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giovedì 6 maggio 2021

Il sintomo è portatore di significato - Laboratorio 4 Maggio

Il laboratorio di questa sera è stato molto ricco di condivisioni, storie, riflessioni che aprono sempre nuovi spiragli sul vissuto di ognuno di noi.

La situazione che stiamo vivendo in questo periodo ha messo alla prova molti genitori che si trovano ancora più stanchi nel dover affrontare un disturbo alimentare che sappiamo bene quanto lasci stremati e senza forze. Una cosa importante da sottolineare sempre, è che spesso si rimane intrappolati nell’ osservazione di ciò che appare visibile ai nostri occhi: ovvero il sintomo. Ma per comprendere e saper affrontare il disturbo alimentare, serve andare al di là di esso per cercare di capire cosa questo ci voglia dire. Infatti, se si rimane fissi solo sul sintomo, si finisce col percorrere un’unica strada, quella della malattia. Eppure, anche se sembra paradossale, il sintomo è arrivato per far sì che si vadano a riaprire delle “porte” che sono state inavvertitamente chiuse e che ora reclamano di essere riaperte. Porte che appartengono sia al figlio/figlia, sia ai genitori.


Perché abbiamo detto questo? Perché la malattia percorre delle fasi ben precise, non si passa improvvisamente dallo stare male allo stare bene. Questo richiede molti passaggi che spesso passano attraverso l’apparente ritornare indietro. Dico apparente perché quando si ritorna a mettere in atto dei meccanismi della malattia che sembravano superati, in realtà i figli stanno vivendo un momento particolare del loro percorso. Un momento che può essere dettato da tante cause, anche il dover affrontare qualcosa di spinoso emerso in terapia. Ci si spaventa, e non avendo ancora acquisito strumenti nuovi per affrontare eventuali difficoltà, si torna a riabbracciare la finta sicurezza e controllo che da’ la malattia. Il genitore ovviamente vede però il sintomo, non ha la possibilità di comprendere la battaglia interna dei proprio figlio/figlia. Entrambi è come se si trovassero incastrati nelle proprie paure, che portano a creare ulteriori incomprensioni e conflitti all’interno del nucleo familiare. E qui, come sappiamo bene, il disturbo alimentare prende il sopravvento.
Spesso accade poi, soprattutto quando ci sono fratelli o sorelle, di dimenticarsi che anche loro sono parte della famiglia. Spesso i bisogni, i desideri, anche le paure stesse degli altri figli non vengano viste e riconosciute con il giusto valore, quasi fossero di minore importanza rispetto a quelli della figlia o figlio che soffre di un disturbo alimentare. Capitano situazioni in cui, alla richiesta dell’altro figlio/figlia, si sono pronunciate frasi del tipo: “ non possiamo andare in pizzeria perche’ tua sorella poi reagisce male”... oppure: “ dobbiamo cenare a tale ora perché altrimenti tuo fratello salta il pasto”.. dimenticandoci che i bisogni, le esigenze e anche la sofferenza degli altri figli devono essere riconosciute. Infatti, non dimentichiamo che anche loro soffrono nel non avere più il rapporto che avevano prima con la sorella o il fratello malato/a di un disturbo alimentare. Lo stesso discorso vale anche per la coppia marito e moglie. È importante ridefinire i propri spazi e ruoli, dedicandosi tempo e non sacrificandosi perché si ha paura di lasciare i propri figli soli in casa.


Una mamma ha raccontato il difficile momento che sta vivendo con la figlia che, ricaduta in frequenti crisi di bulimia generate dal sentire un grande senso di vuoto interno, arrivata al limite della situazione creatasi, ha reagito urlandole contro di non sopportare più di vedere in lei quella totale inerzia e apatia. Queste urla sono state dettate non solo dalla grande sofferenza di questa mamma, ma anche da un suo volerla scuotere per vederla reagire in un qualche modo. Così, senza aspettare da lei di avere una risposta su quello che avrebbe voluto per pranzo, la mamma è uscita a fare la spesa e al momento del pasto, ha detto solo che era pronto. La figlia, senza fare alcuna protesta, ha mangiato e poi è andata a lavorare. Il giorno dopo si è svegliata presto provvedendo, come non faceva da giorni, a occuparsi delle sue cose personali, ringraziando infine la madre. Come se quella sfuriata l’avesse momentaneamente ridestata. I genitori spesso sono lasciati soli ad affrontare il delicato momento in cui i propri figli, dopo un lungo periodo di terapia, incominciano a sperimentarsi nell’ affrontare quella che è la vita, anche nelle sue “banali” incombenze quotidiane. Dico periodo delicato poiché è solo facendo esperienza del disequilibrio che si impara a trovare il proprio baricentro. 

