Caro Corpo,
si dice spesso che tu sia "l'abito del disagio"
e credo questa sia una delle migliori definizioni per descrivere il rifugio in
cui alberga un disturbo alimentare.
Ma cos'è in fondo un corpo usato e maltrattato per
"colpa" della malattia?
Che cosa resta di quel corpo quando la malattia lascia finalmente
spazio alla vita, alla luce, ai desideri di chi lo abita?
Sin da piccola ti ho sempre regalato poche, pochissime,
attenzioni. Un po' per educazione, un po' per abitudini di famiglia, per me sei
sempre stato di secondaria importanza rispetto alla mente. Per principio, non è
mai stato importante essere necessariamente belli per valere. Ma essere in
salute, quello si, a prescindere: "la salute prima di tutto".
E poi, invece, paradosso dei paradossi, mi sono ammalata
di un disturbo che "mangia" la mente distruggendo il corpo.
Sai, Corpo, forse solo da quando ho iniziato a ricordarmi
che esisti anche tu, e che io senza di te non esisto (cioè a ricordarmi che gli
esseri umani non sono solo mente, ma anche corpo, l'uno non può prescindere
dall'altro e viceversa) e a prestare ascolto a S., non più solo alla voce intransigente
della malattia, ho iniziato a rendermi davvero conto di quanto ti ho trascurato
negli anni. Messo in un angolino, sfruttato sempre per un fine, per uno scopo,
usato per sopravvivere alle mie giornate (sai com'è, in alcuni momenti anche
respirare era uno sforzo che richiedeva energia…), un "biglietto da
visita" per la mia malattia.
E ho iniziato così a farti la guerra. Su di te ho sfogato spesso
le tensioni e le ossessioni della mente, la mia rabbia, le mie frustrazioni,
alimentando così un circolo vizioso che solo dopo anni, tanti anni, ho saputo
riconoscere nella trappola del disturbo alimentare.
Pensa, ho dovuto riconoscermi in un disturbo alimentare, cioè
riconoscere (e accettare) la malattia, ancor prima che la tua bellezza e il tuo
essere in salute (come succede normalmente alle ragazzine), per ricominciare a
guardarti, ad ascoltarti, a interrogarmi su ciò di cui hai davvero bisogno per
essere, per stare al mondo.
E proprio perché per stare al mondo non basta soltanto
respirare, una volta superato questo primo enorme scoglio, ho iniziato a
scavare, a scavare dentro, nei meandri del mio passato, a guardarmi con tutte
le mie paure addosso. Mi sono seduta a tavolino con le mie fragilità, a
regolare i conti con un 'mostro' che non mi ha concesso di assaporare, di vivere
appieno la mia giovinezza.
Dopo un lungo lavoro introspettivo, ho finalmente iniziato
a capire che cosa stava succedendo: la malattia ci stava mangiando, ci stava
spegnendo, caro Corpo. La malattia ci ha raggirati, allontanati: ai miei stessi
occhi, tu sempre più ingombrante, io sempre più inadatta.
Ho ancora paura, lo confesso. Paura di toccarti, di
accarezzarti, di coccolarti. Eppure quel gran bisogno di abbracci, di contatto
umano, per sentirmi viva, per sentire un po' d'amore. Per amarmi e sentirmi amata
come un essere umano in carne ed ossa.
Abbiamo probabilmente ancora un po' di strada da
percorrere prima di poterci riabbracciare e sentirci uniti, indissolubilmente.
Ma ho fiducia in chi mi è accanto e mi sta guidando, passo dopo passo, fuori
dalla caverna in cui ci siamo rintanati per tutto questo tempo, per scoprire
che lì fuori il mondo può avere colori bellissimi.
S.