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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

venerdì 19 novembre 2021

Il linguaggio simbolico libero dalle impurità della malattia - Laboratorio del 16 Novembre

 

 

Il laboratorio scorso ha suscitato alcune riflessioni importanti: un fratello o una sorella sono una risorsa o un’ulteriore difficoltà per una famiglia che deve affrontare una malattia del comportamento alimentare di una figlia o di un figlio? E inoltre, questa esperienza di sofferenza che la famiglia vive, può rappresentare un’occasione per far sviluppare in un fratello o in una sorella, capacità come l’ascolto, il sostegno, l’empatia? 

Innanzitutto bisogna dire che molto dipende dall’età che i fratelli o le sorelle hanno, infatti, la relazione cambia a seconda degli anni di differenza. Importanti sono state le condivisioni delle esperienze raccontate dai genitori presenti. E' emerso quanto la relazione fraterna possa essere una risorsa nella malattia del comportamento alimentare. Certo, la personalità incide sul modo di comportarsi, ma dai racconti fatti si è evidenziato il profondo legame che si è venuto a creare spesso tra fratelli e sorelle, un legame basato sulla comprensione e soprattutto sul sostegno, in una relazione che spesso rivela una modalità comunicativa improntata sulla leggerezza. Come è accaduto nella storia di una famiglia in cui la sorella minore è riuscita, in maniera assolutamente naturale e spontanea, a sdrammatizzare la pesantezza che si può respirare nel vedere la propria sorella ricoverata in una comunità per malattie del comportamento alimentare. Lo sguardo e il modo di interpretare la sofferenza non erano tanto focalizzate sulla malattia, quanto sul modo di poter far sorridere e distrarre la sorella da quel dolore. Oppure la devozione di una sorella maggiore che si è presa così tanto carico della malattia della minore da trovarsi sfinita e priva di energia così da non poter portare avanti il suo percorso di studio universitario. Non dobbiamo dimenticare che il corpo si fa messaggero dei nostri limiti e ci allerta sempre quando stiamo chiedendo troppo a noi stessi. L’amore di questa ragazza per la sorella è talmente grande da andare al di là dei suoi progetti di vita, ma sarebbe giusto sapersi dosare affinché quel donarsi non diventi un atto sacrificale. 

Spesso i genitori vivono situazioni difficili da affrontare da soli, come il trovarsi di fronte alle violente crisi di pianto di una figlia che vede il proprio corpo deformato in modo abnorme a causa della dispercezione causata dalla malattia. Un genitore in questi casi non può fare altro che abbracciare con tutto l’amore possibile, quel dolore dirompente. Però, se da una parte l’abbraccio è un atto fisico, non dobbiamo dimenticare che esso trasmette a sua volta le emozioni che si stanno provando in quel momento. Così, come un abbraccio amorevole trasmette amore, allo stesso modo un abbraccio ansioso o timoroso trasmette ansia e timore. Questo ovviamente non vuol dire che il genitore sbagli, ma mette in evidenza ancora una volta quanto sia importante che un padre e una madre si prendano cura dell’angoscia, impotenza e paura che una malattia del comportamento alimentare fa nascere in loro. E' importante che queste emozioni possano essere elaborate per far sì che ci si svuoti della loro presenza in modo da poter contenere la sofferenza dei propri figli trasmettendo protezione, amore, fiducia. Certo, non è una cosa facile, perché la malattia tende a risucchiare le energie dei familiari e soprattutto a resettare quello che si è imparato. Per questo è indispensabile lavorare costantemente su se stessi. 

Paradossalmente il sintomo può essere un alleato, nel senso che costringe la famiglia a trovare un nuovo modo di comunicare. È importante che in questa situazione ci sia un sostegno idoneo capace di aiutare l’intero nucleo familiare a ricostruire una comunicazione che non usi più il linguaggio simbolico della patologia. Inizialmente la malattia del comportamento alimentare si impossessa di ogni spazio appartenente alla famiglia. Eclatante è il primato che assume nel momento dei pasti i quali vengono a ricoprirsi di rituali caratterizzati dalla restrizione, dall’abbuffata o dal voler consumare il pranzo e la cena da soli. In questo caso, cosa devono fare i familiari? Assecondare o ostacolare la messa in atto di tali comportamenti? Come al solito, non esiste una risposta unica che vada bene per tutte le situazioni. Non mi stancherò mai di ripetere che i genitori non devono diventare i terapeuti dei propri figli. Il problema non è tanto il rituale ma cosa porta la persona che ha una malattia del comportamento alimentare a mettere in atto quelle condotte, nella maggior parte dei casi alla base c’è una profonda angoscia e paura che richiedeno l’intervento di un percorso terapeutico. La famiglia a questo punto concorderà a sua volta con i terapeuti la modalità con cui gestire il delicato momento dei pasti. Ma cosa accade quando il figlio o la figlia è maggiorenne, non vuole intraprendere alcun percorso di cura, e continua a mettere in atto i suoi rituali legati alla malattia? In questo caso i genitori cosa devono fare: opporsi, e quindi entrare in conflitto, o assecondare, e quindi diventare complici della malattia? La questione si fa complessa in quanto la famiglia dinnanzi ai rituali della sintomatologia è impotente. Ma allora un genitore si deve rassegnare? Assolutamente no. Anche se nel momento dei pasti è poco quello che può fare perché non è il rituale il problema ma cosa spinge la persona a mettere in atto quella condotta, però si può cercare, nei diversi momenti della giornata, di poter avviare un dialogo, una comunicazione con la propria figlia o figlio. Ma anche qui, come nella situazione dell’abbraccio, occorre far attenzione a come ci si predispone. Se l’obiettivo è quello di far sparire il rituale, sarà difficile creare un dialogo costruttivo, poiché sarà investito di sole aspettative. È necessario quindi svuotarsi dalle proprie ansie e paure. 

