“Io
non sono malata, io sto benissimo. Lasciatemi stare!”
Questa
era la mia convinzione, “ IO NON SONO ANORESSICA”.
È stata la frase che ricordo di aver ripetuto
infinite volte, sbraitando come un’indemoniata, dagli occhi rossi e
colmi di lacrime ma carichi di rabbia e odio.
Tutto il resto è solo un ricordo offuscato e caotico di quel
giorno tremendo. Nella mia testa sono rimasti solo flash, frammenti
di pochi secondi confusi di pura disperazione e follia.
Io, rannicchiata in un angolo dello studio
medico, l’infermiera che tentava di avvicinarsi, il mio psichiatra
che, irremovibile, parlava di ricovero immediato. E poi, mia madre e
mio padre, lì, in piedi, paralizzati, mano nella mano, lo sguardo
terrificato.
E quegli occhi, gli occhi di mio padre, occhi che mai
dimenticherò per il resto della mia vita.
C’era una volta una ragazza timida e
sensibile ma gioiosa, felice e con una voglia di vivere che forse in
pochi potevano uguagliare o superare.
Alice
era il suo nome, e le stava a pennello, perché il suo mondo era
esattamente come quello delle meraviglie. Alice aveva tutto: una
famiglia eccezionale, una casa bellissima immersa nel verde della
natura, circondata da tantissimi amici. Alice aveva tante passioni,
la più preziosa era la cucina, in particolare la cultura e le
tradizioni alimentari. Il suo punto debole era la sensibilità che da
sempre l’ha resa più vulnerabile alle disgrazie della vita e del
mondo. Se non che, in una fredda e tranquilla sera di gennaio, Il
paese delle meraviglie dove esistevano amore, amicizia e sogni, fu
colpito da un tornado che spazzò via tutto, senza lasciar tracce di
colori, allegria. Alice stessa sparì, risucchiata in un buco nero.
Ora al suo posto al suo posto c’è un corpo schiavo di un
parassita ripugnante che ha rubato la sua anima, rendendola solamente
un burattino nelle mani della morte.
Quella ragazza
diciassettenne ero io, prima di quella sera, che mai avrei voluto
vivere.
20 gennaio 2011, precisamente giovedì, quando, in
un’atmosfera di risa tra amici, tutti radunati in una saletta, 4
parole sono bastate a stroncare il clima di gioia che aleggiava nella
sala:
RAGAZZI E’
MORTO CISCO.
Paralizzata, non riuscivo a capire, non riuscivo a parlare, non
riuscivo a piangere. Penso
sempre al mio passato. Ho necessità di farlo, di ricordare.
Ho bisogno di chiudere gli occhi e catapultarmi
indietro di quattro anni, quando cominciai le sedute settimanali
dallo psichiatra, iniziando una cura farmacologica antidepressiva,
quando la mia vita iniziò a sgretolarsi senza che me ne rendessi
conto e senza pensare a chi mi voleva bene, ma pensando solo a me
stessa. Come fossi un kamikaze pronto a farsi esplodere, uccidendosi
e uccidendo le persone a me più care. Ma Forza, senso di
onnipotenza, ecco cosa sentivo inizialmente, ed è quello che mi ha
fregato. Iniziai così a ragionare in maniera perversa:
Tutto doveva essere sotto il mio controllo, tutto doveva
essere perfetto. vivevo la giornata meccanicamente, ogni azione aveva
un suo orario preciso. La scuola diventò un’ossessione, non potevo
permettermi di saltare nemmeno un giorno. L’ordine della casa
diventò un chiodo fisso, ogni oggetto aveva una sua collocazione
stabilita. E, soprattutto, anche il cibo diventò un mania. Mangiavo
poco, ma stavo bene, i giorni passavano e mangiavo sempre meno,
eppure stavo anche meglio. Smisi quasi totalmente di mangiare e mi
sentivo Dio. Spinta verso quel buio pericoloso che non mi spaventava,
anzi mi incuriosiva, mi provocava così misteriosamente scuro e tetro
dall’odore afrodisiaco, irresistibile. Non potevo fermarmi.
