La frase della settimana: ANCHE LA SCUOLA NON PUÒ ESSERE LASCIATA SOLA
Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.
La frase della settimana: ANCHE LA SCUOLA NON PUÒ ESSERE LASCIATA SOLA
Infinite
gomme da masticare ingerite e sputate compulsivamente nel giro di pochi minuti
per non sentire la fame.
Biscotti sbriciolati di nascosto per assumerne la minor quantità possibile.
Briciole, è ciò di cui ci si nutre per fingere a sé stessi e agli altri di aver
mangiato.
Caffè, rigorosamente amaro per tenersi svegli il più possibile e per riempire
il vuoto nello stomaco, quello che non è altro vuoto nell'anima.
Contapassi, una delle app preferite di Ana.
Ana, la tua migliore amica.
Ana ti impone di camminare a più non posso fino a raggiungere obiettivi
assurdi, insani, malati. Fino a sentire dolori atroci, alle gambe ai piedi,
fino a fratturarsi le ossa.
Giornate passate fuori casa o anche dentro casa, con un solo obiettivo nella
testa: bruciare.
Notti insonni per smaltire persino l'ultima caloria rimasta.
Camminate, addominali, flessioni nel pieno della notte per andare a letto
soddisfatti, anche se poi soddisfatti non lo si è mai.
Per Ana non è mai abbastanza.
Ana ti sgrida, ti insulta, ti dice le cose peggiori e tu devi obbedirle.
Ed ecco allora che passi le giornate a calcolare le calorie, a contare
ossessivamente, a pesare persino la foglia di insalata per paura che un grammo
in più possa farti ingrassare.
E passi le giornate a programmare l'alimentazione dei giorni successivi perché
nulla deve sfuggire al controllo.
Quel controllo che vorresti avere nella vita, nelle relazioni, nelle emozioni.
Ed infine...
Dopo anni trascorsi ad assecondare tutto ciò, ad un certo punto gridi
"basta".
Cominci a fare il contrario di quello che "DEVI", cominci a tirare
fuori la tua forza, il tuo coraggio e a combattere con quel mostro che viene da
dentro, dal profondo.
Cadi, inciampi, scivoli e ti rialzi.
Cominci ad intravedere la luce e a quel punto cominci ad alimentare quella
fiammella sempre di più.
Un giorno ti svegli e ti senti più leggera, ma non perché pesi 39 chili.
Senti una leggerezza provenire da dentro.
A quel punto il cibo non fa più paura, anzi in quel piatto ci vedi una farfalla
lilla: la libertà.
Questa settimana c'è stata purtroppo l’ennesima drammatica notizia di una ragazza che non è riuscita a liberarsi dalla stretta della malattia del comportamento alimentare, ponendo fine alla sua vita. Molti genitori si sono domandati se sia giusto o meno condividere queste comunicazioni con le proprie figlie o figli che soffrono di queste patologie. Come sempre, non esiste una risposta valida e univoca per ogni situazione. Occorre valutare la persona che abbiamo davanti; ma, ancora prima, è indispensabile che i genitori stessi osservino cosa li spinge a voler condividere quella determinata storia.
Si spera forse che leggendola possa smuovere qualcosa dentro ai propri figli? Ci si aspetta che, vedendo l’epilogo di certe realtà, li esorti a smettere di fare quello che stanno facendo con il cibo e il loro corpo?
Purtroppo nutrire simili aspettative non porta mai a un buon esito, anzi, tali propositi vanno a stimolare ancora di più le dinamiche della malattia. È necessario che i genitori siano consapevoli che affrontare una tematica simile coi propri figli significa incamminarsi su un terreno minato. Va comunque sottolineato che questi argomenti non devono essere un tabù, anzi. Ma non bisogna cadere nell’errore di dare troppo spazio alla malattia, ovvero, non bisogna mettere in evidenza aspetti quali peso, comportamenti autolesionistici, cibo, ossessione per l’immagine corporea poiché si va a focalizzare l’attenzione solo sul sintomo, ponendo i figli in una condizione di confronto con i parametri della patologia, e questo certamente non li aiuta.
Quindi come ci si potrebbe approcciare? Mettendo ad esempio in atto il “gioco del mettersi nei panni di”... Mi spiego meglio. I genitori possono esprimere per primi le loro opinioni mettendo in evidenza non tanto il fatto in sè, quanto il carico emotivo che questa ragazza ha provato e che sta provando ora la sua famiglia, con lo scopo non di aspettarsi una qualche reazione da parte dei propri figli ma con lo scopo di aiutarli a comprendere le emozioni che una tale condizione suscita, sia in chi la vive direttamente sia in chi la vive indirettamente, come i familiari. Questo “ gioco del mettersi nei panni di”, può essere utile perché permette contemporaneamente di distaccarsi emotivamente dal proprio vissuto per comprendere il vissuto dell’altro e quindi aprirsi a un dialogo aperto libero dal non sentirsi sotto osservazione o sotto il carico di quelle aspettative citate in precedenza. Torno a ripetere che per poter mettere in atto tale proposito, è necessario che i genitori siano in grado di comprendere in che stato di animo si trovano e soprattutto, di non andare a sovraccaricare i figli della propria ansia, paura e desiderio della guarigione.
A volte accade, soprattutto agli inizi, che la famiglia non riesca a tollerare la malattia, cercando così ogni espediente possibile per convincere i figli a smettere di avere quei comportamenti. Sappiamo che questo non è possibile, poiché i processi che portano alla sintomatologia alimentare sono molto complessi e profondi. I genitori spesso si autoaccusano di essere stati responsabili in qualche modo della malattia dei figli: disattenzioni, mancanze, severità, dare troppo o poco amore.....e la lista potrebbe andare all’infinito. In realtà le malattie del comportamento alimentare sono multifattoriali, quindi non basta una componente singola per far sì che questa sviluppi la malattia. Certo, i figli fanno la loro prima esperienza all’interno dell’ambiente familiare, ma poi crescono, cominciano ad andare a scuola, ad avere relazioni coi propri coetanei, a confrontarsi con diverse autorità che non sono più solo i genitori. Durante la crescita, ogni individuo forma inconsciamente un’immagine ideale di sè, che deve inevitabilmente venire a contatto con la propria identità. Quando l’immagine idealizzata di sè si trova a essere molto distante dalla propria identità, qualcosa si rompe drasticamente, andando in frantumi e facendo sorgere un forte senso di vuoto e angoscia, talmente forte da costringere la persona ad aggrapparsi a qualcosa che può prendere le vesti di una malattia del comportamento alimentare.
Così, attraverso le dinamiche del sintomo, si riesce a controllare e a cercare di colmare il senso di vuoto lasciato da quella frattura.
A volte accade che durante il percorso di cura, la persona che soffre della malattia del comportamento alimentare viva crisi importanti, che all’apparenza sembrano la portino di nuovo dentro alla sintomatologia. I genitori in questi casi sono disperati perché avevano cominciato a sperare nella guarigione e la ricaduta li destabilizza completamente. In realtà, per guarire occorre ridimensionare l’immagine ideale di sè per cercare di avvicinarla e farla poi coincidere con la propria identità. Per fare questo, occorre andare dove c'è stata la frattura, prendere i pezzi di quei frammenti e, come in un puzzle, cercare di ricomporre ciò che si è frantumato. Ovviamente, questo è molto faticoso, fa paura, e inevitabilmente si reagisce come la prima volta che ci si è trovati a sentire quell’angoscia, aggrappandosi alla malattia. Piano piano però, attraverso l’aiuto terapeutico, si comincia a ricostruire il puzzle...ogni volta sempre con meno paura...pezzo per pezzo...fino a ricomporre la frattura e trovare finalmente allineati l’immagine ideale di sè con la propria identità.
Questo fa capire il motivo per cui il percorso terapeutico di una malattia del comportamento alimentare sia così lungo, evidenziando quanto la sintomatologia alimentare occupi un posto paradossalmente essenziale per la sopravvivenza emotiva della persona. È fondamentale muoversi con molta sensibilità, rispetto, consapevolezza dei tempi della persona che sta soffrendo. Ovviamente, questa delicatezza terapeutica a livello psicologico decade in una condizione salva-vita, ma una volta ristabiliti i parametri biologici è importante che si usi un approccio accogliente, che sappia riconoscere quella frattura e il dolore che vi sta dietro. È dunque evidente che chi soffre della malattia del comportamento alimentare provi un profondo disagio, che si riflette in tutti gli ambiti, come ad esempio quello scolastico. Proprio su questa tematica si è accesa una importante discussione che verrà ripresa nei laboratori successivi. È emerso che spesso il contesto scolastico non è formato per comprendere e adattare adeguati piani di studio per chi soffre di una sintomatologia alimentare. Se di fronte a situazioni come può essere una separazione dei genitori, la ragazza o il ragazzo in questione viene affiancato da un insegnante di sostegno e inserito in un BES, ( Bisogni Educativi Speciali), in molte scuole non accade la stessa cosa per chi soffre di malattie del comportamento alimentare, ritenendo che queste non rappresentino un disagio reale ma siano una forma di capriccio, se non addirittura una scusa per non applicarsi nello studio. Dato che nel laboratorio ci sono molti genitori che sono inseriti all’interno del mondo scolastico, è sorta l’esigenza di approfondire queste problematiche, per cominciare a creare una rete che non vada a considerare solo la formazione di personale sanitario ma anchedi personale scolastico per far sì che anche nelle scuole venga riconosciuta questa malattia e come tale possano essere applicati, senza pregiudizio e stigma, piani educativi adatti al disagio della persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare. La scuola deve essere un luogo di inclusione e non di esclusione.
