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lunedì 12 ottobre 2020

Dare un nome alle paure - Laboratorio 23 settembre 2020

 

Stasera il laboratorio si è sviluppato intorno a una domanda principale: “Quali sono le paure che
i genitori provano quando i loro figli vivono un disturbo alimentare?

Sono state tante lerisposte arrivate. 

C’è la paura della comunicazione, o meglio, il terrore di dire sempre la cosa sbagliata. Una mamma ha voluto condividere quello che le è accaduto poche ore prima del laboratorio. Ricevendo la consueta videochiamata dalla propria figlia che si trova in cura presso una struttura, ad un certo punto “casualmente” sono comparsi i gatti di casa ( metto tra virgolette casualmente perché in realtà nulla accade per caso) ed è sorta spontanea la domanda della mamma “non ti mancano i gatti? Non senti voglia di tornare a casa?” Dopo una prima reazione aggressiva da parte della figlia, questa è scoppiata a piangere e la videochiamata è terminata con l’immagine di queste lacrime e un grande senso di colpa da parte della mamma per aver detto la cosa sbagliata e aver arrecato un’ ulteriore sofferenza alla propria figlia. In realtà, non c’è stato alcun errore. Anzi, quella situazione ha creato l’occasione per poter finalmente lasciar andare le emozioni tenute sotto controllo fino ad allora. Darsi il permesso di piangere vuol dire darsi soprattutto il permesso di avvicinarsi a se stessi, e ogni qual volta accade questo, lo possiamo considerare un dono prezioso. Un dono che porta a fare esperienza del proprio vissuto emotivo.
Un’altra mamma ha portato la paura che si presenta tutti i fine settimana quando la figlia fa rientro a casa dalla struttura residenziale. Questo ritorno viene vissuto male da entrambe le parti. I genitori sono spaventati non tanto dall’ arrivo di lei quanto dal sopraggiungere della malattia, la quale si è sovrapposta abilmente all’immagine della loro figlia. Questo li porta inevitabilmente a cambiare le dinamiche in casa che vanno verso un controllo costante. Il disturbo priva del ruolo genitoriale andandolo a trasformare in quello di pseudo terapeuta. Le mura domestiche non rappresentano più una casa ma diventa a sua volta una struttura residenziale dove ogni cosa deve essere controllata e seguita alla lettera. Ovviamente, tutto questo peggiora ancor di più i rapporti tra genitori e figli poiché la malattia li ha privati entrambi della loro identità allontanandoli sempre più l’uno dall’altro.
C’è poi la paura della porta chiusa. Spesso i propri figli si creano uno spazio protetto che è quello della loro camera. Quando vi si rinchiudono dentro, non vogliono essere disturbati ne’ vogliono che qualcuno entri senza il loro permesso. Tutto questo però si complica ulteriormente quando compare un disturbo alimentare. Ecco emergere tutte le possibili paure che la propria figlia/ figlio possa commettere qualche azione autolesiva dietro a quella porta. E il rapporto si trasforma in un duello estenuante che sfocia nella sfiducia e nel non comunicare più. Occorre riuscire a vedere al di là di quella porta che metaforicamente rappresenta la malattia. Dietro quelle urla, quei comportamenti aggressivi, quelle parole offensive si nasconde la loro angoscia più profonda che li ha portati a cercare protezione in una malattia come il disturbo alimentare.
Una mamma ha raccontato di quando un giorno in piena crisi per i comportamenti ossessivi che la figlia continuava ad avere, un’amica le aveva detto che lei non poteva aver alcun controllo su questi. Non poteva certo costringere la figlia a smettere o cambiare comportamento, magari legandola per impedirle di camminare ininterrottamente. Non era compito suo. Ha riflettuto tanto su queste parole. Finché una mattina, è entrata nella camera della figlia e, guardandola per la prima volta dopo tanti anni negli occhi, le ha dato spontaneamente il buongiorno ricevendo in cambio uno sguardo sorpreso e colmo di gratitudine. Per la prima volta la madre non aveva guardato il suo piccolo giro vita, o i suoi piedi che non stavano fermi. Non aveva fatto alcun commento a riguardo. Finalmente la madre l’ aveva vista come persona, e non come la malattia.
Un’ altra mamma ha raccontato che un giorno stava pulendo casa e a un certo punto le è venuto spontaneo aver voglia di cantare. La figlia, stupita di sentire la madre canticchiare in un modo gioioso, è uscita dalla propria camera per andare a vedere cosa accadeva. In quel momento madre e figlia si sono guardate negli occhi. Non c’era bisogno di alcuna parola. Attraverso quello sguardo si erano riconosciute. 

