Nel laboratorio di stasera si è cercato di approfondire la tematica su quanto un disturbo
alimentare incida nella vita di una famiglia che ne viene colpita. Ad un tratto ogni cosa cambia, la
quotidianità viene stravolta travolgendo l’intero nucleo familiare. Non si riconoscono più ruoli,
orari, non c’è più condivisione, dialogo, sorrisi. Tutto ruota intorno alle dinamiche manipolatrici del
disturbo alimentare. Spesso la famiglia non viene coinvolta in un percorso di cura ma viene
lasciata ai margini creando in lei ancora di più la sensazione di isolamento e incomprensione.
Questo ovviamente non aiuta poiché è fondamentale che ci sia un sostegno anche per coloro che
convivono con una persona che soffre di queste malattie. Come si è voluto evidenziare, occorre
partire dal comprendere il linguaggio del disturbo alimentare in quanto serve ad alleggerire il
grande carico emotivo e fisico che i genitori si trovano a sopportare. Il disturbo alimentare opera
in maniera subdola, si infiltra tra le pieghe di quella che una volta era la “normalità” e, senza
rendersene conto, impone le sue nuove regole. Molti genitori stasera hanno posto tante domande
inerenti a problematiche di non facile gestione e comprensione. È emerso che la prima difficoltà
che si incontra riguarda a come ci si debba comportare nelle varie situazioni che si vengono a
creare, soprattutto quelle che hanno a che fare con l’orario dei pasti. È giusto lasciare che la
propria figlia mangi da sola, isolandosi e non permettendo a nessuno di entrare in cucina per due
ore fino a quando il rituale del pranzo/cena non sia finito? Questa è una dinamica tipica del
disturbo alimentare che spesso si accetta per quieto vivere poiché contrastare tale decisione
sarebbe fonte di un conflitto continuo, però, come da testimonianza di un papà, non porta altro
che a potenziare ancora di più la forza rituale del disturbo alimentare. Che cosa si può fare? Agire
a piccoli passi ( come più volte menzionato durante i laboratori). Incominciare a riprendere il
proprio ruolo di padre e madre ( abbiamo ricordato ancora l’importanza di non trasformare se
stessi in terapeuti e la propria casa in una struttura residenziale). Questo significa iniziare a dettare
delle regole, che vadano a smuovere un poco quella zona confortevole in cui il disturbo alimentare
crea la ritualità e che risulta poi difficile da smantellare. Come ha evidenziato una mamma, non è
giusto che la famiglia venga privata del proprio spazio. D’altra parte, è necessario anche che ci sia
l’esempio pratico che mostra che non si è disposti a sottostare a certe imposizioni, questo aiuta a
far capire all’altro che si può tener testa alla malattia, rivelando che non è poi così forte e
invincibile come ama mostrarsi agli occhi di chi ne cade sotto il suo potere ammaliante e
incantatore.
A questo punto del laboratorio si è sottolineato l’importanza che non possono esserci risposte
univoche per ogni cosa poiché tutto dipende dalla situazione e dalla storia personale di ognuno. A
prova di questo, una mamma ha posto un suo dubbio riguardo al fatto che la propria figlia aveva
in un certo senso imposto un orario di cena e lei, per non andare a creare ulteriore ansia, aveva
accettato di adeguarsi a questo nuovo orario. Quindi aveva acconsentito alla malattia di porre la
sua regola? Anche qui occorre osservare la situazione. Quanto incide questo cambiamento sulla
famiglia? O meglio, questo orario comporta un sacrificio, stress, difficoltà organizzativa per gli altri
membri del nucleo familiare? Se la risposta è si, serve trovare un’alternativa affinché ci sia il minor
disagio possibile da tutte le parti, se al contrario questo non implica alcun problema, si può
andare incontro a questa richiesta per agevolare la tranquillità e diminuire il carico di ansia che tali
situazioni creano.
Un’altra mamma invece non sa come comportarsi con la propria figlia che, iniziato un percorso di
cura in una struttura residenziale, telefona piangendo che vuole tornare a casa. Cosa si deve fare?
Cerchiamo prima di tutto di capire chi è che parla. In una situazione del genere, emerge
prepotentemente la malattia che, sentendosi attaccata, cerca in tutti i modi di poter ritornare in
quel contesto per lei sicuro e di facile manipolazione come la casa. È chiaro che nelle lacrime c’è
la sofferenza della propria figlia, ma, ripetendo il concetto di prima, il genitore non può essere il
terapeuta. Quando si inizia un percorso di cura, queste paure sono le prime ad emergere ma
affinché si arrivi alla consapevolezza che è la malattia la causa dello star male ( e non è al
contrario la soluzione) occorre vivere pienamente queste difficoltà affinché si chieda aiuto ai propri
terapeuti, iniziando così a essere collaborativi, e non al contrario, rivolgersi ai genitori per ritornare
a casa e riavere il pieno controllo della malattia.