Frase della settimana: È NELLA FRATTURA CHE C’È’ LA GUARIGIONE
Oggi sono qui per raccontare
quello che mi è successo nell’ultimo anno, non racconterò uno degli anni migliori
della mia adolescenza, ma la tristezza e la malinconia che ancora oggi, dopo
più di un anno, sono impressi nella mia mente.
A febbraio del 2018 è morto
Silvano, un signore di 85 anni, che abitava vicino a me, e che per me era un
punto di riferimento. Con lui ho passato la mia infanzia, bei momenti con le sue
calde battute nei freddi giorni d’inverno, le risate e anche qualche litigio,
che però a volte serviva. La sua morte, quasi improvvisa, è stata un brutto
colpo, mi ero appena ripreso dalla morte di mio zio, deceduto per colpa di un
maledetto tumore.
Questi eventi e forse l’adolescenza
hanno fatto scattare qualcosa. Ho cominciato a mangiare meno, mi mancavano loro
e la testa ha cominciato a dirmi che ero grasso, più grasso di tutti. Ho
iniziato a lasciare ciò che mi piaceva fare: da Contrada, al circolo, mercatini
e altre cose. Non ne parlo con nessuno perchè mi vergogno, ma soprattutto penso
non sia una cosa grave. Non riesco più ad avere un dialogo con i miei
famigliari, la vita in casa è difficile, sto bene solo quando sono fuori o a
scuola con gli amici, perché nessuno mi dice niente anche se capiscono che sono
cambiato. Le cose a casa peggiorano e nel frattempo inizia a sentirsi male
anche mio nonno, quando la mia famiglia va a trovarlo in ospedale, io resto in
casa da solo con la malattia.
Nel mese di maggio, il mio migliore
amico Jaco smette di venire a scuola, non riesco più a legare con nessuno,
rimango solo, isolato. La mia testa è bloccata e mi fa allontanare dagli amici,
mi rendo conto che non sono più io, il Tommaso di una volta. In casa c’è
preoccupazione sia per me che per nonno. Le poche volte che vado a trovarlo non
mi riconosce, temo che muoia da un momento all’altro, la notte ci penso e
piango. Inizio a fare fatica ad andare a trovarlo e smetto. Passano le vacanze,
io sto sempre peggio, il nonno sta sempre peggio. Ricomincia la scuola, gli
amici restano stupiti da come sia cambiato fisicamente ma soprattutto
psicologicamente. A casa va sempre peggio, penso che la malattia potrebbe essere
una soluzione. A scuola i voti sono ottimi.
A ottobre, la mia migliore amica
Bianca decide di andare in un’altra scuola, Bianca era l’unica persona con cui
riuscivo a parlare, anche se a fatica. La mia testa va per conto suo, pensa
solamente a peso e cibo. Nonno va in ospedale e non ho il coraggio di andare a
trovarlo. Inizio ad essere seguito dal Centro, quel giorno arriva la telefonata
che non avrei voluto, il nonno se ne è andato. Inizia il periodo peggiore, non
penso ad altro che a peso e cibo, sto proprio male, chiedo aiuto, ma amici e
famigliari non sanno più cosa fare. Decidono di ricoverarmi urgentemente perché
rischio la vita. A febbraio vengo dimesso, riesco ad andare dal nonno, la mia
testa sta meglio, ma ancora arrivano pensieri malati. A marzo, il 22, mi appare
in sogno nonno che mi dice che se continuo così non ne uscirò vivo. Quel giorno
inizio a pranzare con i miei famigliari. Sto meglio, ogni sera penso al nonno e
sento che è vicino a me.
Penso alle cose positive che mi
ha dato la malattia, ho riscoperto lo stare in compagnia, sentire il sapore dei
cibi e avere la testa un po più libera da pensieri malattia. I dottori e la mia
famiglia sono contenti, sono sereno, vedo la luce anche se il percorso è ancora
lungo. La testa a volte pensa alla malattia, ma anche ad altro, quello che
vorrei fare in futuro per esempio. Vorrei recuperare il tempo ed essere felice.
Il nonno c’è lo sento. Sto scoprendo in me nuove qualità, come l’amore per la
cucina e per il sapere. La vita è una sola e bisogna fare il possibile per
renderla magnifica a noi stessi, ma anche agli altri. Ora che le cose stanno andando,
grazie alla forza che mi sta dando nonno.
Ad aprile vado al compleanno
della mia migliore amica Bianca, ho paura, ma va tutto bene e il giorno dopo ho
l’umore alle stelle ripensando alla serata. Il 4 è il compleanno di nonna, le
chiedo scusa, non lo faccio apposta, lei sorride e capisce. Con il normopeso la
testa si ‘libera’, tornano le sensazioni, anche se ho ancora dispercezioni, ma
riesco a vivere perché la vita è bella una sola. Bisogna chiedere aiuto al
minimo sintomo, parlare con qualcuno alla minima dispercezione in modo da
trovare una soluzione.
Tommaso
Il laboratorio scorso ha suscitato alcune riflessioni importanti: un fratello o una sorella sono una risorsa o un’ulteriore difficoltà per una famiglia che deve affrontare una malattia del comportamento alimentare di una figlia o di un figlio? E inoltre, questa esperienza di sofferenza che la famiglia vive, può rappresentare un’occasione per far sviluppare in un fratello o in una sorella, capacità come l’ascolto, il sostegno, l’empatia?
Innanzitutto bisogna dire che molto dipende dall’età che i fratelli o le sorelle hanno, infatti, la relazione cambia a seconda degli anni di differenza. Importanti sono state le condivisioni delle esperienze raccontate dai genitori presenti. E' emerso quanto la relazione fraterna possa essere una risorsa nella malattia del comportamento alimentare. Certo, la personalità incide sul modo di comportarsi, ma dai racconti fatti si è evidenziato il profondo legame che si è venuto a creare spesso tra fratelli e sorelle, un legame basato sulla comprensione e soprattutto sul sostegno, in una relazione che spesso rivela una modalità comunicativa improntata sulla leggerezza. Come è accaduto nella storia di una famiglia in cui la sorella minore è riuscita, in maniera assolutamente naturale e spontanea, a sdrammatizzare la pesantezza che si può respirare nel vedere la propria sorella ricoverata in una comunità per malattie del comportamento alimentare. Lo sguardo e il modo di interpretare la sofferenza non erano tanto focalizzate sulla malattia, quanto sul modo di poter far sorridere e distrarre la sorella da quel dolore. Oppure la devozione di una sorella maggiore che si è presa così tanto carico della malattia della minore da trovarsi sfinita e priva di energia così da non poter portare avanti il suo percorso di studio universitario. Non dobbiamo dimenticare che il corpo si fa messaggero dei nostri limiti e ci allerta sempre quando stiamo chiedendo troppo a noi stessi. L’amore di questa ragazza per la sorella è talmente grande da andare al di là dei suoi progetti di vita, ma sarebbe giusto sapersi dosare affinché quel donarsi non diventi un atto sacrificale.
Spesso i genitori vivono situazioni difficili da affrontare da soli, come il trovarsi di fronte alle violente crisi di pianto di una figlia che vede il proprio corpo deformato in modo abnorme a causa della dispercezione causata dalla malattia. Un genitore in questi casi non può fare altro che abbracciare con tutto l’amore possibile, quel dolore dirompente. Però, se da una parte l’abbraccio è un atto fisico, non dobbiamo dimenticare che esso trasmette a sua volta le emozioni che si stanno provando in quel momento. Così, come un abbraccio amorevole trasmette amore, allo stesso modo un abbraccio ansioso o timoroso trasmette ansia e timore. Questo ovviamente non vuol dire che il genitore sbagli, ma mette in evidenza ancora una volta quanto sia importante che un padre e una madre si prendano cura dell’angoscia, impotenza e paura che una malattia del comportamento alimentare fa nascere in loro. E' importante che queste emozioni possano essere elaborate per far sì che ci si svuoti della loro presenza in modo da poter contenere la sofferenza dei propri figli trasmettendo protezione, amore, fiducia. Certo, non è una cosa facile, perché la malattia tende a risucchiare le energie dei familiari e soprattutto a resettare quello che si è imparato. Per questo è indispensabile lavorare costantemente su se stessi.