Trovo utile, per far comprendere questo concetto, spiegare brevemente cosa accade durante un percorso terapeutico e perché questo viene ritenuto essenziale nella cura di queste patologie. Una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare adotta, all’interno del contesto in cui vive, una modalità comportamentale e relazionale di difesa contro quelle paure che nutre dentro di se’, costruendo una sorta di “tana” in cui si sente al sicuro e protetta. Quando avverte che qualcuno attacca il suo riparo volendo allontanarla da esso, si difende in tutti i modi possibili non volendo assolutamente rinunciare a quella “tana” eretta con così tanta fatica. Nella psicoterapia cosa accade? Prima di tutto ci si trova già in un campo neutro, quindi fuori da quel contesto familiare in cui c’è la propria “tana”, che, in quel momento non sta correndo alcun pericolo. Inoltre, il contesto terapeutico permette di creare a sua volta uno spazio nuovo in cui la persona viene incoraggiata a sperimentare cosa accade in un ambiente che non è quello del suo riparo. La persona di solito finisce col provare quella nuova situazione, perché sa che una volta a casa, può ritornare nella sua “tana”, non si sente quindi minacciata. Contemporaneamente però accade che quella esperienza le susciterà via via nuove emozioni, nuove percezioni, nuove sensazioni che la porteranno poi gradualmente ad avere sempre meno paura di vivere fuori da quel rifugio, facendole così intraprende il percorso della guarigione. Questo fa capire quanto sia difficile per un genitore distruggere la “tana” della malattia del comportamento alimentare poiché il familiare è parte integrante di quel contesto stesso. E allora cosa deve fare, rinunciarvi? Assolutamente no. Anzi. Può al contrario lavorare lui per primo fuori da quel contesto. In che senso? La malattia parla attraverso un linguaggio simbolico che si esprime nell’isolamento, nelle rinunce, nelle paure, nell’anestesia di emozioni. Per contrastare la sintomatologia occorre quindi rimandarle un linguaggio che sia altrettanto simbolico ma che riporti un messaggio fatto di apertura, condivisione, gioia, desiderio, scoperta. E come si fa? Cominciando a coltivare questa visione all’interno di se’. Infatti, non si può trasmettere ciò non si ha dentro. Questo significa mettersi in gioco completamente, osservando come il linguaggio della malattia agisca sui propri pensieri, emozioni, sensazioni. Naturalmente, è impossibile cercare di compiere questa osservazione quando si è davanti alla sofferenza dei propri figli, ma si può metterla in atto in alcuni momenti della giornata, ad esempio quando facciamo la doccia. Ascoltiamo le sensazioni che ci rimanda il sentire l’acqua sul nostro corpo, come lentamente sa sciogliere le tensioni sui nostri muscoli. Chiudiamo gli occhi e notiamo come quell’acqua che scivola su di noi, riesce a farci rivivere il periodo in cui per nove mesi siamo stati immersi nel liquido amniotico del grembo materno. E assaporiamo la calma che ci rimanda. Non dimentichiamo che noi siamo fatti di acqua. L’acqua è il nostro elemento naturale. Fare questa esperienza ha un valore altamente significativa per ognuno di noi. Successivamente possiamo raccontare questa esperienza ai nostri figli, invogliarli a provarci anche loro. Chi meglio di una madre può riaccompagnare la propria figlia o figlio a ripetere quell’esperienza già vissuta nel grembo materno? Chi meglio di un padre può riaccompagnare la propria figlia o figlio a camminare sulle proprie gambe? Diventa così essenziale arricchire le nostre giornate di quelle azioni, pensieri, immagini che ci aiutano a costruire dentro di noi il nostro nuovo linguaggio simbolico che potremo finalmente comunicare ai nostri figli, libero dalle impurità della malattia.