Una cosa importante da sottolineare è il fatto che accade spesso che i genitori nutrano alte
aspettative sull’esito di una cura, questo perché si ha la credenza che un disturbo alimentare dia
risultati evidenti fin da subito. In realtà questo non accade quasi mai poiché ci vuole tempo per
scardinare le dinamiche che il disturbo ha creato. Accade di frequente che il genitore non veda
segni di guarigione, anzi, a volte i sintomi appaiono ancor più evidenti. Ma allora a cosa serve la
terapia, il ricovero, lo psicologo, la nutrizionista se poi il sintomo rimane? Non è così. Ci sono tutti i
meccanismi di difesa che la malattia mette in atto che devono essere scardinati ma
contemporaneamente è necessario ricostruire tutto quello che la malattia ha distrutto.
Il disturbo alimentare, come spesso viene detto, rappresenta la soluzione a un problema divenendo
una sorta di stampella con cui camminare e con cui senza di esso diventa impossibile andare avanti.
Se pensiamo a una persona con una gamba malata che si sorregge su una stampella, è evidente
che non le si può togliere questo sostegno improvvisamente poiché cadrebbe a terra. Sono
proprio questi i momenti in cui c’è bisogno di supportare la famiglia affinché possa comprendere
quello che sta accadendo nella mente della propria figlia e riuscire a gestire meglio le proprie
emozioni e pensieri. Il laboratorio è nato con questo obiettivo.
C’è stata poi la domanda di una mamma la quale non riusciva a capire la decisione
contraddittoria della propria figlia che le aveva esplicitamente chiesto di poter essere seguita da
una nutrizionista per non sentire più la fatica di dover decidere ogni giorno cosa mangiare e
comprare, per poi ritrovarsi a vedere sabotare dalla stessa lo schema alimentare proposto. In
questa situazione, dov’è che si manifesta e opera il disturbo alimentare? Qui c’è la piena
rappresentanza dell’aspetto contraddittorio e dicotomico della malattia. Da una parte il bisogno di
addossare a una persona esterna la responsabilità di scegliere e dall’altra la paura di perdere il
controllo. In un disturbo alimentare ciò che si vede è il comportamento dell’altro ( che non è che la
punta dell’iceberg). Tutto il processo mentale che è alla base della malattia è invisibile agli occhi.
Nel momento che la persona chiede un supporto al nutrizionista, immediatamente compare la
malattia che comincia ad attaccare con una incessante e ossessiva serie di pensieri : “ Non vorrai
mica mangiare quello che c’è scritto? Guarda che poi non entri più nei vestiti. Poi gli altri
vedranno che sarai ingrassata......” Questi sono solo alcuni dei pensieri che ininterrottamente
occupano la mente di chi è affetto da un disturbo alimentare. Per questo è indispensabile che ci
sia la presenza combinata di un percorso psicoterapeutico che aiuti ad affrontare queste paure e
costruire contemporaneamente un rapporto sano e non conflittuale con il cibo. Intraprendere un
percorso nutrizionale senza l’accompagnamento di un altrettanto percorso psicologico non aiuta
perché lascia scoperta tutta la parte legata al pensiero ossessivo e al controllo.
In un’altra situazione un papà ha chiesto cosa deve fare per far sì che sua figlia non vada sempre a
camminare? Ripetiamo, ciò che è visibile in un disturbo alimentare è il comportamento, ma il reale
problema sta in ciò che è invisibile, ovvero nella mente. Non è impedendo di andare a camminare
che si ha la soluzione. Anzi, farlo rinforzerebbe quel modo di agire. E allora un genitore non può
fare nulla? Un genitore può cominciare a creare una comunicazione che non è più focalizzata sul
disturbo ( non hai mangiato, cammini troppo, sei magra, devi mettere su peso o devi dimagrire ...)
ma è diretta sulle emozioni, su ciò che fa stare male ma soprattutto, ricercare quelle sensazioni,
comportamenti, situazioni, contesti che fanno stare bene, che fanno emergere un guizzo di vita,
che creano anche una progettualità verso qualcosa che piace. Aiutare la propria figlia o figlio a
ritrovare il “gusto” della vita. Una mamma infine ha voluto riportare la sua esperienza di come,
dopo tante difficoltà, cadute, rialzate, ora sua figlia e’ pronta a riaffacciarsi alla vita, conscia di
quanto il percorso verso questa consapevolezza è avvenuto attraverso uno scontro diretto con se
stessa e con le persone a lei care.
La frase della settimana è: RITROVARE IL “GUSTO” DELLA VITA.