Paradossalmente il sintomo può essere un alleato, nel senso che costringe la famiglia a trovare un nuovo modo di comunicare. È importante che in questa situazione ci sia un sostegno idoneo capace di aiutare l’intero nucleo familiare a ricostruire una comunicazione che non usi più il linguaggio simbolico della patologia. Inizialmente la malattia del comportamento alimentare si impossessa di ogni spazio appartenente alla famiglia. Eclatante è il primato che assume nel momento dei pasti i quali vengono a ricoprirsi di rituali caratterizzati dalla restrizione, dall’abbuffata o dal voler consumare il pranzo e la cena da soli. In questo caso, cosa devono fare i familiari? Assecondare o ostacolare la messa in atto di tali comportamenti? Come al solito, non esiste una risposta unica che vada bene per tutte le situazioni. Non mi stancherò mai di ripetere che i genitori non devono diventare i terapeuti dei propri figli. Il problema non è tanto il rituale ma cosa porta la persona che ha una malattia del comportamento alimentare a mettere in atto quelle condotte, nella maggior parte dei casi alla base c’è una profonda angoscia e paura che richiedeno l’intervento di un percorso terapeutico. La famiglia a questo punto concorderà a sua volta con i terapeuti la modalità con cui gestire il delicato momento dei pasti. Ma cosa accade quando il figlio o la figlia è maggiorenne, non vuole intraprendere alcun percorso di cura, e continua a mettere in atto i suoi rituali legati alla malattia? In questo caso i genitori cosa devono fare: opporsi, e quindi entrare in conflitto, o assecondare, e quindi diventare complici della malattia? La questione si fa complessa in quanto la famiglia dinnanzi ai rituali della sintomatologia è impotente. Ma allora un genitore si deve rassegnare? Assolutamente no. Anche se nel momento dei pasti è poco quello che può fare perché non è il rituale il problema ma cosa spinge la persona a mettere in atto quella condotta, però si può cercare, nei diversi momenti della giornata, di poter avviare un dialogo, una comunicazione con la propria figlia o figlio. Ma anche qui, come nella situazione dell’abbraccio, occorre far attenzione a come ci si predispone. Se l’obiettivo è quello di far sparire il rituale, sarà difficile creare un dialogo costruttivo, poiché sarà investito di sole aspettative. È necessario quindi svuotarsi dalle proprie ansie e paure.
Trovo utile, per far comprendere questo concetto, spiegare brevemente cosa accade durante un percorso terapeutico e perché questo viene ritenuto essenziale nella cura di queste patologie. Una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare adotta, all’interno del contesto in cui vive, una modalità comportamentale e relazionale di difesa contro quelle paure che nutre dentro di se’, costruendo una sorta di “tana” in cui si sente al sicuro e protetta. Quando avverte che qualcuno attacca il suo riparo volendo allontanarla da esso, si difende in tutti i modi possibili non volendo assolutamente rinunciare a quella “tana” eretta con così tanta fatica. Nella psicoterapia cosa accade? Prima di tutto ci si trova già in un campo neutro, quindi fuori da quel contesto familiare in cui c’è la propria “tana”, che, in quel momento non sta correndo alcun pericolo. Inoltre, il contesto terapeutico permette di creare a sua volta uno spazio nuovo in cui la persona viene incoraggiata a sperimentare cosa accade in un ambiente che non è quello del suo riparo. La persona di solito finisce col provare quella nuova situazione, perché sa che una volta a casa, può ritornare nella sua “tana”, non si sente quindi minacciata. Contemporaneamente però accade che quella esperienza le susciterà via via nuove emozioni, nuove percezioni, nuove sensazioni che la porteranno poi gradualmente ad avere sempre meno paura di vivere fuori da quel rifugio, facendole così intraprende il percorso della guarigione. Questo fa capire quanto sia difficile per un genitore distruggere la “tana” della malattia del comportamento alimentare poiché il familiare è parte integrante di quel contesto stesso. E allora cosa deve fare, rinunciarvi? Assolutamente no. Anzi. Può al contrario lavorare lui per primo fuori da quel contesto. In che senso? La malattia parla attraverso un linguaggio simbolico che si esprime nell’isolamento, nelle rinunce, nelle paure, nell’anestesia di emozioni. Per contrastare la sintomatologia occorre quindi rimandarle un linguaggio che sia altrettanto simbolico ma che riporti un messaggio fatto di apertura, condivisione, gioia, desiderio, scoperta. E come si fa? Cominciando a coltivare questa visione all’interno di se’. Infatti, non si può trasmettere ciò non si ha dentro. Questo significa mettersi in gioco completamente, osservando come il linguaggio della malattia agisca sui propri pensieri, emozioni, sensazioni. Naturalmente, è impossibile cercare di compiere questa osservazione quando si è davanti alla sofferenza dei propri figli, ma si può metterla in atto in alcuni momenti della giornata, ad esempio quando facciamo la doccia. Ascoltiamo le sensazioni che ci rimanda il sentire l’acqua sul nostro corpo, come lentamente sa sciogliere le tensioni sui nostri muscoli. Chiudiamo gli occhi e notiamo come quell’acqua che scivola su di noi, riesce a farci rivivere il periodo in cui per nove mesi siamo stati immersi nel liquido amniotico del grembo materno. E assaporiamo la calma che ci rimanda. Non dimentichiamo che noi siamo fatti di acqua. L’acqua è il nostro elemento naturale. Fare questa esperienza ha un valore altamente significativa per ognuno di noi. Successivamente possiamo raccontare questa esperienza ai nostri figli, invogliarli a provarci anche loro. Chi meglio di una madre può riaccompagnare la propria figlia o figlio a ripetere quell’esperienza già vissuta nel grembo materno? Chi meglio di un padre può riaccompagnare la propria figlia o figlio a camminare sulle proprie gambe? Diventa così essenziale arricchire le nostre giornate di quelle azioni, pensieri, immagini che ci aiutano a costruire dentro di noi il nostro nuovo linguaggio simbolico che potremo finalmente comunicare ai nostri figli, libero dalle impurità della malattia.
Frase della settimana: IL LINGUAGGIO SIMBOLICO LIBERO DALLE IMPURITÀ DELLA MALATTIA
In questo momento mi trovo in difficoltà a riportare le tematiche del laboratorio poiché è stato un incontro talmente intenso a livello emotivo che mi è difficile riuscire a descrivere a parole le emozioni emerse, poiché sembra quasi di diminuirne e smorzarne il loro valore. Tutto è cominciato da una domanda: “ come può un genitore, che ha un figlio piccolo, spiegargli quello che sta accadendo alla sorella maggiore che soffre di una malattia del comportamento alimentare? ”
E’ una domanda complessa perché di solito ci si focalizza maggiormente sulla sofferenza che colpisce il figlio o la figlia portatrice del sintomo, dimenticandosi del disagio che può provare un fratello o una sorella che indirettamente ne sono comunque coinvolti. Come spiegare ad un bambino piccolo perché la sorella o il fratello hanno smesso di mangiare? Come proteggerlo dalla presenza della malattia? Sono tematiche complicate, perché vanno a comprendere non solo il rapporto che esiste tra fratelli e sorelle ma anche l’aspetto educativo e di crescita del figlio o della figlia che sono in tenera età o in adolescenza. Un bambino piccolo fa fatica a comprendere ciò che rappresenta una malattia del comportamento alimentare. Risulta difficile per noi adulti, possiamo immaginare quanto sia ostico per lui. Ciò su cui dobbiamo riflettere non è tanto cercare di dare una spiegazione su quella che è la dinamica della sintomatologia alimentare, quanto rispondere alla domanda, che, anche se è formulata attraverso ciò che sta accadendo alla sorella o al fratello, rappresenta una richiesta di aiuto. O meglio, attraverso quella domanda il bambino sta chiedendo alla propria mamma o al proprio papà di essere ascoltato, rassicurato, di non essere lasciato solo ad affrontare quelle emozioni che quella situazione “ anomala” suscita in lui.
I bambini non conoscono filtri, sono l’immagine esatta della spontaneità e della naturalezza e rimangono destabilizzati di fronte a un comportamento come quello della patologia alimentare. Un genitore in questi casi deve prima di tutto non colpevolizzarsi per quella situazione familiare venutasi a creare, accogliendo quella domanda svuotandola del linguaggio focalizzato sul cibo e riempiendola invece del linguaggio focalizzato sulle emozioni: “ Tua sorella in questo momento ha paura, e quando si ha paura, è difficile riuscire a mangiare”. E cosa fare quando qualche volta il bambino piccolo subisce direttamente la rabbia del fratello o della sorella maggiore? Un tale comportamento non può ovviamente passare inosservato, ma è inutile rimproverare il figlio o la figlia artefice di quel gesto rabbioso, poiché esso non è che la manifestazione esplicita della malattia. Quando però capita un momento di tranquillità, si prova a parlarne con il responsabile o la responsabile di quell’azione, cercando di evidenziare come sia sbagliato sfogarsi in quel modo. Parlarne aiuta non solo a rielaborare l’accaduto, ma soprattutto permette di far emergere le emozioni collegate a quel gesto. Per quanto riguarda il bambino piccolo che ha subito quegli insulti rabbiosi, si può ad esempio andargli vicino, abbracciarlo, spiegandogli che in quel momento, trasformandosi in una sorta di pungiball, ha aiutato il fratello o la sorella a tirare fuori quella paura che sentiva dentro. Questo serve a sdrammatizzare e ad alleggerire l’accaduto trasmettendogli soprattutto amore, comprensione e protezione.
