la vera me esisteva solo in una piccola parte nascosta del mio cuore, perché la bestia era diventata così gigante da sovrastare ormai il piccolo corpicino in cui ero racchiusa. Quella piccola me in quella piccola porzione di cuore urlava terribilmente, voleva poter uscire di lì ed impossessarsi nuovamente del suo corpo, ma la bestia teneva quella gabbia d’oro saldamente chiusa. Mentre io ogni sera mi addormentavo, la bestia stringeva leggermente di più quella corda intorno al mio collo. Un nodo in più ogni giorno mi stringeva, più avanzava il tempo e più respirare diventava complicato. Non immagini quanto è stato difficile e quanto tempo è passato prima che riuscissi a scriverti, a parlarti, troppo offuscata dal senso di colpa e dal disprezzo che provavo verso me stessa. In quel maledetto giorno di agosto, mentre io vivevo la mia annichilente quotidianità anoressica, tu morivi, accasciandoti a terra davanti ai tuoi amici e non rialzandoti più. Da un lato c’ero io che da anni mi lasciavo morire lentamente, rifiutando la fortuna di una vita che denigravo e rinunciando adun futuro luminoso che spegnevo. Dall’altro lato, invece, c’eri te, un ragazzo con una strabordante voglia di crescere e sognare, che perdevi ingiustamente e precocemente dal nulla la tua giovane vita. Quante volte mi sono sentita indegna di essere viva, non sopportavo la rintronante consapevolezza che al posto mio potevi esserci tu. Qualche mese dopo che te ne sei andato, rinchiusa in un terribile reparto psichiatrico, con un sondino che mi fuoriusciva dal naso, ho trasformato quella rabbia che provavo verso me stessa in consapevolezza. Ho capito che io dovevo rinascere per entrambi. Nel momento in cui io ho deciso di vivere ho deciso di ESSERE, sia per me, sia per te. Il mio corpo è diventato il tuo corpo, le mie vittorie sono diventate le tue vittorie, i miei occhi sono diventati i tuoi occhi. 

Tua A.

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