L’adrenalina che mi scorreva nelle vene ogni volta che riuscivo a
saltare un pasto con l’imbroglio era talmente elevata che mi
nutriva, mi sfamava, non avevo bisogno di mangiare, non sentivo la
fame. E così andavo avanti, veloce come un Freccia rossa, sicura in
tutto e per tutto.
Il tempo passava e il mio
corpo si alleggeriva Nel frattempo ero diventata un prodigio
dell’inganno, maestra nell’arte di raccontare bugie, stratega di
pianificazioni atte a evitare di ingerire cibo, ero perfino arrivata
al punto di riuscire ad ingannare i miei genitori pure quando ero
sotto il loro controllo, tutti seduti a tavola col pasto pronto
davanti, riuscivo a finire tutto, ma di quel tutto niente finiva nel
mio stomaco. Felpe larghe con tasche capienti, una decina di
fazzoletti a disposizione, velocità e attenzione ed il gioco era
fatto. Io mi alzavo dal tavolo col sorriso sotto i baffi, felice di
non aver mangiato e andavo a “sotterrare i cadaveri nascosti”
mentre i miei genitori erano convinti che avessi mangiato. La
maturità si avvicinava, io cominciavo ad avvertire stanchezza e
fatica. Ricordo i pomeriggi trascorsi a studiare in solitudine,
mentre i miei compagni studiavano insieme, scatenando in me senso di
abbandono e umiliazione. Ed era così in fondo, mi avevano
abbandonata, esclusa. Proprio come accade nel regno animale: se fai
parte di un branco devi rispettarne i ritmi, ma se TU piccolo
cerbiatto, ti ferisci, sei più debole, lento e rimani indietro,
diventando un fardello per i compagni che non si faranno scrupoli ad
esiliarti dal branco. Così d’impatto, il cerbiatto si ritrova
solo, in mezzo al bosco, dove tutto è più difficile: il cammino,
difendersi da bestie feroci e sopravvivere. Ecco, io mi sono sentita
un po’ come quel cerbiatto. Arrivai, in ogni caso a dare l’esame
di maturità con estrema debolezza fisica e mentale ma ottenendo,
comunque, un ottimo risultato. Ero felice, fiera di me e dei miei
sforzi, ma sola, fiancheggiata e tenuta in piedi per miracolo dalle
persone che amo di più, mia madre, mio padre e mio fratello.
Finalmente finita la scuola, data la maturità, si fa festa, mare,
sole. Ma non fu così per me. Ero seriamente in pericolo e provarono
a spronarmi, aiutarmi, farmi ragionare, ma io non capivo, anzi mi
arrabbiavo, pensavo solo “ma cosa vogliono da me, è la mia vita”.
La stessa vita che ho messo terribilmente in pericolo, la stessa vita
che per poco ho perso. Metà luglio, avevo la morte addosso,
devastata irriconoscibile, ossa vistosamente sporgenti, occhi spenti
e opachi, pelle grigiastra, capelli deboli, che perdevo al solo
passaggio delle dita, fredda, labbra viola in piena estate, ossa
dolenti e quel peso che calava, calava, calava. Eppure non mi
importava, non mi spaventava di rischiare l’arresto cardiaco né la
grave osteoporosi che si stava rosicchiando le ossa, al punto che
solo inciampando avrei potuto fratturarmi femore e colonna
vertebrale. Insomma vivere o morire era irrilevante, non sentivo più
niente, totalmente apatica. Dai 54 chilogrammi iniziali, calai sempre
più, sino al momento più critico 35 e poi 32, 30...28 chilogrammi.
RICOVERO IMMEDIATO
Fui ricoverata al centro disturbi alimentari di
Pietra Ligure, Ospedale Santa Corona.
Ricordo tutto, dal primo giorno all’ultimo, i pasti
consumati silenziosamente, con la paura degli sguardi delle altre
ragazze. I pomeriggi trascorsi dormendo, sedata dai farmaci, le
attività settimanali, l’infermiera che mi svegliava ogni mattina
per misurare la pressione. Ricordo quella maledetta parola urlata
dall’infermiera di turno: “TERAPIA” e noi pazienti, in fila per
prendere il nostro cocktail di farmaci, un mix di gocce e pastiglie.