Spesso non si pensa quanto una famiglia sia lasciata sola ad affrontare queste dinamiche familiari che nascono dalla presenza della malattia del comportamento alimentare. Il sintomo viene visto come un nemico da espellere e non come portatore di un cambiamento. In questa fase è importante che la famiglia venga sostenuta per accettare questo messaggio che la patologia sta inviando, affinché insieme si possa gradualmente accogliere questa richiesta di trasformazione. Come è stato accennato nel laboratorio precedente, un genitore vorrebbe che la malattia sparisse immediatamente restituendogli il figlio o la figlia esattamente come erano prima della sua comparsa. Ma questo è impossibile. Impossibile perché guarire significa anche distaccarsi dal vecchio legame familiare, che non vuol dire rinnegarlo o abbandonarlo. Tutt’altro. Significa al contrario, instaurare una nuova relazione con la propria famiglia.
Una mamma ha raccontato di come il figlio si fosse allontanato perché spaventato dalla patologia alimentare della sorella. Per anni si era rifiutato di incontrarla e di parlarle. La madre ha dovuto fare un lungo lavoro su se stessa per trasmettere al figlio un modo differente di guardare la malattia e quindi il proprio legame fraterno. Cambiare lo sguardo è essenziale. Chi soffre di una malattia del comportamento alimentare non comunica con le parole, comunica con lo sguardo. È un concetto già accennato in diversi laboratori, ma che va sempre evidenziato. La malattia costringe tutti i membri di quel nucleo familiare a mettersi in discussione e a lavorare su se stessi per ricostruirsi come famiglia.
Una mamma ha condiviso la difficile situazione che sta attraversando. Se per un momento aveva intravisto la luce della guarigione della figlia, questa si è improvvisamente spenta, gettandola in quel baratro che credeva di avere oramai superato. Emozionanti sono state le parole di sostegno di un’altra mamma che, raccontando il percorso di cura della figlia, caratterizzato da tante rovinose cadute e ricoveri, ora è guarita. Sono state parole che hanno saputo trasmettere conforto, vicinanza, comprensione e soprattutto speranza. Non esiste una guarigione indolore. La malattia del comportamento alimentare costringe tutti i membri familiari ad affrontare la propria sofferenza, a rimettersi in gioco, a guardarsi nel profondo. Stasera si è percepita la forza che nasce dall’unione condivisa dei genitori. Quanto la loro diretta esperienza possa essere un sostegno fondamentale per coloro che stanno attraversando quei momenti difficili che inevitabilmente accadono durante un percorso di cura. Solo chi ha vissuto determinate situazioni sa arrivare in modo diretto al cuore dell’altro, e l’emozione che fa emergere è un’emozione che nutre, riempie, arricchisce e crea unione.
La frase della settimana: COME SPIEGARE A UN BAMBINO PICCOLO PERCHÉ LA SORELLA O IL FRATELLO HANNO SMESSO DI MANGIARE?
Spesso quando si parla di malattie del comportamento alimentare si pensa subito all’anoressia e alla bulimia, ignorando l’esistenza di diverse forme attraverso cui si manifestano queste patologie. Una di esse è la vigoressia, o anoressia riversa, malattia che colpisce prevalentemente il genere maschile, ma dalla quale non è escluso anche il genere femminile. Se nell’anoressia c’è la ricerca ossessiva per avere un corpo sempre più magro, nella vigoressia c’è la ricerca ossessiva per avere un corpo sempre più muscoloso. Apparentemente, la vigoressia suscita meno preoccupazione perché l’attenzione verso un’ alimentazione proteica e uno stile di vita improntato allo sport fa credere che sia un comportamento salutare e corretto. In realtà, così non è, perché allo stesso modo dell’anoressia, il ragazzo o la ragazza che ne soffrono cominciano a impostare tutta la loro quotidianità solo ed esclusivamente per realizzare il raggiungimento di tale scopo, risentendone quindi anche la vita sociale, affettiva, lavorativa o scolastica.
Ogni volta che l’attenzione si focalizza solo su se stessi, si arriva poi allo isolamento e all’alienazione da tutto il resto. Ci tengo a precisare che le malattie del comportamento alimentare non hanno una gerarchia prestabilita in cui una risulta più seria dell’altra. Non è il peso, né il cibo ingerito o rifiutato, né l’etichetta cui viene associato il comportamento a determinarne la gravità. Sono tutte malattie che coinvolgono completamente la persona che ne soffre, intaccando sia la sua sfera corporea che quella mentale generando una sofferenza che è simile a tutti coloro affetti da queste patologie, e come tali devono essere curate.
Spesso accade che la famiglia che vive l’esperienza della malattia del comportamento alimentare di un figlio o di una figlia desidera che la sintomatologia possa sparire il prima possibile così da poter ritornare presto alla vita di sempre. Questo lecito desiderio in realtà rappresenta una trappola poiché la malattia porta con se’ un messaggio molto importante che è il messaggio del cambiamento. Nulla infatti può tornare come era prima. La ragazza o il ragazzo che soffrono di una malattia del comportamento alimentare avvertono il bisogno di trasformare ciò che è parte della loro vita. Ricordiamo che queste malattie sono molto complesse perché racchiudono aspetti sociali, culturali, emotivi, relazionali e di conseguenza anche familiari. L’adolescente vive una serie di stimoli che provengono dal gruppo degli amici, dalla scuola, dai mass media, da ideali di immagine estetica che lo portano naturalmente a una crisi caratterizzata dal normale processo di crescita. Quando gli stimoli diventano eccessivi e non trovano un appropriato contesto che li sappia contenere, ecco allora che può accadere di trovare nella malattia del comportamento alimentare una soluzione a quel senso di disagio, disistima e paura di non essere all’altezza delle richieste che arrivano dal mondo esterno. La famiglia, che dovrebbe essere il luogo dell’ascolto e dell’accoglienza, si trasforma agli occhi della ragazza o del ragazzo affetti da queste patologie nel luogo da cui difendersi, il luogo da attaccare. Se da una parte spaventa distaccarsi dalla protezione dei genitori, dall’altra si vuole fuggire da quella presenza costante che viene vista come un ostacolo alla propria indipendenza e identità individuale.
Questi processi, che sono in parte naturali, diventano ancor più complessi quando c’è una malattia del comportamento alimentare perché il conflitto all’ interno del nucleo familiare si fa più intenso. Frequentemente i genitori rimangono colpiti dalla rabbia e cattiveria che i figli rigettano su di loro, con l’intento preciso di ferirli e annientarli. In realtà ciò che desiderano veramente è il cambiamento, che ai loro occhi può avvenire solo se distruggono prima ciò che c’è. Il sintomo alimentare mette in luce questo bisogno di trasformare la modalità di comunicazione e convivenza tra figli e genitori, a cui il nucleo familiare non può certamente sottrarsi. Questo ci fa capire quanto sia fondamentale che la famiglia venga coinvolta nel percorso terapeutico poiché figli e genitori devono costruire insieme una nuova modalità per conoscersi e stare insieme.
Essenziale è intraprendere un percorso di cura efficace e risolutivo. Ma come si fa a trovarlo e soprattutto quali sono gli specialisti a cui rivolgersi? Innanzitutto la famiglia deve essere informata che queste malattie richiedono un percorso terapeutico molto lungo, che va solitamente dai tre ai cinque anni, è impensabile credere di poter guarire in pochi mesi. Un genitore che si trova a dover affrontare la malattia del comportamento alimentare del figlio o della figlia per prima cosa si rivolge all’asl del territorio che dovrebbe essere munita di un centro specializzato per queste patologie e da qui, a seconda della fase della malattia e della storia del ragazzo o della ragazza, si valuta il percorso terapeutico che può essere di tipo ambulatoriale, o, se è necessario, un ricovero in un centro residenziale. Il problema però sorge quando nella regione di residenza questi servizi mancano, e la famiglia, non sapendo a chi chiedere aiuto, si rivolge a professionisti privati che in teoria dovrebbero, seppure a pagamento, fornire il servizio richiesto. Purtroppo, e questo è un tema che spesso abbiamo trattato non solo nei laboratori, ci sono psicoterapeuti e nutrizionisti che non hanno una formazione specifica in malattie del comportamento alimentare.
