Ciao a tutti,
questo è il primo post di ottobre e proprio per questo vorrei fosse speciale!!
Ci terrei innanzitutto a ringraziare tutti coloro che sono intervenuti commentando i post precedenti....è questo lo scopo del blog, attivare discussioni e appoggiare coloro che con molta forza stanno cercando di lottare contro i DCA.
Mi piacerebbe riflettere su una cosa che mi è accaduta la scorsa settimana mentre curiosavo tra le vie di Parigi. Mi sono trovata a vivere una realtà completamene differente dalla mia piccola cittadina di provincia; la citta era affollata da persone appartenenti ai più svariati paesi, alle più diverse culture. Ospitando la città ogni giorno una grande quantità di turisti, ognuno si sposta come se fosse una singola individualità, uno dei tanti corpi che come formiche riempe la città. Tutti sanno perfettamente come, la persona che ti siede vicino al bar e quella che si è alzata per lasciarti il posto sulla metropolitana, non avranno più l'opportunità di incontrarla; le loro vite si incrociano in quel momento, in una città estranea ad entrambi per poi staccarsi in modo naturale. Ebbene io ho pensato a quando non avevo il coraggio di uscire, quando non mi sentivo adeguata ; in un contesto del genere mi sarei potuta sentire più felice...nessuno sapeva niente di me, nessuno conosceva la Michela prima e dopo l'anoressia o meglio, nessuno poteva finalmente etichettarmi. Chi non ha avuto la sfortuna di entrare a contatto con i DCA non può forse comprendere una tale sensazione ma io, a lungo etichettata come suole fare alla giornata d'oggi la società, spesso avrei avoluto diventare invisibile per chiudermi finalmente dentro me stessa. Ora, dopo aver scoperto che quella non è vita, mi trovo a mio agio anche nella mia cittadina di provincia dove tutti dimostrano di conoscre solo Michela.
Mi piacerebbe sapere le vostre esperienze in merito!
A presto
Un abbraccio
Michela:)
CIAO.
RispondiEliminaSpero finalmente di riuscire a replicare: la tecnologia la uso quasi esclusivamente per lavoro e consultazione.
Mi chiamo Gianna Caselli e conosco bene i DCA: li ho vissuti in prima persona per lunghi anni e, personalmente, ritengo non si guarisca mai.
Comprendo benissimo la tua situazione: l'ho vissuta in prima persona in un paesino di 1500 abitanti nella provincia ferrarese alla fine degli anni 80. Ero ammalata e costantemente sotto osservazione per questa mia diversità esibita in lunghe corse a tutti gli orari.
Adesso ho 42 anni e gli assertori di quelle critiche feroci sono divenuti i miei primi sostenitori: facciamo parte della stessa squadra di podismo e sono più accaniti di me!
CREDIMI: LA DIVERSITA' E' UN ENORME VALORE DA PROTEGGERE E DIFENDERE. E' LA PARTE MIGLIORE DI NOI, QUELLA CHE CI FA ESSERE UNICI.
A presto.
Abbracci.
Gianna
Anch'io capisco bene quello che hai provato, visto che fino a pochi mesi fa abitavo anch'io in un piccolo paesino... E di etichette ne ho avute appiccicate addosso tantissime... Anni, ed una vita in mezzo. Anni in clinica, sballottata da una parte all’altra, da un medico all’altro come una patata bollente, e tutti impersonali, distanti, mi chiedevano “Come stai?” e intanto avevano la faccia di chi sta pensando “maremma che palle anche stamattina il solito tran tran non vedo l’ora di tornare a casa stasera così c’è mia moglie che mi ha preparato la lasagna e magari mi becco anche un bel film in TV”. Mi facevano domande su domande, e poi mi consegnavano a qualcun altro appiccicandomi addosso un’etichetta, come si fa coi pacchi. La prima dottoressa che mi ha avuta in cura mi ha consegnata alla clinica con la definizione tecnica di “anoressica restrittiva”. Dunque non ero più una persona, ero diventata 2 parole. La cosa più drammaticamente divertente, poi, è stato vedere le mie inspiegabili metamorfosi sulle carte dei dottori. Al primo ricovero, dunque, ero 2 parole. Al secondo, di punto in bianco, eccomi qua: “anoressica restrittiva atipica - borderline”. 4 parole. Al terzo, da da dan!, “autolesionista con episodi di anoressia restrittiva – condotte disfunzionali – borderline”. Menomale che dopo il quinto con i ricoveri ho chiuso, altrimenti non si finiva più. I medici non sapevano come classificarmi. Percepivo da parte loro una certa angoscia per questo. Non trovavano il termine adatto. Io li prendevo in giro e proponevo neologismi come “anoressismo”, “autolessia”. Adesso mi viene quasi da ridere. Per non piangere.
RispondiEliminaAdesso ci studio vicino a quello che è stato il mio carcere. Se per caso diventerò dottoressa, io che so cosa significa essere 4 parole e non più un essere umano, voglio davvero provare a rivoluzionare qualcosa.
Non devi ringraziare noi che commentiamo, grazie a te che scrivi, invece!!!!!!!
RispondiEliminaVorrei leggermente dissentire con quello che hai scritto, però. Io vivo, ed ho sempre vissuto, in una grande città del nord-est Italia. Certo non grande come Parigi, ma sufficientemente da essere capoluogo di regione. Eppure, nonostante la molteplicità di gente, nonostante gli incontri sfuggeni, gli attimi che sai non si ripeteranno, le persone che entrano/escono dalla vita in un attimo, le stesse sensazioni di inadeguatezza e di voglia di chiudermi in casa, la stessa paura di essere etichettata, l'ho sempre provata anch'io. Forse in maniera "sciocca", visto che, essendo sostanzialmente bulimica, il mio peso è sempre stato nella norma e dall'esterno nessuno avrebbe mai potuto dire che avevo/ho un dca, eppure alla fine quella che conta è la nostra visione soggettiva del mondo, e nella mia visione soggettiva del mondo, io mi sentivo inadeguata, sbagliata, etichettata, relegata a fondo pagina. Non contano le dimensioni del centro in cui vivi, conta quello che sta nella tua testa. Perchè le etichette che ci sentiamo affibbiate dagli altri, sono per lo più le etichette che noi stesse ci attacchiamo convinte che siano gli altri a farlo, ma solo perchè siamo noi ad essere le più severe giudici di noi stesse. Forse dovremo solo imparare ad accettarci un po' di più per quello che siamo, e allora quelle etichette sparirebbero automaticamente.
Ciao, sono perfettamente d'accordo con wolfie: le etichette che abbiamo paura gli altri ci appiccichino riflettono quello che NOI pensiamo di noi stessi e non quello che pensano gli altri.
RispondiEliminaAnch'io desideravo vivere dove nessuno mi conosceva e poteva, così, giudicarmi; isolarmi nella confusione di persone, anzi, di corpi visto che non venivo in contatto con loro.
Solo una volta guarita ho capito quanto e cosa avevo perso...
avete perfettamente ragione... io però mi riferivo alla mia esperienza , al fatto che spesso per la strada le persone si giravano e mi fissvano. Mi riferivo in particolare a quando una mia compagna di scuola al passaggio di una signora molto magra ha affermato con disprezzo:" ma quella è un'anoressica"; è di questo che parlavo, del fatto che spesso le persone giudicano ciò che non conoscono.
RispondiEliminaGrazie per essere intevenute:)
un bacio
Michela