Ricordo le visite serali dei parenti, quando venivano i miei genitori
che accoglievo con sguardo rabbioso. E tutte le sere, quando, sotto
le coperte con le lacrime agli occhi e il pianto in gola aspettavo
che il sonno mi prendesse, per poi svegliarmi e realizzare che non
era stato un brutto sogno, ma il ricovero lo dovevo vivere veramente.
Son passati 3 anni da quell’estate, 3 anni difficili, per me e per
la mia famiglia. Infatti dopo un graduale miglioramento, sempre
seguendo una dieta e visite mensili al centro, ho raggiunto il mio
normopeso. Non mi spaventava il mio corpo, né il numero segnato
sulla bilancia, era finita. Pensavo di averla sconfitta, di stare
bene. Ma mi sbagliavo di grosso. Mi rinchiusi in un’ampolla,
protetta da tutto e da tutti. Diffidente, spaventata dalle persone
che mi circondavano, avevo paura di fare nuove amicizie, per poi
essere di nuovo abbandonata. Passavo i pomeriggi dormendo, ma quella
per me era normalità, così mi sentivo tranquilla, ma non mi accorsi
del pericolo che stavo correndo, finché non arrivò il secondo
schiaffo della morte. Una sera di fine maggio, ero in cucina con mia
madre, ridevamo, lei preparava da mangiare, io tagliavo la frutta e
improvvisamente il buio. Quando ripresi coscienza, ero circondata
dagli operatori dell’ambulanza, che cercavano con forza di
caricarmi sulla sedia a rotelle. Fui portata all’ospedale,
ricoverata in neurologia. Attacco epilettico, feci vari esami e,
infine, la causa di quell’attacco improvviso era dovuta ai farmaci
che stavo assumendo, il passaggio repentino da un’elevata dose di
gocce ad una ridotta scatenò in me l’attacco. Questo è ciò che
vi è scritto nella cartella del ricovero. Ma la verità, è diversa,
è stata colpa mia. Sono stata incosciente, stupida. Io ABUSAVO di
quel farmaco, gocce che prendevo alla sera, non più di 15, ma io
arrivai a finire una boccettina nel giro di 4-5 giorni. Ecco perché
dormivo tutto il giorno. Dopo pranzo mi bombardavo di quelle gocce e
non so neanche quante ne assumessi, perché le succhiavo direttamente
dalla boccettina. Stetti ricoverata una settimana, poi di nuovo a
casa. Nel giro di 3 mesi persi di nuovo peso, quasi 10 chilogrammi
ero sempre stressata in lite con tutti, soprattutto, con me stessa
piena di sensi di colpa per il male causato ai miei genitori. A
cavallo tra dicembre 2013 e gennaio 2014 ci fu la grande svolta. Un
grave problema di salute riguardante mia madre, fece sì che
decidessi di prendermi delle responsabilità, dovevo aiutarla, per
farlo dovevo avere energie e per avere energie dovevo mangiare,
mangiare di più, controvoglia, con sensi di colpa!? Non importa
dovevo mangiare e MANGIAI. Ora ero io che, insieme a mio padre e mio
fratello, facendo la mia piccola parte mi prendevo cura di lei. Ed è
così che tra mille problemi, lacrime, fatica posso dire: sono ancora
viva, malata, ma viva mi trovo ai limiti del normopeso, la strada
della guarigione è molto lunga ancora, ma questa volta non ci casco,
non abbasso la guardia. Ho imparato molto nell’arco di quest’anno,
soprattutto ho accettato il fatto di essere malata, ammettendolo a me
stessa e agli altri, senza vergogna, ne parlo spesso ed anche tramite
social esprimo i miei sentimenti, il mio dolore, il dolore che prova
una qualsiasi donna, ragazza con un problema alimentare. Non voglio
smettere di lottare, assolutamente, per me stessa, ma anche per tutte
le altre persone con un DCA, voglio far sentire la mia voce. Voglio
soprattutto essere la voce di chi non ha più la parola, trovandosi
sotto 3 metri di terra, morta di una morte assurda. Morta di una
morte ancor troppo poco considerata.
Alice Villa