Stasera nel laboratorio si è molto parlato della figura della nutrizionista e della funzione che ricopre all’ interno di un percorso terapeutico di malattia del comportamento alimentare. Ci sono state testimonianze di genitori che, laddove i figli erano abbastanza motivati, si sono trovati a contatto con approcci nutrizionali non adeguati per la cura di queste patologie. Un nutrizionista che si trova a prendere in carico una persona con una malattia di questo genere non può certamente prescrivere un regime alimentare basato solo sull’ apporto nutrizionale, Sappiamo bene che chi soffre di queste sintomatologie conosce a memoria tutte le proprietà nutritive degli alimenti, e sa bene come abbinare i vari cibi per avere un pasto equilibrato. La persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare cerca in realtà qualcuno che la possa finalmente guidare, prendendola per mano e accompagnandola con sensibilità e comprensione, a sciogliere quelle paure così strettamente collegate e intrecciate al cibo. Nel piatto infatti ci sono anche e soprattutto le emozioni. Abbiamo sempre detto che queste sono patologie molto complesse. Il cibo in se’ racchiude significati e simbologie che hanno a che fare con gli aspetti inconsci e primordiali della persona. Il bambino appena nasce cerca subito il latte della mamma, e attraverso il seno materno instaura la sua prima relazione con l’altro. Cibo, relazioni, affetti sono intrinsecamente intrecciati e costituiscono la trama della vita sociale ed emotiva di ognuno di noi.
La malattia del comportamento alimentare prende di mira il cibo proprio per questa sua valenza altamente ricca di significati profondi. Proprio per questo motivo, i percorsi di cura sono soggettivi e vanno progettati in base alla storia della persona stessa. Fondamentale è il lavoro di equipe, senza di esso anche lo psicoterapeuta o il nutrizionista più esperto può far ben poca cosa perché la cura ha bisogno di più figure professionali che lavorano in sinergia tra loro. E altro aspetto da cui non si può assolutamente trascendere, laddove la ragazza o il ragazzo vengono ricoverati in una struttura residenziale, è assolutamente necessario assicurare la continuazione della cura un volta che la permanenza nella struttura termina, costruendo una apposita rete di sostegno intorno al ragazzo/a e la famiglia.
Stasera molti genitori hanno condiviso la propria esperienza, creando un clima di reciproca solidarietà e aiuto diretto. Si è evidenziato anche la problematica che sorge quando un figlio è maggiorenne e non vuole avviare un percorso terapeutico. Alcuni genitori in questi casi hanno fatto la richiesta della nomina di un amministratore di sostegno, che va presentata al giudice tramite un avvocato o un assistente sociale adibito a questo ruolo. Una mamma ha potuto essere nominata amministratore di sostegno della figlia già dopo 14 giorni, tramite un’approvazione provvisoria, che comunque, avendo già un valore giuridico, le ha permesso di intervenire velocemente, senza dover aspettare la chiusura della pratica ufficiale che richiede solitamente dai 60 ai 90 giorni. Sono state tutte informazioni nate dall’esperienza diretta di genitori che si trovano ogni giorno a dover affrontare non solo problemi di gestione della malattia, ma soprattutto, si trovano a cercare con molte difficoltà la cura per i propri figli. Perché non dimentichiamo mai che ancora ad oggi in Italia sono poche le regioni che sono provviste di tutti i servizi e strutture idonee per la presa in carico delle persone che soffrono di malattie del comportamento alimentare. La famiglia si trova spesso costretta, laddove se ne hanno le possibilità economiche, a rivolgersi privatamente. E ancora una volta, ci si trova davanti alla mancanza di diritto alla cura.
La frase della settimana : LA FAMIGLIA SA ESSERE DI AIUTO
Quando tutto sembrava
essere fuori dal nostro controllo, per via della pandemia di COVID-19, io
sentivo di avere una solida routine fatta di lavoro, esercizio fisico e una
dieta salutare. Non mi sono resa conto dei segnali allarmanti, che mi hanno
portata ad essere ufficialmente diagnosticata con anoressia nervosa
restrittiva, a Dicembre 2020. Dopo mesi di puro terrore, per me e i miei cari,
con visite frequenti in ospedale, prelievi settimanali e monitoraggio di ossa e
cuore, ho capito quando potenzialmente mortali siano i disturbi del
comportamento alimentare (DCA). Le statistiche, almeno qui in U.K. riflettono
l’urgenza del problema. L’anoressia nervosa (AN) è classificata come la
malattia psichiatrica con il più alto tasso di mortalità (5%), con il 46 % di soggetti
che raggiungono il ricovero totale, solo il 33% che migliora e il %20 che
rimane malato cronico.
Non so bene quando il mio
mangiare equilibrato sia diventato ortoressia nervosa, ossessione per il cibo
sano, né quando il mio amore per la corsa sia sfociato in estremo esercizio
fisico. Tutto quello che vedevo nei social media, era una sorta di idolatria
per queste tendenze ed estrema rigidità nella dieta. Sta di fatto che alla fine
del primo lockdown inglese in Settembre, non potevo passare un giorno senza
uscire e correre, anche sotto estremo maltempo. La corsa ed esercizio
aumentava, e la quantità e qualità del cibo diminuiva.
Arrivata a Dicembre 2020 incapace di toccare la maggior parte degli alimenti, visibilmente deperita e non sapendo più cosa fare. Non avevo conoscenza di strutture disponibili, non sapeva da dove iniziare.
In Italia, durante gli anni
di educazione scolastica, non ho mai avuto corsi che spiegassero i pericoli che
questi comportamenti e la credenza di poter raggiungere “la perfezione”,
potessero avere sulla mia salute. Tutto quello che sentivo erano i danni
dell’essere in sovrappeso, mai i pericoli dell’essere in sottopeso.
Un altro problema è l’educazione alimentare e la demonizzazione di grassi, carboidrati e zuccheri. Nei supermercati, almeno in U.K ma anche in Italia, vediamo l’insorgere di alimenti zero grassi e senza zuccheri. La cultura dell’essere perennemente a dieta, del ridurre e restringere la quantità di cibo, l’enfasi sulle calorie e del “sentirsi in colpa”, sono il carburante dei DCA. Invece di insegnare che tutti gli alimenti, nelle giuste quantità, sono accettabili e trasmettere uno stile di vita equilibrato, basato sull’accettazione di noi stessi, la società ci insegna quanto siamo “imperfetti” e quanto dobbiamo “aggiustare” i nostri corpi.
I DCA non sono solo
legati al “cibo”. Il cibo per me era un veicolo, l’ultima manifestazione di
problemi molto più estesi. I DCA non solo legate solo a cibo e peso, le persone
affette possono essere a qualunque peso. La concezione di non essere “malati
abbastanza” da ricevere aiuto è uno dei principali ostacoli per avere accesso
all’assistenza sanitaria qui in U.K.
Ho potuto capire tutto questo solo iniziando una terapia specializzata, seguita da psicologi, nutrizionisti e infermiere, tutti specializzati nei DCA.
Il mio percorso mi ha aiutata a capire quando sia vitale educare la popolazione, giovane ed adulta, sui rischi, fattori e mezzi per prevenire e affrontare questi disturbi.
Solamente “riprendendo
peso” non si combattono i DCA. Bisogna capire cosa li ha provocati, quali
problemi sono mascherati dalla mancanza di cibo e come funziona la malattia.
Lavorando sia sulla parte fisica, sia su quella mentale, sono riuscita a
recuperare i kg persi, uscire da pericoli medici come il collasso cardiaco, e cambiare
le aspettative che avevo di me stessa.
A tutte le persone affette o meno da DCA raccomando di informarsi, condividere storie, alzare il livello di consevolezza della situazione. Prima di arrivare all’ospedalizzazione ci sono molti passi in cui si può aiutare/essere aiutati nel ricovero.
Samantha
Il laboratorio di stasera ha affrontato una tematica molto cara a chi soffre di una malattia del comportamento alimentare: il diritto alla cura. Sono state molte le condivisioni da parte dei genitori partecipanti e molte le emozioni trasmesse.
Tra i diversi racconti è emerso quanto ancora manchi una preparazione specifica nelle malattie del comportamento alimentare per le figure professionali come pediatri e medici di base, non solo come formazione diagnostica della patologia ma anche come conoscenza delle strutture di cura presenti sul territorio. Come è accaduto a una mamma residente in Umbria la quale si è trovata ad essere indirizzata dal pediatra della figlia verso psicologi privati generici, quindi senza alcuna specializzazione in malattie del comportamento alimentare, quando la regione stessa è provvista di tutte le strutture e i servizi sanitari necessari per la cura di queste patologie. E questo diventa un fattore ancora più grave quando la diretta interessata è una ragazzina di 11 anni con una sintomatologia alimentare ancora agli albori ma poi divenuta avanzata dall’approccio terapeutico non adatto. Sono storie che accadono e purtroppo anche di frequente, anche in un territorio in cui potenzialmente esiste una buona rete per la cura di queste malattie.
Alcuni genitori hanno invece dovuto affrontare i cosiddetti “viaggi della speranza”, emigrando in regioni lontane dalla propria per poter assicurare una cura adeguata alla propria figlia o figlio ammalato. Altri ancora invece hanno potuto usufruire dei servizi sul proprio territorio, riscontrando una buona preparazione e conoscenza sia della malattia che dei percorsi terapeutici da affrontare. Per tutte queste storie c’è però un qualcosa in comune: l’assenza iniziale di un sostegno alla famiglia per la sofferenza e il disagio che una malattia del comportamento alimentare crea all’interno di un nucleo familiare. Non ci riferiamo solo alle figure genitoriali ma anche a sorelle e fratelli che si trovano coinvolti a vivere questa patologia come osservatori passivi, privandoli di quel rapporto unico e speciale che si crea e si costruisce quando si è piccoli e si condividono le stesse esperienze e lo stesso contesto ambientale. La malattia cancella tutto, disintegra gli affetti, le relazioni, lo stare insieme. Un vortice che isola e rende impotenti poiché mancano gli strumenti per capire quello che sta accadendo.