Entrambi i racconti rivelano che quando non si è intrappolati dentro ai propri pensieri, le proprie aure, riesce ad emergere quella comunicazione dalle radici profonde che lega genitori e figli a cui la malattia non riesce ad arrivare. Coloro che soffrono di un disturbo alimentare hanno spesso una sensibilità molto accentuata verso i gesti, gli sguardi, i comportamenti. Riescono a leggere ogni piccola sfumatura, tanto da percepire le paure che i genitori vivono. Ma anche loro si sentono in colpa per ciò che dicono e fanno ...e non riescono a comunicarlo a parole. È come se ogni emozione fosse congelata e non riuscisse a trovare espressione. Spesso ogni componente della famiglia si ritrova a convivere nella stessa casa in cui ognuno è chiuso e congelato nelle proprie inquietudini. Ecco che il controllo diventa la modalità per scongiurare l’angoscia di ciò che non si conosce. Ma allora come arginare queste paure? Innanzitutto occorre identificarle. Dargli un nome. Questo aiuta a depotenziarle, sgretolando a poco a poco la loro forza intrinseca. Spesso, come nel racconto iniziale, le paure portano a bloccare la comunicazione che diventa il perno centrale su cui ruota il pieno potere della malattia. Come detto più volte nei laboratori, il disturbo alimentare si nutre delle ansie sia di chi vive il disturbo sia dei loro familiari. Riuscire a dar voce e nome ai propri timori significa ridurre il potere manipolatorio del disturbo.
Sempre durante il laboratorio c’è stato il racconto di un’altra paura vissuta dai genitori: il concedersi una vacanza. Spesso ci si vieta di fare le ferie perché ci si sente in colpa di cercare di svagarsi quando la propria figlia/o al contrario si trova dentro una struttura residenziale per curarsi. Una mamma ha raccontato che questa estate è andata qualche giorno in vacanza in montagna dove finalmente è riuscita a rilassarsi un poco. Anche se aveva scattato delle fotografie, aveva deciso di non condividerle con la figlia per il grande senso di colpa che provava.
Anche altri genitori hanno ammesso di aver vissuto la stessa esperienza. Riflettendo su queste dinamiche è emerso che non è vietandosi di vivere che si aiutano i propri figli. Anzi. Loro apprendono maggiormente dai loro esempi piuttosto che dalle parole. E allora è venuto naturale domandarsi: “come si può pretendere che i propri figli si riaffaccino alla vita quando siamo noi i primi a privarcene?”
Bellissima la citazione di Gibran riportata da un papà. Ha esortato a ricordare che i figli non appartengono ai genitori. I genitori hanno il principale ruolo di educare. Se riflettiamo  sull’etimologia della parola e-ducare deriva dal latino e-ducere, che significa trarre fuori ciò che è dentro. La malattia blocca questo processo, diventa lei stessa quella metaforica porta dietro alla quale si trincera chi soffre di un disturbo alimentare. Tirare fuori ciò che si ha dentro spaventa.
Ma:


I vostri figli non sono figli vostri... sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita. Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni. Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri. Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti. L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo. Ma il genitore è come un arco. Il figlio è una freccia. Il compito del genitore è scoccare questa freccia e lasciare che il figlio possa volare libero nell’aria, sentendo vibrare scorrere dentro di se’ la propria vita.” 

Khalil Gibran


La parola della settimana è: DARE UN NOME ALLE PAURE.

 

 

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