Faceva freddo ed era marzo,
i fiori faticavano a schiudersi e il cielo prometteva sempre nevicate,
un’insolita atmosfera avvolgeva questo sud italico, saturo di lamenti e
litanie, di credenze e vergogne. Un silenzio accartocciava le parole non dette,
quelle racchiuse in un umore difficile da decifrare, in un corpo che parlava
senza farsi sentire. Era fragile Samantha, lo era sempre stata, vittima del
paesino, delle situazioni che l’avevano fatta diventare grande quando ancora
avrebbe dovuto stringere a sé una bambola, giocare a nascondino, disegnare la
vita su un foglio di bambù, colorarla con le tempere che tanto amava. La vita,
invece, ti coglie alle spalle, ti prende e gioca, ma ti fortifica, così almeno
ho sentito dire. Succede per caso, quando sei ancora intento a decifrare il
volo vorticoso di una farfalla che ignora la brevità del suo essere, quando
cerchi di gettarti negli odori del passato che non ritrovi tra maglioni
sgualciti, tra vecchie stoviglie che non conservano nulla, neanche temerarie
tracce sfuggite al detersivo. Non è mai troppo tardi per incominciare: una
partita a scacchi, un libro comprato tempo addietro, un corso lasciato a metà.
Non è mai troppo tardi per scoprirsi: ci si trova negli accordi stonati di un
ritornello che non esce, tra le righe di un quadernetto che avevi perso, nei
giochi di cui non ricordi più il metodo, nei viaggi e nei sogni, nelle ore di
macchina e di silenzio che accompagnano un’avventura o una cura.
Samantha aveva venduto ogni
specchio, si conosceva, si sapeva. Non aveva bisogno di essi, ma solo di
affetto, di calore, di passione, di occhi pieni di vita, in grado di infonderle
fiducia. Aveva barattato le sue certezze una domenica mattina, al mercatino in
piazza, sotto sguardi severi e colmi di pregiudizi: aveva conosciuto una donna
carica di odio, approfittatrice che, però, le dava forza e coraggio in cambio
di energie, minuti, speranze. Era stata subito bene, qualcuno le aveva preso la
mano, l’aveva compresa cogliendo le sue innate debolezze. Aveva preso a
sentirsi forte, avrebbe potuto combattere finalmente, senza chinare la testa,
senza diventare rossa. Le amiche la videro rinvigorire, prendere coscienza,
spavalda. La casa era fredda e l’orologio segnava sempre l’ora tanto attesa,
quella del pranzo, in cui, lenta, lei avrebbe potuto muovere le sue pedine,
perché quel piatto non conteneva cibo, ma nascondeva proprio la sua scacchiera.
I rigatoni erano mossi come lente sagome indistinte, movimento che scrollava di
dosso il condimento di turno, poi con un gesto finale, come chi bara e vuol
vincere a tutti i costi, tutto finiva per terra, se il cane era in casa, oppure
nelle tasche di pantaloni, tute. Un meccanismo perfetto senza inceppi, né
possibilità di errore. Samantha vinceva, non aveva rivali nonostante giocasse
in trasferta, una casa mai sentita tale, un misto di sentimenti contrastanti
che le cucivano addosso quell’aria distratta e in attesa, attesa di vivere,
perché in fondo è questa la meta, sia quando lo si capisce in tempo che quando
tutte sfugge velocemente, come una giostra impazzita. L’anoressia è un vestito
che non conosce taglie, ognuno se lo fabbrica per sé, ognuno è sarto, ci si
sceglie il tessuto giusto, il cotone, l’ago adatto. L’anoressia è la compagna
che non fa domande, ma dà ordini, il maestro che dirige l’orchestra in
silenzio: è la risposta alla solitudine interiore, uno strumento di lavoro, una
curva a gomito, la luce abbagliante di un auto che non ti fa vedere oltre, ma
ti rapisce, ti fa procedere nel buio indistinto della notte, che poi è anche un
po’ la vita.
Samantha ne ha giocate di
partite, ne ha vinte tante, ne ha perse altrettante. Perdeva ogni giorno nella
sua soddisfazione personale, in quelle mosse precise che le donavano forza, ma
che le toglievano il fiato poco per volta. In questa vita ci si stanca anche di
vincere, ci si stanca di perdere, di non vincere, di perdere nonostante la
fatica. Samantha sapeva di essere il burattino insicuro della signora gentile
conosciuta in quella domenica di marzo, ma amava poter essere, avere le sue
carte in mano, poterle spendere alla prima occasione. Samantha sognava ancora,
non mangiava, ma desiderava se stessa, quella bambina che faceva arrabbiare i
nonni con i suoi giochi, si specchiava nelle foto scolorite dal tempo e si
sentiva diversa, quasi come se descrivessero un’altra vita, un’esistenza
lontana e ormai andata. I sogni, ah i sogni, questi signori senza anima, senza
materia, in grado di farci desiderare la vita, farci splendere gli occhi ed
emozionarci innanzi alla quotidianità: un anziano che non rinuncia alla
passeggiata domenicale, a prendere un aereo e raggiungere i nipoti lontano, un
tramonto in un pomeriggio di dicembre, una mela donata a un clochard, la luna
che a sera illumina i campi di pomodori, gli ulivi che filtrano i paesaggi
lontani. Samantha mi ha insegnato tanto, a correre senza catene, a resistere
nonostante tutto, a sciogliermi dai vincoli che attanagliano l’anima.
Ora corre veloce, come una
locomotiva che non conosce epoche e che sfida il nuovo per sentirsi ancora
utile. Corre veloce e libera, perché, in fondo, anche quella vecchia signora,
dagli occhi scavati e le gote nere, un vestito troppo corto e un neo sotto il
mento, non era altro che l’accumulo delle proprie paure, delle proprie ansie,
delle sue insicurezze, che andavano solo stese al sole in un pomeriggio
d’autunno, tra le pause di uno scirocco impavido.
Giuseppe Zanzarelli