Tenere la famiglia lontano dalla cura è un errore, poiché sia la persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare sia il sistema familiare della stessa, hanno bisogno di intraprendere un percorso parallelo per andare a ridefinire quel linguaggio che si è nel frattempo trasformato e che ora comunica solo attraverso il sintomo alimentare. Ne è la prova quando una figlia in struttura riesce a gestire in qualche modo la malattia ma appena arriva a casa, appena si ritrova tra le mura domestiche, questa riprende in tutto il suo vigore. Accade perché è venuta a mancare tra figli e genitori la ricostruzione e il successivo ancoraggio di un nuovo linguaggio, continuando inevitabilmente ad usare lo stesso stile comunicativo proprio della malattia. A questo riguardo un papà ha raccontato di come ad un tratto nella sua vita sia venuto in contatto con una psicoterapeuta del servizio sanitario locale, la quale, con empatia e professionalità, ha saputo accompagnare lui e tutta la sua famiglia verso quelle che erano le risorse insite delle dinamiche familiari, portando alla luce la qualità dei sentimenti e districando così i nodi che rendevano la comunicazione tra figli e genitori distorta e incomprensibile. Spesso una madre e un padre si trovano avvinghiati nel terribile senso di colpa che li blocca nella ricerca ossessiva di trovare la causa che ha generato lo sviluppo della malattia nei propri figli. Se questo processo da una parte è comprensibile che avvenga, dall’altra risulta spesso inutile e controproducente perché oltre a non arrivare a nessuna soluzione, aumenta la sensazione di venir risucchiati ancora di più dalle dinamiche della malattia del comportamento alimentare. Ricordiamo che alla base di queste patologie ci sono più cause: sociali, personali, biologiche, genetiche, familiari, emotive, relazionali, culturali in cui ognuna di esse si intreccia l’una con l’altra. Quindi non esiste un solo motivo per cui ci si ammala poiché si tratta di malattie multifattoriali. Ecco allora che un genitore più del porre attenzione su ciò che può aver causato la malattia, può invece indirizzare le proprie energie verso ciò che è il momento presente, cercando di capire quello che sta accadendo nel qui e ora. Questo lo può aiutare maggiormente a comprendere ciò che la propria figlia o figlio sta vivendo, sentendo, percependo in quel preciso istante, trovando quindi un punto di incontro nella loro relazione. Una cosa importante del lavoro personale del genitore è quello di cominciare a osservare il linguaggio con cui di solito si esprime, poiché le parole che egli usa vanno a determinare conseguentemente il suo modo di comportarsi e soprattutto di guardare. Lo sguardo è un mezzo di comunicazione molto potente per chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Capita spesso che il figlio o la figlia ponga molta più attenzione allo sguardo rispetto alla parola che viene pronunciata. Occorre che tra questi due elementi non ci sia contraddizione o ambiguità perché laddove lo sguardo non rispecchia la parola, le dinamiche sintomatologiche aumentano di intensità. Nell’anoressia si intensifica la restrizione, nella bulimia e binge l’ abbuffata.
Non dimentichiamo che alla base di una malattia del comportamento alimentare c’è la mancata costruzione di un’identità adulta. La persona che soffre di anoressia o bulimia rimane intrappolata in una fase di crescita legata ancora all’infanzia. Non si trova preparata a divenire adulta e ancor di meno ad accettare un corpo che nel frattempo sta cambiando. Ecco allora che andare a
controllare i processi legati alla sua crescita può rappresentare il suo tentativo di fuga dalla paura di diventare donna o uomo. Rifiutare il cibo o assumerne in abbondanza rappresenta così la modalità con la quale cerca di rimanere aggrappata a quel mondo dell’infanzia che la fa sentire ancora protetta e soprattutto al riparo dall’ambiente esterno che tanto la spaventa. Alla base c’è quindi un processo identitario bloccato nella sua normale evoluzione di crescita. Ecco che quel sano conflitto messo in atto per affermare la propria autonomia non viene più rivolto verso i propri genitori ma si scaglia con violenza contro se stessa, contro quell’immagine di se’ che non corrisponde più a ciò che è stata fino a quel momento. E così, attraverso la malattia del comportamento alimentare si cerca di annullare quel forte disagio e paura nel vedere un corpo che cambia non sentendolo più proprio. E qui ritorniamo al concetto iniziale del diritto alla cura. Non è più possibile accettare percorsi terapeutici superficiali o peggio completamente inadeguati per mancanza di personale qualificato e/o relativi servizi. Come non è più possibile accettare che una famiglia sia lasciata sola, sola ad affrontare la sofferenza e l’angoscia nel vedere una figlia o un figlio che si ammala di una malattia del comportamento alimentare. Sono malattie, e come tali, devono essere curate.
La frase della settimana è: IL DIRITTO ALLA CURA.
Che cosa può fare un genitore quando una figlia che soffre di una malattia del comportamento alimentare inizia una convivenza e contemporaneamente interrompe il suo percorso di cura?
È una domanda che solleva molti aspetti da osservare. Quando una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare decide di mettere in atto un progetto come quello di condividere la propria vita con il partner, è tentata di abbandonare il percorso di cura psicoterapeutico e nutrizionale intrapreso fino ad allora poiché crede di non averne più bisogno, visto che in quel momento sta vivendo un’apparente luna di miele. La stessa luna di miele che si vive con il sintomo alimentare agli inizi della malattia. Infatti, quando non si è raggiunto un equilibrio stabile, è facile che si possano creare relazioni basate sulla dipendenza. È assai frequente che la persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare tenda a trattare le persone nella stessa maniera in cui lei tratta il cibo.
Ritornando alla domanda iniziale, se la figlia o il figlio, in questo caso maggiorenne, ha smesso di partecipare agli incontri di psicoterapia e di nutrizione previsti nel suo programma di cura, a livello decisionale un padre e una madre non hanno purtroppo molta voce in capitolo. Questo però non vuol dire che bisogna affidarsi alla buona sorte e sperare che tutto vada bene. Non è così che si affrontano le difficoltà. Probabilmente, la persona in questione sta vivendo un momento in cui si sente felice della scelta fatta, le sembrerà di aver trovato la soluzione al suo disagio interiore, comincerà a fare nuovi progetti e le sembrerà di aver finalmente dato una svolta definitiva alla sua vita. Il che potrebbe anche essere vero, se non fosse per la rinuncia alla psicoterapia poiché questo denota che in realtà si è momentaneamente proiettato la dipendenza dal rapporto col cibo nel rapporto con l’altro. Momentaneamente, perché in seguito le due dipendenze incominceranno a convivere, trasformando la luna di miele in due gabbie: la gabbia del cibo e la gabbia della relazione col partner.
A volte accade che in una situazione del genere la persona coinvolta allontani o cerchi di evitare qualsiasi tipo di contatto con la sua famiglia originaria, proprio per distaccarsi da quello che rappresenta il suo passato e quindi evidenziare ancora di più la scelta trasformativa messa in atto in quel periodo della sua vita. Si viene così a creare una situazione in cui un genitore, oltre a vedere la scelta azzardata della figlia o figlio si trova contemporaneamente ad essere rifiutato ed è inevitabile cadere in uno stato di ansia e preoccupazione difficile da gestire in modo autonomo. In questi casi, c’è bisogno che il genitore chieda un sostegno psicologico per se stesso, perché le dinamiche che emergono possono creare stati depressivi o di agitazione in cui è difficile trovare una soluzione da soli. Senza pensare che in una condizione simile, diventa impossibile poter avviare una comunicazione costruttiva con la propria figlia o figlio. Inoltre, nonostante i tentativi di evitamento messi in atto nei suoi confronti, è importante che il genitore non attribuisca questi a qualche sua ipotetica colpa. Torniamo a ripetere che la famiglia deve togliersi di dosso questa etichetta che il contesto sociale e culturale le ha affibbiato per anni. Certo, la famiglia perfetta non esiste, ma dobbiamo sempre pensare che laddove si agisce per amore, risiede sempre la risorsa, che va riscoperta e ricalibrata per trovare il suo giusto allineamento.
