Il laboratorio di stasera si è focalizzato su un tema particolare per molti genitori che, soprattutto in questo momento di pandemia, ha un impatto maggiore all’interno di un nucleo familiare. Spesso accade che i ragazzi e le ragazze che vengono ricoverate all’interno di una struttura per un disturbo alimentare, assumano un atteggiamento molto collaborativo con l’equipe terapeutica. Si comportano secondo il modello tipico del bravo/ brava paziente, che potrebbe far pensare che il percorso stia avvenendo nel migliore dei modi. In realtà, spesso non è così. Si compiace il dottore, lo psicologo, il nutrizionista con il fine non di guarire ma bensì di essere dimesso/a al più presto possibile, così da poter tornare a casa e riprendere il controllo dettato e ordinato dalla malattia. Una mamma ha raccontato addirittura che la propria figlia ha inserito nel suo menù in struttura cibi da lei sempre rifiutati a casa, proprio per evidenziare ancora di più il suo impegno.
Tale modalità comportamentale ovviamente non è passata inosservata, poiché la descrizione che questa mamma ha dato relativamente alla condotta tenuta dalla figlia quando era a casa non corrispondeva assolutamente a ciò che veniva riportato dall’equipe terapeutica. La domanda che è sorta nel laboratorio è : “perché accade questo? Perché in struttura alcuni ragazzi e ragazze agiscono bene e una volta a casa si comportano male?” Indubbiamente, rispondere che il problema risiede nella famiglia è molto semplicistico e riduttivo, oltre ad evitare di analizzare la dinamica che si cela dentro. È invece importante cercare di andare oltre, anche se difficile all’interno di un laboratorio, dato che le motivazioni del perché avviene questo possono essere molteplici.
Come detto più volte, anche se la manifestazione comportamentale può essere simile, ciò che spinge ad agire in quella maniera è diversa per ogni ragazzo e ragazza che la mette in atto. Infatti, si assiste ad una modalità che si snoda da un estremo all’altro: da una parte il seguire tutto ciò che viene detto, dall’altra il rifiutare e controllare ogni cosa. Nel mezzo di questi due opposti c’è però la persona, che confusamente, e con sofferenza, agisce in un modo convergente perdendo la consapevolezza di chi essa sia. Questo può portare a un mancato contatto con la realtà che provoca alienazione, smarrimento, senso di non appartenenza. È chiaro che una tale dinamica deve essere affrontata all’interno di un percorso terapeutico, non può essere certamente il compito di un genitore lavorare sulla distorta visione della realtà del proprio figlio/ figlia.
Da qui si può ben comprendere quanto sia errato addossare la colpa interamente sulla famiglia se i figli a casa manifestano il disturbo alimentare. È chiaro che il coinvolgimento di una dinamica familiare consolidata ci sia, ma è compito del percorso di cura affrontare tale quesito, non attribuendone la responsabilità della risoluzione al nucleo familiare. Una ragazza ha condiviso la sua storia raccontando di come lei sia sempre stata catalogata come la paziente perfetta, educata, gentile. Lei faceva ogni cosa che le veniva detto proprio per non deludere questa idea che si era fatta di se stessa e per cercare di uscire al più presto e tornare a gestirsi autonomamente la propria vita ( gestita in realtà dal disturbo alimentare). È stata importante una frase emersa dalla sua narrazione: “ io seguivo ciò che mi veniva detto di fare, ma in realtà non vivevo”. Era come se avesse eretto intorno a se’ un muro di difesa che non le faceva arrivare nessuna emozione, sensazione, nemmeno sapore. Come un’ automa programmato a fare tutto, ma allontanando da se’ ogni forma di sentire. Durante il laboratorio si è discusso del senso di solitudine vissuto dai genitori che si sentono abbandonati in questo momento molto delicato della cura.
È emerso quanto venga a mancare spesso sul territorio una specifica terapia familiare che possa accompagnare i genitori a essere formati e istruiti sul come comportarsi quando si trovano a dover affrontare le dinamiche legate al disturbo alimentare messe in atto dai loro figli nel momento in cui rientrano a casa dopo un ricovero. La struttura sotto certi punti di vista rappresenta un luogo ovattato e protetto, lontano dalle stimolazioni vissute nella quotidianità. Un luogo che contiene, isola da quello che è il diretto contatto con il mondo esterno, quello stesso mondo che tanto spaventa e da cui si cerca di fuggire. La casa al contrario rappresenta il luogo in cui ci si è adattati alle proprie paure utilizzando il sintomo della malattia. Si comprende bene quanto il percorso di cura possa essere complesso dal momento che viene influenzato non solo dalla persona che soffre il disturbo alimentare ma anche dalla fase in cui la malattia stessa si trova.
Altro concetto emerso durante il laboratorio è stato il senso di colpa che un genitore prova dal percepire fortemente su di se’ l’aver sbagliato qualcosa che ha generato il disturbo alimentare, ma quando c’è di mezzo una malattia, non ci sono colpe. Certo, torniamo a ripetere che è inevitabile che alcune dinamiche familiari abbiano influito, ma sono talmente tante la variabili coinvolte all’interno di un disturbo alimentare che non si può assolutamente dare una colpa alla famiglia su quanto è accaduto. Ogni famiglia infatti subisce delle trasformazioni, dei momenti di crisi naturali che ne determinano la sua struttura dinamica. La modalità attraverso la quale si affronta tale cambiamento può sfociare in processi quali un disturbo alimentare.
E qui ritorna l’importanza della terapia familiare che deve essere sempre inclusa all’interno di un percorso di cura di una persona che soffre di un disturbo alimentare. Il laboratorio non rappresenta ovviamente una terapia. La sua risorsa principale è data dai genitori stessi che ne fanno parte. Sono loro che, attraverso le loro condivisioni, arricchiscono il laboratorio stesso. Certo, a volte alcuni temi possono creare dolore, come quando si applica una medicina su una ferita e si avverte subito una sensazione di bruciore. Ma poi, piano piano, quella ferita si cicatrizza. Il disturbo alimentare gioca a creare il vuoto intorno a se’, ma attraverso il laboratorio si cerca di costruire un riparo che possa proteggere e allo stesso tempo indicare la direzione da seguire. È attraverso la storia dell’altro, delle sue emozioni, del suo sentire che riusciamo a riconoscere le nostre emozioni, il nostro sentire, la nostra storia. Le parole divengono come gocce preziose che leniscono ogni ferita... gocce di balsamo che si posano sull’anima .
La frase della settimana : GOCCE DI BALSAMO CHE SI POSANO SULL’ANIMA.