Frase della settimana: IL LINGUAGGIO SIMBOLICO LIBERO DALLE IMPURITÀ DELLA MALATTIA

lunedì 8 novembre 2021

Un numero non lo sa

 

 
Non ricordo che età avessi, forse dodici o tredici anni, non di più. È una scena che mi è rimasta impressa nella memoria e a cui ripenso spesso, forse per cercare un ipotetico inizio del bellicoso rapporto con la mia corporeità, o forse soltanto perché il pensiero che feci all'epoca non mi ha mai abbandonata del tutto. O ancora, per ripetermi che non ho colpe se non l'esserci nata, con questi pensieri.

Era estate, circa all'ora di pranzo, io stavo salendo sulla bilancia per vedere se quel giorno mi sarei potuta concedere una modesta e per nulla pretenziosa pizza surgelata, una tipica margherita comprata al supermercato, e che sono certa di non aver più mangiato da allora. 
Dopo il verdetto ero così contenta di poter mangiare quella pizza, perché sì, quel giorno i numeri me lo permettevano, mi dicevano che andavo bene e che in me poteva esserci spazio per ciò che desideravo e che, se non avessi avuto la bilancia sotto mano, probabilmente avrei mangiato in ogni caso. 

Penso spesso a quella scena della mia vita perché credo sia stato da quel giorno che ho iniziato a pesare le cose che potevo permettermi, che potevo meritarmi, è stato da lì che, in modo graduale ma costante, ho iniziato a (non) dare peso al mio valore. 
Ma se prima, quand'ero ancora una bambina, ero in grado di mantenere i miei propositi, e quindi concedermi ciò che consideravo un premio per "pesare nel mio limite", crescendo non ci sono più riuscita, perché ogni cifra era allo stesso tempo uno spostamento di quel limite, e si trasformava in un "sarà per la prossima volta" portato però all'infinito. 

Il permesso era ciò che aspettavo, un'indicazione che provenisse dell'esterno, e che di conseguenza ha fatto svanire la mia libertà. 
Non sono libera da tanto tempo, imprigionata in molte cose, in uno specchio, nei numeri, nelle emozioni, in me stessa. 
Ci si può perdere in se stessi e non sentirsi al sicuro, pur abitando nel proprio essere? 
È talmente contrastante e disorientante come sensazione, che un numero può darti l'apparenza della stabilità che cerchi.

Si dice sempre "è solo un numero, non dice niente su di te", un numero non può far sapere se ti piace l'azzurro o preferisci il viola, se ami la danza o sei sai suonare uno strumento, un numero non sa qual è la tua canzone preferita né se in questo momento ti senti felice o se vorresti solamente piangere, e un numero non può dirti se c'è abbastanza spazio nella tua vita per le cose che ti fanno stare bene. 
Un numero, tutto questo non lo sa, sono solo io a saperlo, quella bambina lo sapeva bene, ma il peso del mondo gliel'ha fatto dimenticare e, non contando più su se stessa, ha deciso di contare altro, tutto ciò che alla fine non conta nulla in una vita libera dalle sue prigioni. 

Elisa

 

venerdì 5 novembre 2021

Come spiegare a un bambino piccolo perchè la sorella o il fratello hanno smesso di mangiare - Laboratorio del 2 Novembre.

 


In questo momento mi trovo in difficoltà a riportare le tematiche del laboratorio poiché è stato un incontro talmente intenso a livello emotivo che mi è difficile riuscire a descrivere a parole le emozioni emerse, poiché sembra quasi di diminuirne e smorzarne il loro valore. Tutto è cominciato da una domanda: “ come può un genitore, che ha un figlio piccolo, spiegargli quello che sta accadendo alla sorella maggiore che soffre di una malattia del comportamento alimentare? ”

E’ una domanda complessa perché di solito ci si focalizza maggiormente sulla sofferenza che colpisce il figlio o la figlia portatrice del sintomo, dimenticandosi del disagio che può provare un fratello o una sorella che indirettamente ne sono comunque coinvolti. Come spiegare ad un bambino piccolo perché la sorella o il fratello hanno smesso di mangiare? Come proteggerlo dalla presenza della malattia? Sono tematiche complicate, perché vanno a comprendere non solo il rapporto che esiste tra fratelli e sorelle ma anche l’aspetto educativo e di crescita del figlio o della figlia che sono in tenera età o in adolescenza. Un bambino piccolo fa fatica a comprendere ciò che rappresenta una malattia del comportamento alimentare. Risulta difficile per noi adulti, possiamo immaginare quanto sia ostico per lui. Ciò su cui dobbiamo riflettere non è tanto cercare di dare una spiegazione su quella che è la dinamica della sintomatologia alimentare, quanto rispondere alla domanda, che, anche se è formulata attraverso ciò che sta accadendo alla sorella o al fratello, rappresenta una richiesta di aiuto. O meglio, attraverso quella domanda il bambino sta chiedendo alla propria mamma o al proprio papà di essere ascoltato, rassicurato, di non essere lasciato solo ad affrontare quelle emozioni che quella situazione “ anomala” suscita in lui. 