È frequente che un genitore pensi che non potrà mai essere felice finché il proprio figlio o figlia soffre di una malattia del comportamento alimentare. Come già detto in altri laboratori, non si comunica solo con le parole. Anzi. Sappiamo quanto queste malattie agiscano attraverso un linguaggio simbolico che spesso si nutre di sguardi, di gesti, del non detto. Ed ecco allora che quel desiderio che si credeva di aver ben taciuto in realtà viene trasmesso, caricando il proprio figlio o figlia della responsabilità della felicità genitoriale. Questo per dire che quando si ha a che fare con una malattia del comportamento alimentare occorre abbandonare qualsiasi tipo di aspettativa, soprattutto quelle a breve termine, come il credere che basti avviare il percorso di cura per vedere presto i risultati. Purtroppo non è così. Anzi. I tempi di guarigione sono lunghi, condizione sempre difficile da accettare per un padre e una madre. Si vorrebbe ritornare a quella che era la vita prima del sintomo, ma anche qui dobbiamo ricordarci che niente capita per caso. E il sintomo infatti è arrivato con una sua precisa funzione. Certo, non è facile comprendere questi processi, richiedono un lavoro personale che coinvolge tutti i membri della famiglia interessata. Innanzitutto queste malattie costringono a rivedere le modalità di comunicazione. Il sintomo
stesso rappresenta la diretta provocazione di un sistema comunicativo che non funziona più. Per ricostruire un nuovo linguaggio condiviso da tutti ci vuole tempo, perché dapprima si è costretti ad imparare il nuovo lessico messo in atto dalla malattia stessa.
Come è emerso più volte, la difficoltà maggiore sta nel riuscire a comprendere chi realmente sta parlando quando si è di fronte alla propria figlia o figlio. A livello razionale sappiamo che la malattia del comportamento alimentare è prima di tutto una malattia mentale, ma nella pratica facciamo fatica a comprendere che occorre distinguere la parte sana da quella malata. Essendo una malattia che coinvolge la mente, resta invisibile, per cui si fa fatica a scorgere queste due polarità. Non è come vedere un braccio o una gamba rotta. In automatico li si vede e non viene da chiedere alla persona dolorante di fare qualcosa per camminare o muoversi. Davanti a una malattia mentale spesso questo non accade. Si tende a credere che la persona quando parla sia sempre la stessa, ma così non è, perché con una malattia del comportamento alimentare il modo di ragionare e di pensare non è sempre uguale. Infatti a parlare a volte è la parte sana e a volte la parte malata. Essere in grado di intravedere questa differenza non è facile perché il confine tra le due è molto sottile. Ma arrivare a riuscire a distinguere chi realmente in quel momento sta comunicando nella relazione, permette di saper tenere testa alla malattia quando è questa ad essere presente. Raggiungere tale intento significa andare a ridurre il potere manipolatorio che essa esercita, producendo l’effetto di trasformare quel imperante monologo interiore che la malattia instaura con la persona che soffre di questa patologie. Mediare il monologo interiore ha un significato importante perché vuol dire incominciare ad avviare un dialogo. È quando una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare incomincia a dialogare con se stessa, si è avviato il vero percorso di cura. Quindi se il sintomo da una parte complica la relazione, dall’altra permette di mettere in gioco tutto il sistema familiare, affinché quegli sguardi resi sfuggenti dalla malattia possano di nuovo tornare a incrociarsi per riconoscersi in quel linguaggio comune che nasce e si nutre dell’amore puro e incontaminato che esiste tra genitori e figli.
Frase della settimana: IN UNA MALATTIA DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE CHI È CHE
PARLA?
Cosa accade quando una figlia che soffre di una malattia del comportamento alimentare rientra a casa dopo una vacanza trascorsa con gli amici e il fidanzato? Può succedere che ritorni entusiasta, felice e spensierata per le esperienze vissute, ma purtroppo accade di frequente che ritorni più impaurita, più insicura, con il bisogno impellente di riprendere in mano il controllo apparentemente perso.
I genitori in questa situazione si rivedono piombare davanti agli occhi il sintomo nella sua modalità piu’ visibile, suscitando spesso la paura e la rabbia per essere costretti a convivere con quelle immagini che vorrebbero cancellare dalla propria vita. Purtroppo quando c’è una sintomatologia quale la malattia del comportamento alimentare, è inevitabile il dover convivere con essa. Questo non significa una convivenza a vita, poiché da queste malattie, ci teniamo a sottolinearlo, si guarisce. Spesso i genitori nutrono aspettative di guarigione a breve termine, ed è importante chiarire fin da subito che il percorso di cura richiede un tempo molto lungo. Un percorso che coinvolge non solo la persona sofferente, ma l’intera famiglia, poiché è impossibile non rimanere influenzati dalle dinamiche che la malattia mette in
atto. Ritornando all’episodio del rientro a casa dei figli dopo una vacanza trascorsa con gli amici, la famiglia si trova ad affrontare frequentemente situazioni difficili da gestire. Il controllo eccessivo verso il cibo, la rabbia, l’aggressività, l’ autolesionismo, l’ iperattività’. I genitori sono impreparati a tali manifestazioni: “ Ma come? Sei andata in vacanza, ti sei divertita, tanto da non avermi nemmeno chiamata, e ora torni, nervosa, aggressiva, e mi tratti come se fossi uno zerbino?” Il sentirsi trattata come uno zerbino è il sentimento che una mamma ha provato in maniera molto intensa in questi giorni. Il risentimento, il dispiacere, la frustrazione nel rendersi conto che la figlia si rivolge a lei solo quando ne ha strettamente bisogno, tanto è vero che in vacanza non si era nemmeno degnata di farle una telefonata per dirle come stava. Questo atteggiamento ovviamente l’ha ferita molto perché ha sentito di non avere alcuno spazio nella vita della figlia. In realtà non è che una percezione personale perché ciò che i figli provano veramente non lo possiamo mai conoscere fino in fondo. Ma una cosa è certa: ogni figlio ama il proprio genitore, anche se la malattia si diverte a nasconderlo riflettendone una manifestazione distorta.
Una ragazza ha raccontato quanto sia stato sempre difficile per lei dimostrare il suo amore verso i genitori. Ricorda ancora le tante sedute di terapia dedicate al suo essere bloccata nell’esprimere i suoi sentimenti di affetto, cosa che invece non accadeva nelle manifestazioni di rabbia. L’aggressività, infatti, è un canale attraverso cui si comunica tutto ciò che è congelato dentro di se’ e che nasconde una disperata richiesta di aiuto. E sulla richiesta di aiuto c’è un passaggio importante da focalizzare. Accade frequentemente che i figli chiedano la collaborazione dei genitori per compiere anche semplici commissioni come ad esempio la compilazione di pratiche burocratiche riguardanti il lavoro o la scuola. Laddove poi il figlio appare quasi menefreghista e rinunciatario, viene d’istinto rispondergli “ Se chiedi aiuto e poi non lo accetti allora arrangiati”. Qui c’è il passaggio importante da non trascurare. Un passaggio che sembra banale ma che così banale non è. Rispondere “arrangiati” ad una richiesta di aiuto non accolta, vuol dire bloccare sul nascere ogni tipo di comunicazione e rapporto. Non dimentichiamo che la malattia del comportamento alimentare cancella la capacità di relazionarsi con gli altri. È come un computer cui vengono cancellati tutti i programmi e quindi necessita andarli a resettare. Tu puoi pigiare il tasto quanto vuoi, ma se manca la riprogrammazione, l’avvio non avviene. Ed è inutile che ti arrabbi. Lo stesso avviene con la malattia del comportamento alimentare. Si è “cancellata” la capacità di comunicare e bisogna andare a re-impostare, re-imparare tale modalità. Riferendoci alla situazione precedente, anziché rispondere “arrangiati”, si può domandare che cosa è che vieta di affrontare quella situazione; di cosa si ha paura. È facile che il genitore non riceverà in cambio alcuna risposta; anzi, addirittura potrebbe sentirsi dire di non impicciarsi. E qui sta il passaggio importante. Nel momento in cui si chiede aiuto, occorre essere consapevoli che bisogna accettare anche la relazione con l’altro. L’interessamento del genitore non è invadenza, non è impicciarsi ma è rispondere in maniera coerente alla richiesta di aiuto ricevuta. Mettere in evidenza questo concetto permette ai figli di elaborare la loro modalità dì risposta e soprattutto, a riflettere sulla presenza e sulla partecipazione dell’altro. Significa resettare quel programma cancellato, in modo tale che possa riavviarsi ogni qualvolta lo si vada a richiamare.
È importante che il genitore si protegga da queste dinamiche della malattia. E come fare? Occorre divenire consapevoli di ciò che crea sofferenza, rabbia, frustrazione. E come di fa? Parlandone. Il laboratorio serve a questo: permettere ai genitori di esprimere all’esterno ciò che crea disagio e sofferenza. Sappiamo bene quanto sia indispensabile dare voce al proprio mondo interiore. Tutto ciò che è reso silente, si ingigantisce perché non riesce a trovare una spiegazione. Il poterne parlare aiuta a rendere visibile e ridimensionare ciò che preoccupa e allo stesso tempo permette di acquisire strumenti per poter fronteggiare in maniera diversa ciò che accade. Risulta utile ritagliarsi un proprio spazio in cui rifugiarsi ogni qual volta se ne senta il bisogno. Può essere leggere un libro, fare una passeggiata, dedicarsi a qualcosa che fa piacere, ma anche semplicemente alzare lo sguardo e osservare il cielo, perdendosi in esso.