Ma assistere alla costante alternanza giù e su, sfianca e getta nella paura totale un genitore che ha già visto più volte il ripetersi di quel meccanismo perverso che sembra inghiottire il figlio/figlia. Ma ci tengo a sottolineare, che anche questo fa parte del percorso di cura, quello che invece a volte ne sono esclusi da questo processo, sono i genitori, che si ritrovano risucchiati non capendo cosa sta di nuovo accadendo . Ma ripeto, ogni fase è diversa, ogni crisi non è mai uguale alle precedenti, non è mai un ritornare indietro, perché nel frattempo chi sta cercando di guarire dalla malattia, si sta anche mettendo in gioco. Diventa allora ancora più importante che i genitori possano avere modo di parlare di quello che sentono, pensano, vivono poiché tutto ciò che viene tenuto dentro di se’, si cristallizza in una visione a senso unico . Al contrario, attraverso la parola condivisa, diamo espressione al nostro sentire, lo elaboriamo riuscendo a darne una prospettiva diversa. Un’ altra mamma ha raccontato di come sia stata dura anche per lei accorgersi che aveva talmente focalizzato la sua attenzione sulla figlia malata da essersi dimenticata degli altri suoi figli.
Grazie alla terapia, ha capito che non poteva estraniare il resto della famiglia per proteggerne uno solo. Ognuno aveva bisogno della stessa cura, tempo, dedizione ma anche conoscenza della malattia stessa, per imparare a relazionarsi con questa e quindi a non averne paura. Questo è basilare per i rapporti e l’equilibrio dell’ intero nucleo familiare. E qui torniamo al discorso di prima, al non fermarsi a vedere solo il sintomo ma andare al di là di esso per capire cosa voglia dirci. Infatti, è importante allenarsi costantemente a distinguere quando parla la malattia da quando parla la persona. Questo è essenziale per avviare una comunicazione che sia costruttiva e soprattutto che non vada a sostenere ulteriormente il disturbo alimentare.


Una mamma ha raccontato di quanto sia difficile in questo periodo subire gli attacchi aggressivi della figlia che rinfaccia continuamente ai genitori di averla costretta a intraprendere un percorso terapeutico contro la sua volontà. In realtà questo è un tentativo della malattia di scaricare sui propri genitori ogni responsabilità, compreso l’intero peso della propria sofferenza. Come è accaduto nel racconto precedente della mamma che si è lasciata andare a una sfuriata per ribellarsi a quel peso diventato insopportabile e ingiusto da sostenere. È necessario quindi saper distinguere bene chi è che parla quando si è in presenza del figlio o figlia malato/ malata di un disturbo alimentare, perché permette di acquisire strumenti per respingere le richieste manipolatorie della malattia. Spesso accade che la figlia/figlio ringrazi i propri genitori per non aver dato spazio al disturbo alimentare. So che è difficile da comprendere, ma affinché si possa arrivare alla consapevolezza di prender in mano la propria vita, occorre fare esperienza del vuoto, del non trovare nessuno che “appoggi” le manovre manipolatorie della malattia. Questo fa si che la persona si trova a diretto contatto con la propria sofferenza realizzando che tutto quello che ha messo in atto fino a quel momento attraverso il disturbo alimentare non è che una realtà distorta che l’ha tenuta lontana dalla sua vita e dai suoi cari.


Un’altra mamma ha condiviso quanto sia importante per lei il ruolo che i genitori hanno. Sono, come spesso abbiamo evidenziato nei laboratori, una risorsa. Attraverso un percorso sia di terapia familiare che individuale, questa mamma è riuscita a sintonizzarsi sulla sofferenza della figlia, che spesso ricorreva anche all’autolesionismo. Sintonizzarsi non significa fondersi con quel dolore, ma anzi, significa distaccarsene per poi poterlo riconoscere e accogliere come parte dell’altro e non di se’. Certo, questa mamma ha corso dei rischi permettendo alla figlia di restare sola nella propria sofferenza, poiché poteva farsi ulteriore male. Ma aveva compreso che lei, come genitore. stava agendo spinta prevalentemente dalla sua enorme paura per quello che poteva accadere. Così, doveva essere lei madre a sganciarsi per prima da quel meccanismo per far sì che la figlia potesse ritrovare se stessa. Non è stato ovviamente facile. Ma non dimentichiamoci che i genitori, sia la madre che il padre, sono coloro che hanno creato con i propri figli un legame molto forte, un legame costruito su una comunicazione che non necessita di parole. Ed ecco ritornare a quelle “porte chiuse” citate all’inizio.


Il sintomo arriva per portare la famiglia a riaprire porte che sono state chiuse e ora reclamano di essere riaperte. Il sintomo arriva per riportare la famiglia a riprendere in mano quella comunicazione profonda che in qualche modo si è interrotta o ha cambiato direzione. La guarigione ha bisogno di ritrovare questo legame, ritrovare le proprie radici per radicarsi e crescere saldi e stabili. Pensiamo agli alberi. Per svilupparsi, hanno bisogno di avere spazio intorno a se’, necessitano sia di una vicinanza data dalle rispettive radici, sia di una giusta distanza affinché i rispettivi rami non si vadano a intrecciare tra loro, soffocandosi a vicenda. 


La frase della settimana : IL SINTOMO È PORTATORE DI SIGNIFICATO

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