I bambini non conoscono filtri, sono l’immagine esatta della spontaneità e della naturalezza e rimangono destabilizzati di fronte a un comportamento come quello della patologia alimentare. Un genitore in questi casi deve prima di tutto non colpevolizzarsi per quella situazione familiare venutasi a creare, accogliendo quella domanda svuotandola del linguaggio focalizzato sul cibo e riempiendola invece del linguaggio focalizzato sulle emozioni: “ Tua sorella in questo momento ha paura, e quando si ha paura, è difficile riuscire a mangiare”. E cosa fare quando qualche volta il bambino piccolo subisce direttamente la rabbia del fratello o della sorella maggiore? Un tale comportamento non può ovviamente passare inosservato, ma è inutile rimproverare il figlio o la figlia artefice di quel gesto rabbioso, poiché esso non è che la manifestazione esplicita della malattia. Quando però capita un momento di tranquillità, si prova a parlarne con il responsabile o la responsabile di quell’azione, cercando di evidenziare come sia sbagliato sfogarsi in quel modo. Parlarne aiuta non solo a rielaborare l’accaduto, ma soprattutto permette di far emergere le emozioni collegate a quel gesto. Per quanto riguarda il bambino piccolo che ha subito quegli insulti rabbiosi, si può ad esempio andargli vicino, abbracciarlo, spiegandogli che in quel momento, trasformandosi in una sorta di pungiball, ha aiutato il fratello o la sorella a tirare fuori quella paura che sentiva dentro. Questo serve a sdrammatizzare e ad alleggerire l’accaduto trasmettendogli soprattutto amore, comprensione e protezione. 

Spesso non si pensa quanto una famiglia sia lasciata sola ad affrontare queste dinamiche familiari che nascono dalla presenza della malattia del comportamento alimentare. Il sintomo viene visto come un nemico da espellere e non come portatore di un cambiamento. In questa fase è importante che la famiglia venga sostenuta per accettare questo messaggio che la patologia sta inviando, affinché insieme si possa gradualmente accogliere questa richiesta di trasformazione. Come è stato accennato nel laboratorio precedente, un genitore vorrebbe che la malattia sparisse immediatamente restituendogli il figlio o la figlia esattamente come erano prima della sua comparsa. Ma questo è impossibile. Impossibile perché guarire significa anche distaccarsi dal vecchio legame familiare, che non vuol dire rinnegarlo o abbandonarlo. Tutt’altro. Significa al contrario, instaurare una nuova relazione con la propria famiglia. 

Una mamma ha raccontato di come il figlio si fosse allontanato perché spaventato dalla patologia alimentare della sorella. Per anni si era rifiutato di incontrarla e di parlarle. La madre ha dovuto fare un lungo lavoro su se stessa per trasmettere al figlio un modo differente di guardare la malattia e quindi il proprio legame fraterno. Cambiare lo sguardo è essenziale. Chi soffre di una malattia del comportamento alimentare non comunica con le parole, comunica con lo sguardo. È un concetto già accennato in diversi laboratori, ma che va sempre evidenziato. La malattia costringe tutti i membri di quel nucleo familiare a mettersi in discussione e a lavorare su se stessi per ricostruirsi come famiglia.

Una mamma ha condiviso la difficile situazione che sta attraversando. Se per un momento aveva intravisto la luce della guarigione della figlia, questa si è improvvisamente spenta, gettandola in quel baratro che credeva di avere oramai superato. Emozionanti sono state le parole di sostegno di un’altra mamma che, raccontando il percorso di cura della figlia, caratterizzato da tante rovinose cadute e ricoveri, ora è guarita. Sono state parole che hanno saputo trasmettere conforto, vicinanza, comprensione e soprattutto speranza. Non esiste una guarigione indolore. La malattia del comportamento alimentare costringe tutti i membri familiari ad affrontare la propria sofferenza, a rimettersi in gioco, a guardarsi nel profondo. Stasera si è percepita la forza che nasce dall’unione condivisa dei genitori. Quanto la loro diretta esperienza possa essere un sostegno fondamentale per coloro che stanno attraversando quei momenti difficili che inevitabilmente accadono durante un percorso di cura. Solo chi ha vissuto determinate situazioni sa arrivare in modo diretto al cuore dell’altro, e l’emozione che fa emergere è un’emozione che nutre, riempie, arricchisce e crea unione.

La frase della settimana: COME SPIEGARE A UN BAMBINO PICCOLO PERCHÉ LA SORELLA O IL FRATELLO HANNO SMESSO DI MANGIARE?