Un altro concetto importante su cui riflettere riguarda il perdono. A volte chi ha una malattia del comportamento alimentare non riesce a perdonare i propri genitori per delle mancanze cui sentono e credono di aver sofferto. E questo li porta a inscenare una costante guerra che si consuma nell’ambiente familiare. Ovviamente queste tematiche devono essere analizzate in un percorso terapeutico, ma anche il genitore può fare qualcosa. Come? Partendo da se stesso. Cominciando a perdonarsi per tutte quelle colpe che ingiustamente si attribuisce nei confronti dei figli. Pensiamo all’etimologia della parola perdonare. Deriva da “per - donare”. Quindi implica un dono. Un dono che è racchiuso dentro a ognuno di noi e che richiede di essere liberato dalle grinfie della rabbia. Un genitore che si perdona insegna a sua volta ai figli come si fa a perdonarsi. E quando un figlio si perdona, gli si apre innanzi la strada verso la ricerca di se stesso, verso il desiderio di essere aiutato a riprendersi quella vita tenuta in ostaggio dalla malattia.
Frase della settimana : PER “DONARE” OCCORRE PRIMA PERDONARSI
Il laboratorio di stasera si è tinto di sfumature che sono diventate attimo dopo attimo sempre più intense. Accade ogni volta che si parla di emozioni, ed è inevitabile poiché la malattia del comportamento alimentare è di fatto la chiara espressione dell’incapacità di gestire ciò che si prova a livello di sensazioni e percezioni corporee. Tutto ciò che non viene espresso emotivamente si esprime poi attraverso il cibo: l’abbuffata o la restrizione diventano lo specchio dell’ emozione desiderata o dell’emozione rifiutata.
Una coppia di genitori ha raccontato quanto la figlia abbia provato più volte a farli sentire in colpa attraverso i soliti messaggi telefonici di accusa per il loro essere andati in vacanza. Oramai consapevoli del meccanismo manipolatorio della malattia, hanno tentato di non farsene condizionare, ma l’emozione fastidiosa comunque c’è stata e hanno cercato di gestirla elaborandola a livello razionale “ ma si dai, intanto non serve a nulla prendersela...fa sempre così appena ci allontaniamo da casa”. Spesso chi soffre della malattia del comportamento alimentare è molto centrato su se stesso, non riesce a percepire la sofferenza dell’altro perché è troppo il disagio che avverte e ha bisogno di sapere che le persone intorno a lui o lei sono preoccupati. Come se l’apprensione dell’altro desse a loro il valore di esistere e di non sentirsi così alienati da se stessi. Ogni volta che l’attenzione viene negata, è facile che emerga una rabbia molto intensa. Come se il figlio o la figlia volesse che i genitori entrassero insieme a lei in quella stessa gabbia costruita appositamente dalla patologia. Il rifiuto di farlo li destabilizza, il genitore ovviamente fa bene ad opporsi, solo che spesso accade che egli stesso vada a costruire parallelamente un’altra gabbia che lo incastra in pensieri focalizzati costantemente sulla malattia e sul cosa fare per aiutare i propri figli.
Non mi stancherò mai di ripetere che il genitore non può trasformarsi in un terapeuta. È impensabile che un padre o una madre possano curare la malattia del comportamento alimentare di cui soffre il figlio o la figlia. E allora la famiglia deve rassegnarsi? Assolutamente no. Questo è un tema che sta tornando spesso nei laboratori perché è l’aspetto che più preoccupa i genitori di figli maggiorenni che rifiutano il percorso terapeutico. E allora che cosa si può fare? E qui parliamo delle emozioni. Molto significativa è stata la condivisione di una mamma che ha saputo descrivere il suo ritrovato dialogo con la figlia nel momento in cui ha permesso alle sue emozioni di potersi esprimere. Il suo racconto è stato ed è un esempio importante e prezioso per molti genitori. Spesso ci troviamo a soffocare quello che proviamo perché si tende a voler proteggere i figli, credendo che così facendo li si preservi dal provare ulteriori sofferenze. Non accorgendosi però che questo comportamento può al contrario esporli maggiormente a provare eventuali disagi. I figli apprendono il modello che vedono applicato dai loro genitori. Davanti a un padre o una madre che nascondono le proprie emozioni per timore di far preoccupare i figli, si ignora che in quel momento si sta inviando il messaggio che le emozioni non vanno espresse. Questa mamma lo ha fatto per tanto tempo perché a sua volta le era stato insegnato che non bisognava mai farsi vedere deboli, insicuri, bisognosi di aiuto. Finché un giorno la figlia le ha esternato attraverso sia la malattia del comportamento alimentare sia a parole chiare il suo malessere nella mancata condivisone delle sensazioni, sentimenti, percezioni familiari. Infatti, si erano ritrovate entrambe ad interpretare la realtà circostante attraverso un continuo non detto, che ha creato tante ombre, la più grande di tutte quella rappresentata dalla malattia del comportamento alimentare. Questo le ha portate ad iniziare un percorso terapeutico, diverso sotto certi aspetti, ma simile nell’imparare a dare nome ed espressione alle proprie emozioni.
Il cibo sappiamo che non è il problema. Non aiuta mai chiedere “ Hai mangiato? Hai seguito a dovere lo schema alimentare?” Queste sono domande che paralizzano, creano paura in chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Diverso invece è domandare “Come ti senti? Cosa provi? Come reagisci quando percepisci che qualcosa non va? Che cosa fai per gestire ciò che senti?”
Queste domande aiutano a esplorare il mondo delle emozioni. Aiutano a far chiarezza in quello che accade dentro di se’: cosa spaventa, cosa fa gioire, cosa piace, cosa infastidisce... ogni emozione va esperita. Non ci sono emozioni completamente positive o completamente negative. Hanno tutte una loro finalità. Un genitore che non ha vissuto la condizione migliore per esprimere le sue esperienze emotive prova un grande senso di colpa per non essere stato un modello corretto per i propri figli. Ma questo non ha ragione di esistere. Le emozioni non possono essere insegnate perché vengono apprese solo attraverso il viverle direttamente. È importante divenire consapevoli di questi processi per poter iniziare un lungo e bellissimo viaggio dentro al mondo delle emozioni e dei sentimenti. Come ho scritto precedentemente, l’emozione inespressa si manifesta poi attraverso il corpo che è il mezzo attraverso cui ognuno di noi entra in contatto con il mondo circostante. Osservare l’emozione, guardare come la mente cerca di elaborarla immediatamente a livello razionale, come se ne volesse prendere subito le distanze, sentire in quale punto del corpo viene percepita, con quale intensità, darle il tempo perché riveli il messaggio che porta con se’. Spesso il messaggio arriva attraverso delle immagini, che sono un simbolo su cui porre la propria attenzione poiché in esse vi è racchiuso il senso dell’emozione vissuta. Nel momento che ne diveniamo consapevoli, accade ogni volta di piangere. Questo pianto liberatorio rappresenta l’emozione che finalmente si è sbloccata, accompagnata da una sensazione di apertura nella
zona del torace..e piano piano riaffiora tutto il nostro respiro. Pensate quanto possa essere trasformativo fare una simile esperienza con i propri figli. Riscoprire insieme le emozioni assopite, nascoste, negate, recluse.
La malattia del comportamento alimentare si manifesta in un’ età evolutiva precisa che determina l’arresto della crescita. Può risalire a quando si era bambini, adolescenti o addirittura neonati. Il viaggio delle emozioni permette sia ai genitori che ai figli di ritornare a quel periodo “ simbiotico” in cui madre e padre fungono da contenitore emotivo per permettere ai figli di apprendere il mondo meraviglioso delle emozioni e infondere quel senso di protezione e sicurezza che sono fondamentali per la propria crescita.
A questo punto voglio riportare un testo della scrittrice Elena Bernabe’ ( che ho riadattato su questa tematica) che riassume molto bene il ruolo e il significato prezioso del nostro sentire.
“ Mamma, Papà, mi sento sola....” “ Perché stai rifiutando la presenza. Quando invece è dentro di te tutta l’attenzione che ti può nutrire. Non stai facendo compagnia alle parti di te più profonde e chiedi al mondo che qualcuno lo faccia al posto tuo.” “ Non posso vivere con questa emozione.” “ Le emozioni non sono da eliminare ma da trasformarne l’essenza: da servitrici della tua interiorità a corona della tua regalità...da catene che imprigionano ad ali per spiccare il volo...da regole implicite da seguire a intuizioni da mescolare. Una persona non può curare la tua solitudine: solo tu puoi farlo.” “ E come si fa?” “ Accogliendola nella tua vita. Come il più importante degli strumenti di osservazione interiore. Il sentirsi soli, l’angoscia del vuoto ...sono il microscopio dell’anima: ti permettono di vedere ciò che nel trambusto giornaliero della vita passa inosservato.” “ Se mi guardo dentro mi sentirò meno sola?” “ Bambina mia, quel sentirti sola, quel vuoto ti faranno conoscere così tante parti di te che ti sorprenderai. Queste parti le ritroverai nel mondo. Pronte a venire a te per arricchirti. Ricordati: l’amore non è un vuoto da riempire, ma un’assenza da ricamare con l’ attenzione.”
Frase della settimana: ESPLORARE LE EMOZIONI